La decisione – sbagliata – della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna di non autorizzare il concerto degli Stato sociale, organizzato dal Comune in piazza Maggiore per metà giugno, non è solo una notizia di cronaca locale, ma credo permetta di riflettere sull’uso che facciamo delle nostre città e sull’idea di cultura, dal momento che il motivo del diniego è la mancanza dell'”alto valore culturale”, il solo che giustificherebbe l’uso di quella piazza storica. Come vedete due temi di una qualche rilevanza, perfino per questo sfortunato paese. Per inciso spero sarete solidali con me perché dover difendere una presa di posizione dell’amministrazione comunale di Bologna mi costa davvero una grandissima fatica.
Il primo errore – grave errore – di questa vicenda è stato quello di vincolare l’uso di piazza Maggiore – o di qualunque altra piazza storica del nostro paese – alla decisione di una Soprintendenza. Una piazza non può mai diventare un museo, ma è un pezzo della città, e quindi deve spettare ai cittadini – e all’amministrazione che li rappresenta – decidere cosa fare in quella piazza. E se facendo una manifestazione in quella piazza qualcosa si danneggia? Può succedere, anche se si fa molta attenzione: in quel caso la città lo aggiusterà. E se facendo qualcosa quella piazza si sporca? Questo succede sicuramente, bisogna organizzarsi per pulire dopo che quella manifestazione è finita. Secondo me l’unico discrimine è vedere se si tratta di un evento pubblico o privato, perché non puoi chiudere piazza Maggiore, una piazza deve rimanere sempre un luogo pubblico, aperto a tutti, anche se chi organizza un evento è un privato, che ovviamente in questo caso si dovrà far carico degli eventuali danni e della pulizia. Non possono esserci altre regole. La città deve sempre avere il potere di decidere cosa fare in piazza, tranne quello di “vendere” quello spazio pubblico, anche per un solo giorno, a qualcuno che lo voglia chiudere.
La piazza non è un museo, ma un teatro, in cui la città rappresenta se stessa. E’ stato fatto di tutto in piazza Maggiore: feste, concerti, incoronazioni, funerali, grandi manifestazioni politiche – qualcuna l’ho organizzata anch’io – sono stati montati palchi, strutture di barocca complessità. Nel 1655, per rendere omaggio alla regina di Svezia, la giostra di quell’anno fu fatta su una grande nave, la cui prua toccava la facciata del palazzo dei Banchi, all’altezza di via Pescherie, e la poppa era appoggiata alla ringhiera sopra la porta di palazzo d’Accursio. Immagino che oggi la Soprintendenza non darebbe il permesso. E piazza Maggiore è ancora lì, in attesa di altri eventi per raccontare la città e i suoi cambiamenti. Poi ci può non piacere come la città si rappresenta, ma forse perché non ci piace neppure quello che la città è diventata.
Per almeno cinque secoli la sera del 24 agosto, la sera di san Bartolomeo, si svolgeva la “festa della porchetta” così chiamata perché “una porcellina arrostita di honesta grandezza” veniva gettata al popolo dal palazzo del Podestà e “quella sera ogn’uno ha del porco, ogn’uno s’unge il muso, ogn’uno sguazza”. Così allora la città si raccontava, come oggi vorrebbe raccontarsi con le canzoni: è giusto che sia così. E tra quattro secoli qualcuno in un blog scriverà dei concerti che si facevano in quella piazza, dai Clash agli Stato sociale, passando per Dino Sarti.
Era il 1974, erano gli anni dell’austerity a seguito della crisi petrolifera del ’73, e il sindaco Renato Zangheri chiese a Dino Sarti di esibirsi il 14 agosto in piazza Maggiore. L’Estate romana sarebbe cominciata tre anni dopo, allora le città d’agosto sembravano deserte, un cartello dopo l’altro di “chiuso per ferie”, eppure quella piazza si riempì, perché erano tante le persone che erano a casa e Zangheri lo aveva capito. Dino Sarti con le sue simpatiche canzoni metà in italiano e metà in dialetto, con le versioni in bolognese di Brel e Bécaud, con le vecchie canzonette di Carlo Musi, sarebbe stato considerato di “alto valore culturale”? Probabilmente no, almeno per chi pensa che solo “certa” musica sia cultura. E il professor Zangheri non era certo persona a cui mancasse gusto musicale, sarebbe stato probabilmente più consono alle sue corde organizzare un concerto lirico o sinfonico, ma scelse Dino Sarti, perché voleva che fosse un appuntamento della città, di tutta la città. E per molti anni Bologna volle raccontare se stessa anche attraverso quel concerto del 14 agosto, che veniva ripetuto, con le stesse rassicuranti canzoni che tutti conoscevano, con le battute di Dino Sarti che tutti ormai si aspettavano. Aveva ragione Zangheri: quella era cultura, perché quello allora univa in qualche modo una comunità, la raccontava. Pare che il soprintendente abbia detto che non conosce gli Stato sociale: può succedere, in fondo non è così grave; è più grave, visto l’incarico che ha, che non conosca il significato di cultura.
Liberiamo le città da questa burocrazia ignorante che le vuole far morire. Liberiamo la musica e ogni altra espressione artistica da chi vuol decidere cosa è cultura e cosa no.

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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