il manifesto, 6 marzo 2018. Ecco come le organizzazioni criminali in Veneto sono entrate nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa». (m.p.r.)
Gianni Belloni e Antonio Vesco, Come pesci nell’acqua, Donzelli, € 28
La mitologica locomotiva del Nord Est è deragliata anche perché la propaganda accademica o confindustriale non poteva eclissare il binario morto: le mafie in giacca, cravatta, colletto inamidato e valigetta 24 ore.
Se lo scenario si poteva intuire già nell’altro secolo, oggi la «distrazione» istituzionale viene certificata nell’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosi Bindi: «Le organizzazioni criminali in Veneto hanno approfittato di un’insufficiente attività di prevenzione e contrasto per mimetizzarsi nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa». Di più. Edilizia e sanità pesantemente infiltrate sono servite a finanziare la nuova frontiera della holding mafiosa: «La grande distribuzione commerciale, i settori dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del turismo e delle scommesse e sale gioco, i servizi sociali e dell’accoglienza dei migranti».
È un originale, profondo, insindacabile saggio che misura, grazie al metro delle mafie, il tessuto sociale dell’ipocrisia insieme alla trama che ai buchi neri della pubblica amministrazione alterna il ricamo del business senza più regole. Belloni e Vesco hanno studiato gli squali dentro l’acquario, quanto le maree che li favoriscono. Fuor di metafora, affiorano i circuiti protetti e la rete «imprenditoriale» che azzerano il libero mercato, il controllo di legalità, l’interesse pubblico.
Come pesci nell’acqua sviluppa alcuni casi eclatanti con l’aggiunta di una sintomatica «diagnosi differenziale» del Veneto. A Verona ricostruisce il quadro dell’«altra ’ndrangheta» connessa con gli amministratori della giunta Tosi, come acclarato già da Report. A Padova, analizza l’inchiesta su Francesco Manzo che spicca perfino nell’operazione del centro direzionale di Interporto, rimasto uno scheletro: maxi-sequestro patrimoniale deciso dalla Dia di Venezia, ma revocato dal Tribunale di Padova… Poi c’è il «caso Pitarresi» che dalla provincia di Treviso conduce in Sicilia, sulla scia soprattutto dei permessi di soggiorno falsi: «Gli inquirenti calcolano che nell’arco di cinque anni, abbia maneggiato e, comunque, avuto la disponibilità di circa 15 milioni di euro».
Arriverà, invece, a sfiorare i due miliardi il giro d’affari con ramificazioni venete scoperto nell’operazione «Gambling» della Procura di Reggio Calabria. Infine, le inchieste Aspide e Catapano: secondo Belloni e Vesco, «svelano il ruolo cruciale svolto da professionisti, consulenti finanziari e procacciatori d’affari in genere nel supportare direttamente le attività delle due società. Un caso esemplare è quello del notaio Luca Arnone, di Lendinara». Come pesci nell’acqua non fa che nutrire la tesi con cui l’economista Stefano Solari dell’Università di Padova descrive il «compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati», in cui si annida il malaffare.
È la «Mafia di Venezia» denunciata, da sempre, da chi non ha piegato la testa. È lo specchio istituzionale della presenza criminale a Nord Est. È il punto di non ritorno, quando un’impresa come Mantovani fattura in funzione del Mose, la politica (dal «doge» Galan fino ai sindaci Pd) diventa intermediazione e perfino l’ex patriarca ciellino contabilizza senza remore.
Sull’argomento vedi su eddyburg anche l’articolo di Filippomaria Pontani, da “il Fatto Quotidiano”
http://www.eddyburg.it/2018/03/nord-est-la-nuova-frontiera-della.html
Il MOSE non è un caso di mafia, ma di corruzione diffusa.