di Walden Bello

E’ oggi chiaro che le crisi finanziarie non sono eventi isolati ma sono fenomeni collegati che sono stati scatenati sul globo fin da quando i mercati finanziari sono stati liberalizzati nell’era Reagan-Thatcher nei primi anni ’80. Per citare solo i tre crolli di maggior impatto, capitale in eccesso che non riusciva a trovare canali nazionali redditizi dopo lo scoppio della bolla giapponese trovò la via come capitale speculativo nell’Asia Sud-orientale, dove contribuì alla crisi finanziaria asiatica del 1997-98; la crisi asiatica, a sua volta, contribuì a generare l’implosione di Wall Street nel 2008 dovuta alla canalizzazione delle riserve finanziarie di paesi asiatici negli USA – accumulate per proteggersi da una replica del 1997 – dove contribuirono ad alimentare il boom immobiliare dei mutui suprime.

La turbolenza che ha colpito i mercati azionari lo scorso febbraio, causando grande spavento è una perdita sulla carta di 4 trilioni di dollari, è stata un avvertimento che prossime grandi implosioni possono essere giusto dietro l’angolo. Uno studio appena concluso del Transnational Institute (TNI) rivela che in dieci aree critiche nelle quali sono necessarie grandi riforme, sono state prese poche misure, o nessuna, per prevenire una ripetizione del 2008. Queste aree spaziano dal sistema bancario ombra alle riserve frazionarie delle banche, alla gestione finanziaria globale e alla responsabilità delle banche centrali.

Nuovamente su un ghiaccio sottile

Così, non sorprendentemente, indicatori attuali mostrano che il mondo sta di nuovo pattinando su un ghiaccio sottile.

Innanzitutto il problema delle “troppo grandi per fallire” si è aggravato. Le grandi banche salvate dal governo statunitense nel 2008 perché erano considerate troppo grandi per fallire sono divenute ancor più troppo grandi per fallire, con le “Grandi Sei” banche statunitensi – JP Morgan Chase, Citigroup, Wells Fargo, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley – che detengono collettivamente il 43 per cento in più di depositi, l’84 per cento in più di attivi e tre volte la liquidità che detenevano prima della crisi del 2008. Essenzialmente hanno raddoppiato il rischio che ha abbattuto il sistema bancario nel 2008.

Secondo: i prodotti che hanno innescato la crisi del 2008 continuano a essere scambiati. Ciò include circa 6,7 trilioni di dollari in giro di obbligazioni coperte da mutui (MBS), il cui valore è stato mantenuto solo perché la Federal Reserve ne ha acquistato 1,7 trilioni di dollari.

Le banche statunitensi detengono collettivamente 157 trilioni di dollari di derivati, circa il doppio del PIL globale. E’ il 12 per cento in più di quanti ne possedevano all’inizio della crisi del 2008. La sola Citigroup ne ha 44 trilioni, cioè il 50 per cento in più di quanti ne deteneva prima della crisi, suscitando il commento sarcastico di un analista che la banca pare “aver dimenticato quando valevano un dollaro ad azione”, alludendo al valore minimo dei derivati della banca nel 2009.

Terzo: le nuove stelle del firmamento finanziario, il consorzio di investitori istituzionali costituito dai fondi speculativi, dai fondi di capitale non quotato, dai fondi sovrani, dai fondi previdenziali e da altre entità investitrici continuano a vagabondare incontrollati nella rete globale, operando da basi virtuali chiamate paradisi fiscali, cercando opportunità di arbitraggio in valute e titoli, o studiando la redditività di imprese per possibili acquisti di azioni. La proprietà degli stimati 100 trilioni di dollari nelle mani di questi rifugi fiscali fluttuanti per i super-ricchi è concentrata in venti fondi.

Quarto: gli operatori finanziari stanno accumulando profitti in un mare di liquidità messa a disposizione da banche centrali la cui emissione di denaro a buon mercato ha determinato l’emissione di trilioni di dollari di debito, spingendo il livello del debito globale a 325 trilioni di dollari, più di tre volte il PIL globale. C’è unanimità tra gli economisti dell’intero spettro politico che questo accumulo di debito non può andare avanti indefinitamente senza causare una catastrofe.

