A Roma nella lista di 23 occupazioni da sgomberare non figura Casa Pound dei “fascisti del terzo millennio”. Le città si confrontano con un’idea di sicurezza funzionale alla mercificazione dello spazio urbano, centrata sul “decoro” cioè sull’esclusione degli ultimi.

Tra il 14 luglio e il 15 luglio scorso è stato sgomberato lo stabile occupato di via Cardinal Capranica del quartiere romano di Primavalle. Le “vacanze romane” iniziano con la cronaca dello sgombero di circa 300 persone (tra cui 80 minori), occupanti ad uso abitativo. Numerosi mezzi (blindati, camionette, idranti, e un elicottero) delle forze dell’ordine si sono presentati, prima del previsto, in tarda sera, con modalità a dir poco incongrue considerata anche la presenza di nuclei familiari con bambini; le persone che occupavano l’immobile sono state costrette (d’urgenza) ad accettare le offerte di riallocazione non concordate con il Comune. L’edificio abbandonato, di proprietà del Comune di Roma ed originariamente adibito ad uso scolastico, era tra gli immobili iscritti nella lista di priorità di sgombero individuata dalle autorità. Il 19 luglio è quindi pubblicato sul sito della Prefettura un “programma di interventi di sgombero” che individua la priorità per 23 immobili occupati (di proprietà pubblica e privata); assente l’immobile di via Napoleone III, di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanze, occupato da Casa Pound. Il documento indica come criteri di priorità di sgombero, nell’ordine: “1) le esigenze di tutela dell’incolumità pubblica e privata, anche in ragione delle condizioni strutturali e di salubrità dell’immobile [,,,], “2) la presenza di accertate criticità sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica, soprattutto tenendo conto dell’eventuale impatto sul contesto ambientale derivante dalla stessa occupazione (ad es. incremento della delittuosità, presenza dei fenomeni di spaccio, prostituzione etc); 3) la garanzia dei diritti riconosciuti ai proprietari […]”. Seguono le ragioni di priorità di sgombero per ogni singolo immobile. Ad esempio per l’immobile ex cinodromo sito in via della Vasca Navale 6, di proprietà del Comune di Roma, non sono rilevati possibili rischi per l’incolumità e la salute pubblica correlati con eventuali criticità strutturali dell’immobile occupato, ma si scrive che “l’occupazione svolge un ruolo propulsivo all’interno del circuito antagonista”. Per l’immobile sito in via Lucio Sestio 10, di proprietà della società ATAC, indicato come “sede del centro sociale Casa delle donne Lucha y Siesta” non si segnalano né possibili rischi per l’incolumità e la salute pubblica né criticità per l’ordine e la sicurezza pubblica del territorio, ma solo la pendenza di un decreto di sequestro preventivo. Il Padiglione 31 dell’immobile in Piazza Santa Maria della Pietà 5, di proprietà di una ASL, viene definito “sede associazione antagonista Ex Lavanderia”, mentre per diverse occupazioni a scopo abitativo si scrive genericamente che “il protrarsi delle occupazioni ha ripercussioni sulle aree circostanti”. Le motivazioni addotte o, meglio, la loro mancanza, rende evidente come l’intento sia reprimere forme di mobilitazione sociale e di espressione del dissenso. Non a caso, dunque, l’annuncio degli sgomberi aveva da mesi allertato non solo le realtà direttamente coinvolte nelle possibili operazioni e il movimento per il diritto all’abitare, ma anche la rete delle realtà sociali e associazioni cittadine romane che praticano e promuovono l’antifascismo, la solidarietà e l’inclusione sociale. Il corteo romano del 22 giungo scorso era stata occasione di mobilitazione di queste realtà, per coinvolgere la città in una questione che non riguarda solo i centri sociali. Non a caso è con lo slogan “Roma non si chiude” che si sono ritrovati a percorrere la città i movimenti attivi sul territorio, i collettivi, le persone che vivono ogni giorno una Roma aperta e solidale. La programmazione della priorità degli sgomberi romani ed annessa campagna mediatica, promossa dal ministero dell’Interno, si iscrive, infatti, in una politica di sicurezza pubblica che tende a colpire, insieme, il dissenso, le lotte a difesa dei diritti, che tutelano le diversità, che promuovono solidarietà ed eguaglianza. Sono valori che coinvolgono tutti e, in special modo, le istituzioni che dovrebbero essere espressione di libertà di scienza e di insegnamento e che tale libertà dovrebbero sostenere: per questo, accanto all’appello degli stessi spazi occupati, è stata promossa una iniziativa contro gli sgomberi che nasce nel mondo universitario. 