La “Dichiarazione [di Lisbona] per una rivoluzione democratica” e i classici del marxismo.

Rimanendo alla categoria del mero “possibile” per cui, direbbe Hegel, “tutto è possibile”, anche una rivoluzione, democratica, pacifica è indubbiamente possibile. Tanto più che, come ricorda a ragione Lenin, non “esistono leggi storiche riguardanti le rivoluzioni e che non conoscono eccezioni” [1]. D’altra parte, però, la teoria della rivoluzione, come ogni teoria, non può che nascere dalla riflessione sull’esperienza storica, mirando a stabilire “ciò che Marx ha definito una volta ‘ideale’”, nel senso di un contesto storico “medio, normale, tipico” [2]. Dunque, sebbene vi siano casi particolarmente fortunati in cui sarà possibile una trasformazione strutturale del sistema sociale e politico senza dover “spezzare” lo stato borghese, in generale le forze rivoluzionarie saranno costrette a battersi sul campo imposto dagli avversari, dalle classi dominanti che si serviranno degli apparati repressivi dello Stato contro ogni tentativo di porre radicalmente in discussione i loro privilegi.

Per rimanere sul terreno dell’analisi concreta di una situazione concreta, emblematico è il caso venutosi a creare in Russia nella fase del dualismo di potere in seguito alla Rivoluzione di febbraio, con l’esercito in via di auto-dissoluzione: “Le armi nelle mani del popolo, la mancanza di una costrizione esterna sul popolo: ecco qual era l’essenza della situazione. Ecco ciò che apriva ed assicurava una via di pacifico sviluppo a tutta la rivoluzione” [3]. Tanto che Lenin, tornato in Russia dall’esilio svizzero, lancia immediatamente nelle Tesi di aprile la parola d’ordine: “Tutto il potere ai soviet”, ossia ai consigli dei lavoratori, operai, contadini e soldati.

D’altra parte è sempre l’analisi concreta della nuova situazione concreta – che si era venuta a determinare dopo la durissima repressione seguita alla manifestazione del Luglio 1917 che era divenuta spontaneamente insurrezionale, contro la volontà dei bolscevichi che non consideravano ancora mature le condizioni per la riuscita della rivoluzione – a portare Lenin a considerare la parola d’ordine “tutto il potere ai sovier”, sino ad allora da lui ferventemente sostenuta – anche dinanzi alla iniziale contrarietà del suo stesso partito – ormai nei fatti superata [4]. La svolta, prodottasi dal fallimento del prematuro e non adeguatamente organizzato tentativo insurrezionale, “consiste precisamente in questo: dopo di essa, la situazione obiettiva è cambiata repentinamente. L’instabilità del potere è finita. Il potere, nei punti decisivi, è passato alla controrivoluzione. Lo sviluppo dei partiti sul terreno della politica dell’accordo dei partiti piccolo-borghesi, socialista-rivoluzionario e menscevico con i cadetti controrivoluzionari ha praticamente condotto entrambi questi partiti piccolo-borghesi ad essere, di fatto, i complici e gli aiutanti dei boia controrivoluzionari” [5]. Ciò fa sì che non solo siano venute meno le condizioni eccezionali che sembravano consentire una conquista pacifica del potere, ma negli stessi soviet i bolscevichi si trovano ora in minoranza, visto che gli altri partiti precedentemente rivoluzionari sono ormai del tutto passati nel campo controrivoluzionario [6].

Lo scenario è completamente mutato in quanto il dualismo di potere, reso possibile dai rapporti di forza nei sovietfavorevoli alle forze rivoluzionarie, è venuto meno. Dinanzi alla violenta repressione delle forze che rimangono su posizioni rivoluzionarie, ovvero dei Bolscevichi, gli ex rivoluzionari – passati ora dall’altra parte della barricata – cercheranno di ingannare la maggioranza dei lavoratori non consapevoli presenti nei soviet, che “né il governo né i Soviet ne sono ‘colpevoli’”. Dinanzi a tale, ipocrita, excusatio non petita, Lenin replica: “Tanto peggio per il governo e per i Soviet, rispondiamo noi, perché in questo caso vuol dire che essi non contano nulla, che sono delle marionette, che il potere reale non è nelle loro mani” [7].

In effetti, la questione di chi detiene realmente il potere è decisiva per comprendere la forma più o meno pacifica o violenta che dovrà avere una rivoluzione che intenda realmente realizzarsi. Perciò di contro alla propaganda revisionista che, in modo dogmatico, a priori, senza tener conto di ciò che impone l’analisi determinata della situazione determinata, pretende una rivoluzione non violenta, Lenin sostiene che nella nuova condizione venutasi a determinare “è particolarmente importante che gli operai coscienti vedano chiaramente a fondo il problema fondamentale della rivoluzione: nelle mani di chi è in questo momento il potere statale? Pensate quale ne sono le manifestazioni materiali, non scambiate le parole coi fatti, e non vi sarà difficile trovare la risposta. Lo Stato consta innanzitutto – scriveva Engels – di reparti di uomini armati, con appendici reali come le prigioni. Oggi questi reparti sono gli allievi ufficiali e i cosacchi reazionari chiamati appositamente a Pietrogrado, sono coloro che tengono in prigione Kamenev e altri, coloro che hanno proibito la pubblicazione della Pravda, coloro che hanno disarmato gli operai e una parte dei soldati, coloro che hanno fucilato una parte determinata dei soldati” [8].