 

Cina: epicentro del nuovo Big Bank?

E’ difficile predire dove avrà luogo la prossima implosione finanziaria. Ci sono, tuttavia, diversi candidati. Uno di essi è la Cina. Un esame attento dello stato finanziario di questo paese mostrerebbe che ci sono motivi per preoccuparsi.

Il senso comune ritiene che la Cina sia in ascesa e gli Stati Uniti siano in declino; che l’economia della Cina stia ruggendo con un’energia infiammata e che il megaprogetto della “Belt and Road” di Pechino di costruzioni infrastrutturali in Asia Centrale, Meridionale e Sud-orientale stia creando le basi per la sua egemonia economica globale.

Alcuni si chiedono se le ambizioni di Pechino siano sostenibili. La disuguaglianza in Cina si sta avvicinando a quella degli Stati Uniti, il che preannuncia un crescente scontento interno, mentre i gravi problemi ambientali della Cina possono imporre limiti inesorabili alla sua espansione economica.

Forse la maggiore minaccia immediata all’ascesa della Cina alla supremazia economica, tuttavia, è lo stesso fenomeno che ha abbattuto l’economia statunitense nel 2008: la finanziarizzazione, cioè la canalizzazione di risorse dall’economia finanziaria prima che a quella reale. In realtà ci sono tre segnali inquietanti che la Cina sia un principale candidato a essere sede della prossima crisi finanziaria: surriscaldamento del settore immobiliare, un mercato azionario sulle montagne russe e un settore bancario ombra in rapida crescita.

La bolla immobiliare

E’ fuor di dubbio che la Cina sia già nel mezzo di una bolla immobiliare. Come negli Stati Uniti durante la bolla dei mutui subprime culminata nella crisi finanziaria globale del 2007-09, il mercato immobiliare ha attirato troppi speculatori ricchi e della classe media, determinando una frenesia che ha visto i prezzi degli immobili crescere bruscamente.

I prezzi cinesi degli immobili sono saliti alle stelle nelle città del cosiddetto Livello 1, come Pechino e Shanghai, dal 2015 al 2017 inducendo autorità locali preoccupate ad adottare misure per sgonfiare la bolla. Grandi città, tra cui Pechino, hanno imposto varie misure: hanno aumentato la prescrizione dei pagamenti anticipati, irrigidito le restrizioni ai mutui, vietato la rivendita delle proprietà per diversi anni e limitato il numero di case che si possono acquistare.

Tuttavia le autorità cinesi si trovano di fronte a un dilemma. Da un lato i lavoratori lamentano che la bolla ha posto gli appartamenti di proprietà e in affitto fuori dalla loro portata, in tal modo alimentando instabilità sociale. Dall’altro una brusca caduta dei prezzi degli immobili potrebbe contrarre il resto dell’economia cinese e – considerato il ruolo centrale della Cina come fonte di domanda internazionale – il resto dell’economia globale assieme a essa. Il settore immobiliare cinese rappresenta uno stimato 15 per cento del PIL e il 20 per cento della domanda nazionale di prestiti. Così, secondo gli esperti bancari cinesi Andrew Sheng e Ng Chow Soon, qualsiasi rallentamento influenzerebbe “negativamente le industrie collegate all’edilizia assieme all’intera catena di fornitura, compresi acciaio, cemento e altri materiali da costruzione”.

Un mercato azionario sulle montagne russe

La repressione finanziaria – mantenimento in basso dei tassi d’interesse per sovvenzionare la potente alleanza cinese delle industrie esportatrici e delle amministrazioni delle province costiere – è stata centrale nello spingere gli investitori alla speculazione immobiliare. Tuttavia crescenti incertezze in quel settore hanno fatto sì che investitori della classe media ricercassero rendimenti maggiori nel mercato azionare scarsamente regolamentato del paese. Risultato disgraziato: molti cinesi hanno perso le loro fortune quando i prezzi delle azioni sono fluttuati pesantemente. Già nel 2001 Wu Jinglian, diffusamente considerato il principale economista riformatore del paese, descrisse le borse di Shanghai e Shenzhen devastate dalla corruzione come “peggio di un casinò” in cui gli investitori perderebbero inevitabilmente il loro denaro nel lungo termine.

