Non c’è differenza che tenga. Le parole di Zingaretti sul “nuovo PD” sono intenzioni e anche magari programmi per un immediato futuro, per un inizio di inversione di tendenza rispetto alla stagione renziana, ma non capovolgono lo spirito liberista di un partito che rimane civicamente di sinistra ed economicamente di destra. E’ una ambivalenza inconciliabile, una antitesi per eccellenza, anzi una scissione vera e propria che si rifà al dilemma novecentesco tra coniugazione impossibile delle esigenze di libertà con il pragmatismo di un adeguamento alle strette che il sistema in cui viviamo impone sul terreno delle cifre e, quindi, dei diritti e dei bisogni sociali. Per oltre un secolo la diversificazione tra le varie anime della sinistra ha messo il suo centro di gravità permanente (o incostante, a seconda dei punti di vista) nel solco della distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari” non soltanto guardando alle rivendicazioni pratiche e quotidiane, legate a lotte sindacali e grandi scioperi per altrettanto grandi diritti, ma pure ad una visione globale di una società proiettata in un futuro non troppo lontano, non separabile dalle conquiste che i lavoratori ottenevano nell’immediato. Il PD di Zingaretti va oltre, come gli altri PD che lo hanno preceduto, questa dicotomia: non è “rivoluzionario” nemmeno nel senso borghese del termine che si può leggere negli scritti marxisti anche meno impegnativi; non è nemmeno “riformista” perché non punta a recuperare una critica senza appello del capitalismo associandole una idiosincratica dinamica politica in tal senso. Semmai, il PD di Zingaretti è un tentativo di ricomposizione di un fronte politico che dia fiducia ad un ceto medio (che il neosegretario ritiene assente oggi da un protagonismo sociale che si rifletta sul piano della rappresentanza istituzionale) e ad un ceto padronale capaci di ritrovarsi sotto le fresche frasche di un ulivo diverso da quello degli anni ’90 ma che in un certo qual modo (benedicente Prodi che ha sostenuto le primarie e che vi ha partecipato) vi si rifaccia nella sua espressione più rassicurante: quella della promozione di una “giustizia sociale” unita alla “pace sociale”. La logica politica democratica, dunque, enuncia che la stabilità sociale la si ottiene solo laddove vi è assenza di conflitto tra le classi, dove si mostra un mondo, un’Europa e una Italia non divise tra sfruttati e sfruttatori, ma tra giustizia ed ingiustizia. Un approccio tipicamente liberale, certamente migliore di quello sovranista (neofascista) che governa il Paese, ma non sufficiente a ricostituire veramente una sinistra di progresso, di alternativa che deve poter essere invece riconoscibile da milioni e milioni di sfruttati e di indigenti per un rovesciamento delle politiche messe in atto sino ad oggi tanto da governi di centrosinistra quanto da tecnici e destre. La distinzione, la differenza necessaria, la diversità d’un tempo va ricercata anche nel ripristino del campo ideologico, nella visione a lungo termine di una società capovolta rispetto a quella in cui viviamo, ma nell’immediato deve poter poggiare le sue basi su un serio programma di opposizione che è l’unico collante possibile per forze che non hanno non soltanto la forza elettorale ma neppure quella sociale per poter determinare un cambiamento riformistico dai settori di governo. E’ bene acquisire una coscienza politica in tal senso, senza abdicare alla necessaria prospettiva di un recupero culturale di valori che sono stati a lungo messi da parte in nome di una praticità di intenti volta ad escludere l’estinzione di una sinistra che si è pensata soltanto in termini parlamentari, escludendo prima di ogni altra cosa proprio la ragione stessa della sua esistenza: il rapporto con la grande schiera degli sfruttati che vengono poco nominati perché oggi appare anacronistico raccontare della effettiva presenza di una lotta di classe che si è modificata mediante le tante varianti subite dal mercato del lavoro, ma che esiste perché non esiste invece una società livellata su princìpi egualitari. La sinistra di alternativa da costruire, a partire dal tentativo elettorale di fine maggio, deve avere queste consapevolezze: – ridefinizione del piano culturale su cui tornare a crescere sia nel quotidiano impegno di tante compagne e tanti compagni sia nella popolazione che si astiene da qualunque atto politico e sociale, che non si reca alle urne, che si è alienata rispetto anche ai valori comunitari della Costituzione; – dichiarazione d’indipendenza rispetto a tutte le altre forze politiche vagamente definitesi o definite “di sinistra” che hanno la vocazione governista che conduce alla ricostituzione del centrosinistra, gabbia mortale per la sinistra vera e che tale vuole essere; – unità organizzativa e politica delle forze comuniste, socialiste di sinistra, libertarie ed ecologiste per una lotta contro le diseguaglianze che metta al centro il lavoro, lo sfruttamento, la parcellizzazione contrattuale, l’atomizzazione causata dalla precarietà e i morti che ogni giorno sono causati proprio dalle condizioni di mancata protezione in ogni ambiente produttivo. Il discorso di insediamento di Zingaretti alla segreteria del PD può andar bene per un riformismo di piccolo, medio e lungo termine. Non può essere accettato da chi invece questo sistema economico lo condanna senza appello e lo vuole, anche nelle politiche quotidiane di palazzo e di piazza, superare. Per dirla con Collodi: “Ti conosciamo, mascherina!”…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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