Sì è così nuovamente reimposta la situazione che Lenin definiva “media, normale, tipica”, in cui, al contrario di quanto vuole dare a intendere il revisionismo, non si tratta, per usare la nota espressione marxiana del 18 Brumaio, semplicemente di impadronirsi della “macchina statale già pronta” della borghesia, ma occorre necessariamente “spezzare, demolire” tale apparato militare e burocratico che opprime non solo i lavoratori salariati, ma la stragrande maggioranza della stessa piccola-borghesia condannata quasi inevitabilmente alla bancarotta dinanzi al capitale monopolistico [9]. Dunque, al contrario dello Stato socialista, che tende a estinguersi nella transizione al comunismo, lo Stato capitalista deve essere abbattuto [10]. Perciò come sottolinea Lenin, richiamandosi ancora a Marx, “Spezzare la macchina burocratica e militare”: “in queste parole è espresso in modo incisivo l’insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato. E proprio questo è l’insegnamento che non solo è stato assolutamente dimenticato, ma addirittura deformato dall’‘interpretazione’ dominante, kautskiana, del marxismo!” [11].

Tanto più che la necessità stessa di costituire un blocco sociale fra proletari e ceti medi e piccolo borghesi, egemonizzata dai primi, è resa possibile proprio dalla funzione di dittatura di classe che lo Stato svolge nelle situazioni “medie, normali, tipiche”. Al punto che Lenin sostiene: “Queste due classi sono unite dal fatto che la ‘macchina burocratica e militare dello Stato’ le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del ‘popolo’, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la ‘condizione preliminare’ della libera alleanza”, allora “dei contadini poveri con i proletari”, oggi presumibilmente dei settori dei ceti medi e della piccola borghesia in via di proletarizzazione. Tanto più che, come sottolinea Lenin, senza questo blocco sociale delle classi subalterne, “Senza quest’alleanza non è possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista” [12].

Note

[1] V. I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (novembre 1918), in Operecomplete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 28, p. 242.

[2] Ibidem.

[3] V. I. Lenin, Sulle Parole d’ordine (luglio 1917), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 133.

[4] “Questa parola d’ordine era giusta durante il periodo definitivamente chiuso della nostra rivoluzione, che va, poniamo, dal 27 febbraio al 4 luglio. Questa parola d’ordine, è chiaro, oggi non è più giusta” Ivi,p. 132.

[5] Ivi, p. 134.

[6] Si viene così a creare la situazione paradossale che persino “Nei soviet i signori ministri ‘socialisti’ ingannano con la loro fraseologia e le loro risoluzioni i fiduciosi mugik. Nel governo si balla una quadriglia permanente, da un lato, per sistemare a turno attorno alla ‘torta’ dei posticini remunerativi e onorifici il più gran numero possibile di socialisti-rivoluzionari e di menscevichi; dall’altro lato, per ‘occupare l’attenzione’ del popolo. E nelle cancellerie, negli stati maggiori ‘si sbrigano’ le faccende ‘dello Stato’” Id., Stato eRivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (agosto-settembre 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 161.

[7] Id., Sulle parole… op. cit.: 137.

[8] Ivi, p. 136.

[9] Per quanto riguarda l’enorme rafforzamento dell’apparato burocratico-militare e, più in generale, degli apparati repressivi dello Stato, una svolta decisiva si ha con la Prima guerra imperialista mondiale, in cui sorgono i moderni Stati totalitari: “Attualmente, nel 1917, nell’epoca della prima grande guerra imperialistica, questa riserva [che aveva portato il padre del socialismo scientifico a ritenere che in determinate condizioni, molto rare, fosse possibile una rivoluzione non violenta] di Marx cade: l’Inghilterra e l’America (…) sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso pantano comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono” Id., Stato e rivoluzione… op. cit., p. 153. Sullo sviluppo in senso totalitario delle nazioni borghesi durante la prima guerra imperialista mondiale si veda D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2009, pp. 166-70.

[10] “Lo Stato borghese, secondo Engels, non ‘si estingue’; esso viene ‘soppresso’ dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò che si estingue dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario o semi-Stato” V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione, op. cit., p. 143.

[11] Ivi, p. 152. Di contro alla concezione dominante revisionista, che negli ultimi anni ama addirittura discettare di come sia possibile fare la rivoluzione senza prendere il potere – cfr., ad esempio, J. Holloway, Come cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra Moenia, Napoli 2004 – Lenin, sempre richiamandosi ai classici del marxismo, afferma: “Il panegirico con cui Engels esalta la rivoluzione violenta concorda pienamente con le numerose dichiarazioni di Marx (ricordiamo la conclusione della Miseria della filosofia e del Manifesto del Partito comunista che proclama fieramente e categoricamente l’ineluttabilità della rivoluzione violenta; ricordiamo la critica del programma di Gotha nel 1875, circa trent’anni più tardi, dove Marx flagella implacabilmente l’opportunismo di questo programma). Questo panegirico non è per nulla effetto di una ‘infatuazione’, né una declamazione, né una trovata polemica. La necessità di educare sistematicamente le masse in questa – e precisamente in questa – idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx ed Engels. Il tradimento della loro dottrina perpetrato dalle tendenze socialsciovinista e kautskiana oggi dominanti si esprime con particolare rilievo nell’oblio di questapropaganda, di questa agitazione da parte dell’una e dell’altra” Ivi, p. 147.

[12] Ivi, p. 154.

05/05/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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