Al picco del mercato di Shanghai, nel giugno del 2015, un analista di Bloombergha scritto che “nessun altro mercato azionario è cresciuto così tanto in termini di dollari in un periodo di 12 mesi” segnalando che i guadagni dell’anno precedente erano stati maggiori “dei 5 trilioni di dimensione dell’intero mercato azionario giapponese”.

Quando, in seguito quell’estate, l’indice di Shanghai è precipitato del 40 per cento, gli investitori cinesi sono stati colpiti da grandi perdite, debiti con i quali ancora combattono oggi. Molti hanno perso tutti i loro risparmi, una considerevole tragedia per gli individui (e un’incombente crisi nazionale) in un paese con un sistema di previdenza sociale così scarsamente sviluppato.

Il mercato azionario cinese, oggi il secondo più vasto del mondo secondo alcuni, si è stabilizzato nel 2017 e sembrava aver recuperato la fiducia degli investitori quando sono stati colpiti dal contagio della svendita globale di azioni a febbraio 2018, registrando una delle maggiori perdite dopo il collasso del 2015.

L’ombra lunga del settore bancario ombra

Un’altra fonte di instabilità finanziaria è il virtuale monopolio dell’accesso al credito detenuto dalle industrie orientate all’esportazione, dalle imprese statali e dalle amministrazioni statali di regioni costiere privilegiate. Con la domanda di credito da una moltitudine di imprese private non soddisfatta dal settore bancario ufficiale, il vuoto è stato rapidamente colmato dalle cosiddette banche ombra.

Il settore bancario ombra è forse meglio definito come una rete di intermediari finanziari le cui attività e prodotti sono esterni al sistema bancario formale, disciplinato dal governo. Molte delle transazioni del sistema bancario ombra non sono riflesse nei regolari bilanci delle istituzioni finanziarie del paese. Ma quando ha luogo una crisi di liquidità, la finzione di un veicolo d’investimento indipendente è fatta a pezzi da creditori che inseriscono nelle valutazioni finanziarie dell’istituzione madre queste transazioni fuori bilancio.

Il sistema bancario ombra in Cina non è ancora sofisticato come i suoi omologhi di Wall Street e Londra, ma ci sta arrivando. Stime a spanne degli scambi attuati nel settore bancario ombra cinese variano da 10 trilioni a più di 18 trilioni.

Nel 2013, secondo uno degli studi più autorevoli, la dimensione delle attività a rischio del settore bancario ombra – cioè attività caratterizzate da grande volatilità, come azioni e proprietà immobiliari – è arrivato al 53 per cento del PIL cinese. Può sembrare poco se confrontato con la media globale di circa il 120 per cento del PIL, ma la realtà è che molti di questi creditori del settore bancario ombra hanno raccolto il loro capitale indebitandosi presso il settore bancario formale. Questi prestiti sono o registrati in contabilità o “nascosti” in speciali veicoli fuori bilancio. Se dovesse seguire una crisi delle banche ombra si stima che fino a metà dei prestiti in sofferenza potrebbe essere “trasferita” al settore bancario formale, in tal modo minando anch’esso. Inoltre il settore bancario ombra è pesantemente impegnato in trust immobiliari. Così una brusca caduta delle valutazioni delle proprietà avrebbe immediatamente un impatto negativo sul settore bancario ombra; i creditori sarebbero lasciati a rincorrere immobiliaristi in bancarotta o a detenere immobili fortemente deprezzati come collaterale.

La Cina è, di fatto, ancora distante da una crisi in stile Lehman Brothers? In modo interessante, Sheng e Ng indicano che anche se “il problema delle banche ombra in Cina è ancora gestibile… il tempo è essenziale e un pacchetto complessivo di politiche è urgentemente necessario per prevenire qualsiasi aggravamento degli NPL (crediti in sofferenza) del settore bancario ombra che potrebbe avere un effetto contagio”. Pechino sta ora operando un giro di vite sulle banche ombra, ma esse sono elusive, e a meno che ci sia una riforma fondamentale del suo sistema nazionale del credito che ponga fine al virtuale monopolio del sistema bancario da parte del complesso economico orientato all’esportazione, ci sarà sempre una forte domanda di queste entità confidenziali.