2)La sicurezza urbana: dalla sicurezza dei diritti al diritto alla sicurezza Tutte le città si confrontano oggi con un’idea di sicurezza che appare funzionale alle politiche di mercificazione dello spazio urbano, oggetto di speculazione edilizia e luogo dal quale estrarre profitto. La sicurezza urbana così intesa non ha nulla a che vedere con la sicurezza sociale intesa come sicurezza dei diritti e garanzia di effettività dell’eguaglianza sostanziale; è invece centrata sul decoro urbano (non a caso il “daspo urbano” è inserito tra le “misure a tutela del decoro di particolari luoghi”). La definizione imperante di sicurezza urbana modifica l’idea di vivibilità delle città come garanzia della dignità e dei diritti sociali delle persone che vi abitano. Il decoro facilita l’individuazione del nemico nel povero, nell’emarginato, nel migrante. Alla sicurezza dei diritti viene contrapposto il diritto alla sicurezza. La sicurezza, così concepita, è lontana dall’orizzonte dei diritti e finisce per essere strumento di mera legittimazione della loro limitazione; il progetto costituzionale di emancipazione sociale è sostituito da una politica di espulsione sociale. E il disagio sociale non viene eliminato rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona (art. 3, co. 2, Costituzione), ma tentando di occultarlo, fino anche a sgomberare quelle realtà che si fanno carico da anni, con spirito di inclusione, delle emergenze sociali delle quali le istituzioni pubbliche hanno da tempo smesso di occuparsi (si ricorda la recente vicenda dell’Elemosiniere del Papa che ha riallacciato la luce nello stabile romano occupato dello Spin Time Lab, sempre a Roma). Gli spazi urbani sono sempre più abbandonati dalle istituzioni pubbliche e non è prevista una programmazione abitativa pubblica che rispetti la dignità delle persone e risolva il problema delle emergenze abitative. E gli sgomberi delle occupazioni ad uso abitativo vengono improvvisati senza alcun processo di partecipazione democratica delle persone coinvolte. 3) Non tutte le occupazioni sono uguali L’attenzione mediatica che dopo il 14 luglio si è concentrata, anche a livello nazionale, sulla questione delle occupazioni romane ha offerto una lettura assai riduttiva della questione, come se esse si potessero ascrivere tra le forme di dissenso da criminalizzare in ogni caso, solo perché fuori dalla stretta legalità. E in questi giorni la cronaca degli sgomberi si sta colorando di ulteriori letture distorte, oltre che riduttive. La questione dei primi 22 sgomberi romani viene raccontata assieme a quella dell’occupazione di un immobile di proprietà dell’Agenzia del Demanio, quindi del Ministero dell’Economia e delle Finanze, sede del movimento Casa Pound. L’immobile non è tra quelli iscritti nella lista dei 23 con priorità di sgombero. In un goffo tentativo di riequilibrare, almeno nell’immaginario collettivo, le sorti di occupazioni così diverse tra loro, la comunicazione mediatica si sta concentrando sui danni erariali della mancata locazione dell’immobile di via Napoleone III. Come se il danno provocato dallo Stato con l’abbandono di uno spazio pubblico ad un’esperienza di occupazione, dichiaratamente “fascista del terzo millennio”, si possa limitare ad essere quantificato solo sulla base di un calcolo economico. La ferita sociale provocata dall’indifferenza o dall’accondiscendenza pubblica di fronte ad un’occupazione di stampo fascista è certamente più profonda. Oggi la stessa sindaca di Roma, che non è contraria agli altri sgomberi, si fa portavoce di una “legalità da decoro” ordinando la rimozione della scritta non autorizzata affissa sull’immobile occupato da Casa Pound. L’ipocrisia di certe azioni pubbliche è evidente: sempre più spesso si assiste alla criminalizzazione di spazi di cultura e diffusione dell’antifascismo, così come della solidarietà e del dissenso, mentre sono quotidianamente tutelati o aperti nuovi campi di agibilità politica ad organizzazioni che si dichiarano fasciste. Non tutte le occupazioni sono uguali. Non è per l’illegalità o la legalità dell’occupazione di un immobile che l’occupazione di un’associazione come quella di Casa Pound è diversa da quella dei 23 immobili romani a priorità di sgombero; è diversa perché è vietata la “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; è illegittima anzitutto per la nostra Costituzione. Rilanciamo dunque l’appello a sostegno della mobilitazione per quegli spazi romani occupati dove trovano casa eguaglianza, diritti e solidarietà. L’unica sicurezza è la solidarietà

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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