L’ha citata anche Zingaretti nel suo libro dei sogni, il discorso fatto appena dopo la vittoria alle primarie del PD: si tratta di una ragazza svedese di sedici anni, una studentessa di nome Greta Thunberg: ogni venerdì prende un cartello con sopra scritto “Skolstreik för climatet” (“Sciopero della scuola per il clima”) e va a sedersi in piazza dall’agosto dello scorso anno, dopo che il caldo estivo ha provocato veri e propri incendi nei boschi del suo paese. Promossa “donna dell’anno” dai giornali svedesi, intorno alla sua protesta solitaria si è sviluppata una empatia planetaria, diventata “movimento” e che anche in Italia promuove manifestazioni, scioperi studenteschi e momenti di riflessione sul grave tema del surriscaldamento del pianeta e quindi la prospettiva di una estinzione della specie umana (e non solo di quella…). Dopo aver tradotto alcuni appelli dallo svedese e dall’inglese con qualche difficoltà, leggo che le manifestazioni sono “apartitiche”, senza colore, senza identità e che la piattaforma rivendicativa si fonda sulla partecipazione popolare di massa senza identità precise. Forse una identità non è poi nemmeno indispensabile per milioni e milioni di persone: forse molti hanno rinunciato ad attribuire alle sventure climatiche che ci capitano una precisa origine nello sfruttamento intensivo di ogni risorsa della Terra e quindi chi di ciò fa anche una battaglia politica contro il capitalismo che genera proprio tutto questo sistema di impoverimento del pianeta, viene visto come uni speculatore ideologizzante, come colui che vuole piantare la “bandierina” su una lotta “che è di tutti”. Certo che lo è, e proprio per questo deve trovare una sua direzione, deve poter essere un veicolo di riappropriazione della coscienza sociale ed ecologista che è parte di tante altre lotte che vanno fatte contro il sistema economico in cui viviamo. Qualcuno su Facebook mi invita ad essere serio, a non ridurre il tutto ad un “problema sul portare o meno le bandiere di partito”. Io penso che sia un problema la non caratterizzazione politica di una lotta: non partitica, ma politica. Far apparire questa lotta ecologista come interclassista e consentire che sia strumentalizzata anche da quelle forze antisociali che ogni giorno lavorano proprio per accaparrarsi profitti e sfruttare le energie di una pallina nell’Universo che avrà ancora circa 4 miliardi e mezzo di anni di vita (vita del Sole permettendo…), è forse un servizio che facciamo alla lotta stessa? Liberare le energie civili dal loro necessario aspetto “sociale” è forse utile? Si parla di partecipazione della “società civile”, per l’appunto, ma in realtà si intende mettere da parte sempre la natura di classe di una lotta, rendendola incolore, priva di interesse specifico e volta soltanto ad un generico “appello all’umanità” per salvare la casa in cui viviamo. Non è necessario che una lotta sociale sia egemonizzata da una forza politica sola (anche se un pure ipotetico sbocco rivoluzionario prevede a priori comunque una forma di egemonia culturale, politica e pertanto sociale), ma è necessario che le identità che si riconoscono in quella lotta si possano esprimere liberamente con la presenza fisica dei loro corpi e con gli emblemi che sono la loro identità. Sì, perché le identità siano preziose e che le manifestazioni debbano poter essere “libere” a meno che non siano specificamente convocate da una forza politica ben definita o da una associazione altrettanto tale. Qui non si sa nemmeno chi la promuove e chi la convoca. Consentiamoci un po’ cinismo, realistico, eviscerato da una quotidianità desolante: se la specie si estinguesse ne gioverebbe all’universo intero, non solo alla Terra, visto come la trattiamo. Ma, considerazioni facete a parte, una manifestazione anche mondiale non risolve certo il problema. Nobile causa e ottima lotta ma sarebbe utile che queste grandi manifestazioni avessero invece una caratterizzazione politica e al diavolo se ciò risulta “divisivo”. Questa idea che si debba includere sempre tutto e tutti è di un qualunquismo aberrante: si finisce con l’autoassolversi tutti individualmente dicendoci: “O come siamo bravi: siamo ecologisti e marciamo per la salvezza della terra” e poi il giorno seguente ognuno continua a non fare la raccolta differenziata, ad infischiarsene dei trasporti pubblici o di uno scooter da preferire come mezzo di spostamento rispetto alle comodità della propria auto, a mettere al massimo i condizionatori d’aria in estate e via di seguito. Bisogna essere “di parte” e tornare ad esserlo. Essere “partigiani” nel senso gramsciano del termine. Il capitalismo ha sedotto una parte dell’umanità che vuole vivere “comodamente” a discapito di un’altra grande parte dell’umanità che invece muore molto poco comodamente. Il tema da mettere al centro è questo ed è politico. Far finta che la protesta derivi da un moto di amore per la terra tutto umano e buonista è veramente patetico e non risolverà mai nulla. Viviamo negli olocausti quotidiani da millenni… La parte della materia più complessa ed evoluta è quella che tende all’autodistruzione. La soluzione sta nella costruzione di una coscienza collettiva, mondiale che verta sullo sfruttamento di pochi esseri umani verso tutti gli altri esseri umani. Facendo appello ai sentimenti “buoni” della “gente” verso l’”ecologia” non si arriverà mai a sprigionare un potenziale di rivolta contro un sistema che non è “tra le cause” ma che è la causa di tutti i problemi sociali, civili, morali, ecologico-ambientali e via di seguito. Se non si comprende questo, ogni lotta è una parte distinta dal tutto e non perché questa o quella fazione o partito la “egemonizzano”, ma perché la “narrazione” che ne fanno i grandi veicoli di informazione è ovviamente obbediente allo schema che vuole l’umanità tutta benevola, i ricchi generosi con lasciti a fondazioni sul clima e sulla vivibilità del Pianeta e i poveri che si aggregano protestando in tutto il mondo. Ma se rimane solo una lotta “ecologica” e non si inserisce in un contesto di aggressione al sistema economico che produce lo squilibrio che può portare all’estinzione di tante specie umane e non umane, allora non si affronterà mai davvero il problema ecologico in sé, perché lo si astrarrà dal contesto in cui nasce: la produzione del profitto mediante il sistema delle merci. La presa di coscienza di come si vive è un passo verso la presa di coscienza verso la necessità di cambiare il modello di vita. Per questo la lotta deve avere carattere politico, altrimenti sarà solo sempre una “buona azione”: eticamente appagante ma praticamente inutile.