In sintesi, la finanza è il tallone d’Achille dell’economia cinese. La sinergia negativa tra un settore immobiliare in surriscaldamento, un mercato azionario volatile e un sistema bancario ombra incontrollato potrebbe ben essere la causa della prossima grande crisi a colpire l’economia globale, rivaleggiando con la gravità della crisi finanziaria asiatica del 1997-98 e con l’implosione finanziaria globale del 2008-09.

Anche se la maggior parte dei protagonisti del mercato immobiliare e di quello azionario cinese è costituita da cinesi, un terremoto speculativo nel paese probabilmente avrebbe un pesante impatto sulla vasta proprietà cinese di titoli del tesoro statunitense e sull’economia reale della Cina, diventata strettamente integrata con l’economia globale. Così un grande impatto di un simile evento sull’economia globale è inevitabile. Nel 2008 la Cina non era un acquirente significativo di obbligazioni di Wall Street coperte da mutui e di altri derivati complessi. Anche se si è sottratta alle conseguenze immediate del collasso di tali strumenti di Wall Street, è stata colpita indirettamente, quando l’economia reale degli USA si è contratta, riducendo fortemente le esportazioni cinesi negli USA e determinando una considerevole riduzione della crescita del PIL cinese nel 2008 e 2009. Oggi con la Cina grande consumatrice di materie prime e prodotti agricoli dai paesi in via di sviluppo e di importazioni agricole e di tecnologie avanzate da USA ed Europa, gran parte del resto del mondo subirebbe un impatto negativo dal crollo dell’economia reale cinese innescato da una crisi del suo settore finanziario.

Le giravolte della finanza globale continuano a costituire una minaccia per l’economia mondiale e la continua assenza di regole efficaci fa sì che possano essere accumulate bolle speculative in nodi differenti dell’economia mondiale. Oggi la bolla potrebbe gonfiarsi in Cina. Domani potrebbe essere in Germania. Quando le bolle crescono, interagiscono con altri fattori economici e persino geopolitici, ne segue grande incertezza, molto simile all’ansia che ha afferrato il mondo quando il mercato azionario ha avviato una spirale al ribasso a febbraio 2018 determinando quattro trilioni di dollari di perdite virtuali. Il tumulto del 2018 nel mercato azionario è passato, ma il prossimo potrebbe non sgonfiarsi senza uno scoppio.

 

Che cosa si deve fare?

Nello studio recentemente completato del TNI è esposta in dettaglio la logica di 10 grandi imperativi per il settore finanziario globale. Sono: 1) limitare le attività dei fondi speculativi [hedge] e chiudere i paradisi fiscali; 2) vietare le obbligazioni assistite da mutui e i relativi derivati; 3) muovere in direzione di riserve bancarie al 100 per cento; 4) nazionalizzare istituzioni finanziarie che sono “troppo grandi per fallire”; 5) ripristinare la legge Glass Steagall che frapponeva una Muraglia Cinese tra le attività bancarie commerciali e quelle d’investimento; 6) porre limiti drastici alle remunerazioni dei dirigenti; 7) eliminare gradualmente le agenzie di rating creditizio; 8) convocare una nuova Conferenza di Bretton Woods per creare nuove istituzioni e regole per la gestione finanziaria globale, por fine al monopolio del dollaro come moneta globale di riserva e creare nuove, eque soluzione per la finanza dello sviluppo e del clima; 9) rendere chiamate a rispondere le banche centrali e 10) muovere in direzione di una completa unione politica, fiscale e monetaria dei paesi dell’eurozona o uscire dall’euro.

Le misure proposte appena citate, va segnalato, costituiscono un “programma minimo”, cioè un insieme di mosse che rafforzano le difese mondiali contro un altro crollo finanziario, pur non eliminando la possibilità di un evento simile. Il capitalismo come sistema è strutturalmente incline a generare crisi finanziarie e il programma delineato più sopra presuppone un sistema economico globale che continui a operare secondo le regole del capitalismo. La riuscita attuazione di queste riforme sarà un passo da gigante in un processo più lungo di cambiamento trasformativo. Tale cambiamento, tuttavia, non può aver luogo senza affrontare in modo fondamentale tutte le altre dimensioni chiave del capitalismo, specialmente il suo motore: l’insaziabile desiderio di profitti sempre maggiori.

