Processo Uva. Le motivazioni di una «assoluzione pericolosa»: forse il cuore, forse lo stress ma carabinieri e poliziotti fecero il loro dovere
Che suo fratello, Giuseppe Uva, sia stato ucciso dallo stress, Lucia lo ha saputo dai giornali stamattina. Le motivazioni della clamorosa assoluzione di carabinieri e poliziotti che ebbero in custodia la vita di suo fratello l’ultima notte della sua esistenza, non le ha ancora lette, sono arrivate un mese prima del previsto. Come noi si è accontentata, per ora, delle anticipazioni di stampa. Poi il nuovo capitolo in Cassazione dove, probabilmente, ricorrerà anche la Procura di Milano.
«Non si può individuare con assoluta certezza» che cosa abbia scatenato lo stress che, insieme ad altre concause, avrebbe provocato la morte di Giuseppe Uva, già affetto da una grave patologia cardiaca, di cui né lo stesso operaio né gli imputati erano a conoscenza. E per questo motivo non si può sostenere la sussistenza del «nesso causale» tra le condotte degli imputati e la morte dell’operaio. Così i giudici della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti. I giudici, che hanno confermato le assoluzioni già decise in primo grado dal Tribunale varesino, scrivono inoltre che «non si può sostenere che se i carabinieri avessero lasciato perdere Giuseppe Uva quella sera e fatto finta di non accorgersi della strada bloccata, questi non sarebbe ugualmente morto». Secondo la Corte, il 43enne quella sera si era «volontariamente posto in una condizione di elevato rischio, assumendo smodate quantità di alcol» e che «se si parla di stress, occorre tenere conto di altri fattori (?) quali la contenzione sanitaria, il Tso, il ricovero ospedaliero».
Fu «doverosa ed esigibile» la condotta dei due militari che per primi fermarono per strada Giuseppe Uva, perchè volta impedire che si creassero «situazioni di rischio per l’incolumità pubblica» e non, come invece sostenuto dal sostituto pg Massimo Gaballo, dargli «una lezione» perché Uva si sarebbe vantato di una presunta relazione sentimentale con la moglie di uno dei due. Lo scrivono i giudici della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano. L’impianto accusatorio della Procura si basava infatti anche sulle dichiarazioni rese in primo grado dall’amico di Uva, nonché testimone oculare, Alberto Biggiogero. Quest’ultimo, attualmente in carcere dal 2017 per l’omicidio del padre, aveva infatti riferito di avere sentito quella sera uno dei due carabinieri pronunciare la frase: «Uva, proprio te cercavo!». Biggiogero è stato giudicato inattendibile perchè «soggetto molto problematico (…) come attestato dai numerosissimi ricoveri a cui è stato sottoposto per problemi psichici nel corso degli anni». «Se i due carabinieri avessero voluto ‘dare una lezione’ a Uva, quale migliore occasione di quella notte, nella città deserta, essendo sia lui che l’amico che lo accompagnava entrambi completamente ubriachi? Non solo (?) sarebbe stato altrettanto facile ‘calcare’ ulteriormente la mano e redigere un verbale a carico dei due (in particolare a carico di Uva) per plurimi e gravi reati», aggiungono.
Per dovere di cronaca è necessario ricordare tutti i dubbi di una assoluzione così clamorosa per i 6 poliziotti e i 2 carabinieri imputati dell’omicidio preterintenzionale, sequestro persona, abbandono di incapace, abuso di autorità nei confronti di Giuseppe Uva, il 13 giugno di dieci anni fa, a Varese dopo un arresto illegittimo, secondo la parte civile, e un passaggio in caserma da cui sarebbe uscito così malconcio da essere trasportato in ospedale. I giudici della prima corte d’assise d’appello di Milano presieduti da Maria Grazia Bernini rispetto alla sentenza di primo grado, nell’assolvere tutti gli imputati hanno scagionato con una formula più ampia anche i due carabinieri. Che si trattasse di «Una sentenza pericolosa», lo aveva detto anche l’avvocato difensore della famiglia Uva, Fabio Ambrosetti il giorno della sentenza, a maggio, «sinceramente molto stupito dalla sentenza in particolare sul primo capo di imputazione, il sequestro di persona. Preoccupa soprattutto che ci possa essere una limitazione della libertà personale quando non ci sono esigenze di identificazione o ragioni reali. Il sostituto pg MassimoGaballo aveva chiesto di condannare a 13 anni i due militari e a 10 anni e mezzo i sei agenti: la morte dell’operaio fu una conseguenza, insieme ad altre cause, tra cui una sua pregressa patologia cardiaca, delle «condotte illecite» degli imputati. Condotte scaturite dalla decisione dei due carabinieri di «dare una lezione» al 43enne, che si sarebbe vantato di una presunta relazione sentimentale con la moglie di uno dei due. Una ricostruzione contro la quale si sono battuti i difensori degli imputati in divisa, tra i quali Ignazio La Russa, senatore di Fratelli d’Italia, lo stesso che nel 2009 da ministro della Difesa sostenne a spada tratta l’estraneità dei carabinieri dalla morte di Stefano Cucchi. «Nessuna macelleria, nessuna azione di violenza» e l’accusa «è stata gonfiata» per effetto «di un aspetto mediatico e televisivo che ha spettacolarizzato la vicenda», ha detto in aula La Russa. In più, il sostituto pg Massimo Gaballo «è arrivato a creare uno scenario, denigrando il lavoro di tutti i pm, dei giudici, dei testimoni e degli avvocati che hanno lavorato a questo processo», a causa «della debolezza degli strumenti accusatori». Per La Russa sul processo ha inciso «un pregiudizio negativo nei confronti delle forze dell’ordine, che è ipotizzabile, perché se un uomo è morto dopo essere stato lecitamente fermato e portato in caserma deve essere ‘per forza’ colpa della polizia e dei carabinieri». Anche un altro dei difensori, Fabio Sgembri, prima di chiedere l’assoluzione per i suoi assistiti e di cancellare pure il reato di sequestro di persona, ha attaccato il pg e pure la sorella di Uva. E’ quello che la Corte europea di giustizia ha stigmatizzato come vittimizzazione secondaria, la tendenza a mettere sotto accusa le vittime e i loro familiari nel corso di processi a uomini in divisa. Una tendenza segnalata dall’associazione contro gli abusi in divisa, Acad, che ha seguito il processo con alcuni dei suoi attivisti lombardi e, nei suoi interventi pubblici, anche da Enrico Zucca, procuratore generale a Genova, ora e pubblica accusa del processo Diaz dopo il G8 del 2001.
Giuseppe Uva aveva 43 anni quando fu fermato da due carabinieri mentre stava spostando delle transenne nel centro di Varese. Era notte e, assieme a un amico, voleva solo fare una goliardata. Fu poi trattenuto in caserma per alcune ore e trasportato all’ospedale di Circolo della città lombarda, dove morì per arresto cardiaco la mattina successiva. Secondo i legali di parte civile, l’operaio quella sera fu «arrestato illegalmente» per un reato di lieve entità, ovvero disturbo della quieta pubblica.