 

Capitalismo riformato o post-capitalismo?

In definitiva sono le dinamiche dell’economia reale che sono i determinanti veri degli sviluppi dell’economia finanziaria. Non si tratta di un’idea nuova. Dalla prospettiva di economisti marxisti le giravolte dell’economia finanziaria sono la conseguenza di contraddizioni profondamente radicate dell’economia reale, in particolare la tendenza all’eccesso di produzione o l’offerta che supera la domanda a causa della persistenza di una grande disuguaglianza.

Se il problema è la debolezza della domanda nell’economia reale determinata dalla disuguaglianza, allora è evidente che le misure assunte negli ultimi anni dalle autorità finanziarie, quali l’alleggerimento quantitativo e i tassi d’interesse negativi, possono apportare un sollievo solo molto limitato e temporaneo all’economia in crisi e possono in realtà aggravare la crisi nel medio termine. In effetti, senza affrontare la crisi della domanda nell’economia reale, un settore finanziario riformato troverebbe difficile resistere a lungo alle intense pressioni perché il capitale cerchi redditività nella finanzia, piuttosto che in un settore produttivo stagnante.

Per alcuni la necessità più urgente è la riforma del capitalismo. Un programma di riforme della finanza dovrebbe essere integrato in un più complessivo programma di riforma del capitalismo. Questa impresa dovrebbe affrontare seriamente la carenza di domanda radicata nella crescente disuguaglianza. Dovrebbe riconoscere coraggiosamente le sue radici nelle relazioni disuguali di potere tra capitale e lavoro, come tale potere diseguale si traduce in una crescente disuguaglianza e come la disuguaglianza si traduce in una domanda anemica che agisce da freno all’espansione della produzione.

Per altri la costante ricerca di redditività da parte del capitalismo è una fonte fondamentale di instabilità che alla fine mina tutti i tentativi di riformarlo, come accaduto con il keynesismo postbellico nei tardi anni ’70. Inoltre ciò che va affrontato non è solo da disuguaglianza socioeconomica ma la spinta del sistema produttivo a crescere a spese della biosfera. Quello che è necessario, dicono, è un programma post-capitalista, reso tanto più urgente dalla catastrofe climatica che si sta già dispiegando.

Una cosa è certa. Le sollecitazioni dei riformatori del sistema a un rinnovato impegno alla globalizzazione capitalista dopo l’opposizione alle riforme neoliberiste sono fuori questione. Queste sollecitazioni sono radicate in una fede infantile che, nel lungo periodo, queste misure condurranno al migliore dei mondi possibili. La via in avanti, è sempre più chiaro, sarà largamente determinata dal risultato della lotta politica tra due campi post-globalizzazione.

Uno sposa un programma difensivo che comporta la gestione statale dell’economia ma lascia largamente inalterato il modo di produzione capitalista (assieme alle disuguaglianze di classe) anche se con privilegi discriminatori per le comunità basate su etnia, sangue e razza (cioè i bianchi) e con confini sigillati ai migranti.

Il secondo sposa una gestione statale e della società civile più forte dell’economia, che vada oltre il capitalismo, con una forte dove di radicale ridistribuzione del reddito e della ricchezza, accogliendo contemporaneamente i migranti e proteggendo i processi democratici.

Non si mancherebbe di molto il bersaglio descrivendo questo confronto come tra fascismo e socialdemocrazia.

Walden Bello è membro del Transnational Institute con sede a Amsterdam e docente internazionale aggiunto di sociologia presso l’Università dello Stato di New York a Binghamton e autore di 21 libri, tra cui quello di imminente pubblicazione ‘The Fall of China? Preventing the Next Crash’ (London: Zed Books 2019) sul quale è basato questo articolo.

 

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/why-financial-sector-reform-is-not-enough/

Originale: TNI

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: