Quello che sta succedendo in Siria con un altro accordo propiziato dalla Russia è un punto di svolta geopolitico decisivo. Ho provato a riassumerlo [in inglese] nel seguente paragrafo:

“E’ una quadruplice vittoria. Gli Stati Uniti si ritirano salvando la faccia, e Trump può vantare di aver evitato un conflitto con la Turchia, alleato NATO. La Turchia ha la garanzia – fornita dai russi – che l’Esercito Siriano controllerà il confine turco-siriano. La Russia evita l’intensificazione della guerra e tiene in vita il processo di pace Iran-Turchia. E la Siria finalmente riacquista il controllo dell’intero nord-est”.

La questione siriana ha il potenziale per essere la più grande sconfitta della CIA dopo il Vietnam.

Ma tutto ciò è solo il principio della storia.

Di seguito delineerò i momenti storici che hanno condotto a questa situazione.

L’inizio è un’intuizione che ebbi lo scorso mese al confine tra il Libano, la Siria e la Palestina Occupata, seguita da una serie di successive conversazioni a Beirut con analisti di prim’ordine libanesi, siriani, iraniani, russi, francesi ed italiani. Il tutto poggia sui viaggi che ho compiuto in Siria dagli anni ’90. E con l’aggiunta di un misto di bibilografie selezionate in francese disponibili da Antoine a Beirut.

I “Vilayets”

Iniziamo nel XIX secolo, quando la Siria consisteva di sei vilayets – le provincie ottomane – senza contare il Monte Libano, che aveva uno status speciale dal 1861 per via dei Cristiani maroniti, e Gerusalemme, che era una sanjak (circoscrizione amministrativa) di Istanbul.

vilayets non rappresentavano l’estrema complessità dell’identità siriana: ad esempio gli armeni erano la maggioranza nei vilayets di Maras, i curdi a Diyarbakir – entrambi ora parte della Turchia nell’Anatolia meridionale – e i vilayets di Aleppo e Damasco erano entrambi arabi sunniti.

La Siria ottomana del XIX secolo era un modello di cosmopolitismo. Non c’erano confini interni né muri. Tutto era interdipendente.

Gruppi etnici nei Balcani e in Asia Minore, all’inizio del XX secolo, Historical Atlas, 1911

Più tardi gli europei intervennero in occasione della Prima Guerra Mondiale. La Francia si prese il litorale siriano-libanese e successivamente i vilayets di Maras e Mosul (oggi in Iraq). La Palestina venne separata dallo Cham (il “Levante”) per essere internazionalizzata. Il vilayet di Damasco fu diviso in due parti: la Francia si prese il nord, i britannici il sud. La separazione tra la Siria e le terre prevalentemente cristiano-libanesi ebbe luogo più tardi.

La complessa questione del confine tra Siria ed Iraq è sempre stata presente. Fino dall’antichità l’Eufrate fungeva da confine naturale, ad esempio tra lo Cham degli Umayyad ed i loro fieri contendenti dalla parte opposta del fiume, la dinastia mesopotamica degli Abbasidi.

James Barr, nel suo splendido A Line in the Sand correttamente nota che l’accordo Sykes-Picot impose sul Medio Oriente una concezione di territorio prettamente europea: la loro “linea sulla sabbia” separava Stati-nazione. Il fatto è che all’inizio del XX secolo nella regione non esistevano Stati-nazione.

La nascita della Siria così come la conosciamo oggi era un processo in divenire, che coinvolse gli europei, la dinastia Hashemita, i nazionalisti siriani che miravano ad una Grande Siria comprendente il Libano, ed i maroniti del Monte Libano. Un fattore importante è che nella regione pochi rimpiansero la perdita della dipendenza dalla Medina Hashemita, né, con l’eccezione dei turchi, la perdita del vilayet di Mosul in quello che dopo la Prima Guerra Mondiale diventerà l’Iraq.

Nel 1925 i sunniti diventarono di fatto il potere dominante in Siria con l’unificazione di Aleppo e di Damasco da parte della Francia. Negli anni ’20 la Francia tracciò i confini della Siria orientale. Il Trattato di Losanna [in italiano] del 1923 impose ai turchi la rinuncia a tutti i possedimenti ottomani, ma non li escluse dal gioco.

I confini turchi secondo il Trattato di Losanna, 1923

Presto i turchi iniziarono a violare il mandato francese ed iniziarono a sopprimere il sogno dell’autonomia curda. Alla fine la Francia cedette, ed il confine turco-siriano finì per allinearsi alla leggendaria Bagdadbahn, la ferrovia Berlino-Baghdad.

Negli anni ’30 la Francia cedette ulteriormente: la sanjak di Alessandretta (l’odierna Iskenderun, nella provincia turca di Hatay) venne annessa alla Turchia nel 1939, quando solo il 40% della popolazione era turca.

L’annessione portò all’esilio di decine di migliaia di armeni. Fu un colpo tremendo per i nazionalisti siriani. E fu un disastro per Aleppo, che perse il suo corridoio verso il Mediterrano orientale.

Forze turche entrano Alessandretta il 5 luglio 1938

Le steppe orientali erano una questione che riguardava le tribù beduine. Al nord dominavano gli scontri turco-curdi. E al sud il confine era un miraggio nel deserto, che si delineò solo con l’avvento della Transgiordania. Solo il fronte occidentale, con il Libano, venne stabilito, e consolidato dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Questa Siria, emersa dai conflitti tra Turchia, Francia, Gran Bretagna e una miriade di interessi locali, ovviamente non accontentò, né poteva farlo, nessuna delle comunità interessate. E tuttavia il cuore della nazione configurava ciò che venne descritto come la “Siria utile”. Non meno del 60% del Paese era, e resta, praticamente vuoto. Eppure, da un punto di vista geopolitico, ciò si traduce in “profondità strategica”, la questione centrale nella guerra odierna.

Da Hafez a Bashar

A partire dal 1963 il partito Baath, laico e nazionalista, prese il controllo della Siria, e consolidò il proprio potere nel 1970 con Hafez al-Assad, il quale invece di contare solo sulla propria minoranza alawita, costruì un ibrido tra una gigantesca macchina statale iper-centralizzata  ed uno stato di polizia. Chi non stette al gioco fu un attore fondamentale, la Fratellanza Musulmana, che venne massacrata nella durissima repressione di Hama del 1982.

Laicità e stato di polizia: è così che il fragile mosaico siriano venne preservato. Tuttavia già negli anni ’70 iniziarono a manifestarsi importanti linee di frattura: tra le principali città e le periferie povere; tra l’occidente “utile” e l’oriente beduino; tra arabi e curdi. Le élites urbane invece non si opposero mai alla volontà ferrea di Damasco: dopotutto il clientelismo ha sempre la sua convenienza.

Damasco interferì pesantemente nella guerra civile libanese dal 1976, quando venne invitata dalla Lega Araba come “forza di pace”. Nella logica di Hafez al-Assad fare perno sull’identità araba del Libano era essenziale ai fini del recupero di una Grande Siria. Il controllo siriano sul Libano iniziò a calare nel 2005, dopo l’omicidio dell’ex Primo Ministro Rafiq Hariri, vicino all’Arabia Saudita, quando l’Esercito Arabo Siriano (SAA) alla fine se ne andò.

Bashar al-Assad prese il potere nel 2000. Diversamente da suo padre, si affidò agli alawiti per condurre la macchina statale, evitando così la possibilità di un colpo di Stato, ma allo stesso tempo alienandosi l’appoggio dei siriani più poveri e dei diseredati.

Ciò che l’Occidente ha etichettato come una Primavera araba ebbe inizio nel marzo del 2011. Era una rivolta tanto contro gli alawiti quanto contro Damasco. Strumentalizzata da interessi stranieri, la rivolta scoppiò nelle periferie sunnite più povere e depresse.: Deraa al sud, nell’oriente abbandonato, e nei sobborghi di Damasco ed Aleppo.

Proteste a Damasco il 24 aprile 2011

Ciò che non venne compreso in Occidente è che la “festa degli accattoni” non era contro la nazione siriana, ma contro un “regime”. Jabhat al-Nusra, con un esercizio di pubbliche relazioni, ruppe persino i suoi collegamenti ufficiali con al-Qaeda e cambiò il proprio nome in Fatah al-Cham, e successivamente in Hayat Tahrir al-Cham (“Organizzazione per la Liberazione del Levante”). Solo l’ISIS/Daesh affermò di lottare per la fine [in inglese] del Sykes-Picot.

Nel 2014 lo scacchiere, fino ad allora perennemente fluido, si stabilizzò in modo più o meno definitivo come un conflitto tra Damasco da una parte, e dall’altra Jabhat al-Nusra e l’ISIS/Daesh, e con un ruolo traballante per i curdi nel nord-est, ostinatisi nel mantenere i cantoni di Afrin, Kobane e Qamichli.

Il punto chiave, tuttavia, è che ciascun “katiba” (gruppo combattente), ciascun vicinato e villaggio, e in realtà anche ogni singolo combattente, sono continuamente entrati ed usciti dalle varie alleanze. Ciò ha creato una confusa nebulosa fatta di jihadisti, criminali, mercenari, alcuni collegati ad al-Qaeda, altri a Daesh, alcuni addestrati dagli americani, o di altri soggetti semplicemente in cerca di facili guadagni. Ad esempio, i salafiti, sontuosamente finanziati dall’Arabia Saudita e dal Kuwait, in special modo Jaish al-Islam, hanno persino stretto alleanze con il PYD curdo in Siria e gli jihadisti di Hayat Tahrir al-Cham (la versione rivista di al-Qaeda in Siria, forte di trentamila uomini). Nel frattempo, i curdi del PYD (un’emanazione del PKK curdo in Turchia, che Ankara ha dichiarato “terroristi”) hanno approfittato del caos scellerato, e della deliberata ambiguità di Damasco, per cercare di costituire il loro autonomo Rojava.

Una manifestazione nella città di Afrin, a sostegno delle YPG e contro l’invasione turca di Afrin, 19 gennaio 2018 (Voice of America Kurdish, Wikimedia Commons)

Quella capacità strategica turca

La Turchia ci si è buttata a capofitto. Caricata dalle politiche neo-ottomane dell’ex Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, la logica era quella di riconquistare parti dell’impero ottomano e di eliminare Assad, perché aveva aiutato i ribelli curdi del PKK in Turchia.

Strategik Derinlik (“Capacità strategica”) di Davutoglu, pubblicato nel 2001, che rivendica la gloria di otto secoli di sterminato impero mettendoli a confronto con gli striminziti 911 chilometri di confini fissati da francesi e kemalisti, è stato un grande successo. Bilad al Cham, la provincia ottomana che univa Libano, Palestina storica, Giordania e Siria, era rimasta una potente calamita nell’inconscio turco e in quello siriano.

Non c’è da sorprendersi che Recep Erdogan di Turchia ne fosse infervorato: questi nel 2012 si è persino vantato di stare preparandosi per andare a pregare nella moschea di Umayyad a Damasco, ovviamente dopo un cambio di regime. Egli, fin dal 2014, ha combattuto per ottenere una zona di sicurezza all’interno del confine siriano, ora una enclave turca. Per ottenere questo ha utilizzato un sacco di sporchi giocatori: dalle milizie vicine ai Fratelli Musulmani alle gang di fondamentalisti turkmeni.

Con la formazione dell’Esercito Libero Siriano (FSA), per la prima volta la Turchia ha dato a gruppi armati da stranieri l’autorizzazione di poter operare sul proprio territorio. Nel 2011 fu allestito un campo di addestramento nella provincia ottomana di Alessandretta. Ad Istanbul venne inoltre istituito il Consiglio Nazionale Siriano, composto da una banda di nullità non più rientrati in Siria per decenni.

Ankara ha di fatto instaurato la Jihad Highway, percorsa da genti provenienti da Asia Centrale, Caucaso, Maghreb, Pakistan, Xinjiang, da tutti i punti del nord Europa, in un avanti e indietro a volontà. Nel 2015 Ankara, Riad e Doha hanno dato vita al terribile Jaish al-Fath (“Esercito della Conquista”), che al suo interno aveva Jabhat al-Nusra (al-Qaeda).

Allo stesso tempo Ankara ha mantenuto relazioni estremamente ambigue con ISIS/Daesh, comprando da loro petrolio contrabbandato, curando gli jihadisti negli ospedali turchi, non prestando nessuna attenzione alla rete di spionaggio jihadista che ha trovato base e si è sviluppata poi sul territorio turco. Per almeno cinque anni il MIT, ovvero il servizio segreto turco, ha fornito supporto politico e logistico all’opposizione siriana e, al contempo, ha fornito armi alla galassia dei salafiti. Dopo tutto, Ankara sosteneva che ISIS/Daesh esistesse solamente a causa di un “effetto malefico” esercitato dal regime di Assad.

Il fattore russo

Incontro del Presidente della Federazione Russa Vladiimir Putin con il Presidente della Turchia Recep Erdogan; il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov è in piedi sullo sfondo, Ankara, 1° dicembre 2014 Ankara, (Cremlino)

La prima svolta c’è stata con la spettacolare entrata in campo della Russia nell’estate del 2015. Vladimir Putin chiedendo [in inglese] agli Stati Uniti di aderire alla lotta contro lo Stato Islamico in modo analogo all’alleanza anti Hitler stretta con l’Unione Sovietica, aveva negato la tesi americana secondo cui fosse in atto un tentativo della Russia di restaurare la propria gloria imperiale. Ma il piano americano sotto Barack Obama, al contrario, era pericolosamente ostinato: per sconfiggere ISIS/Daesh lungo tutta la linea da Raqqa a Deir ez-Zor a nord dell’Eufrate, gli Stati Uniti stavano puntando sulle sgangherate Forze Democratiche Siriane (SDF), cioè un mix di curdi ed arabi sunniti, con il sostegno delle forze aeree e delle forze speciali statunitensi.

Raqqa, bombardata a tappeto dal Pentagono, avrebbe potuto essere presa dalle SDF, ma Deir ez-Zor era stata tenuta dall’Esercito Arabo Siriano di Damasco. Lo scopo ultimo degli americani era sostanzialmente di mantenere il nord dell’Eufrate sotto il potere degli Stati Uniti, attraverso i loro mandatari, le SDF e le PYD/YPG curde. Quel sogno americano ora è finito, col rimpianto degli imperialisti sia democratici quanto repubblicani.

La CIA sarà quindi alla caccia dello scalpo di Trump fino alla fine dei tempi.

Il sogno curdo è finito

Quando si dice un incomprensione culturale. Per quanto i curdo-siriani avessero creduto che la protezione statunitense fosse parte di un appoggio verso i loro sogni di indipendenza, gli americani non sembrano non capire mai che in tutto il “Grande Medio Oriente” non si può comprare un gruppo tribale ma al massimo lo si può affittare, ed esso poi ti userà in base ai propri interessi. Ho già visto questo dall’Afghanistan alla provincia irachena di Anbar.

Il sogno curdo di un territorio contiguo ed autonomo da Qamichli a Manbij è finito. Gli arabi sunniti che vivono all’interno di tale perimetro resisteranno a qualsiasi tentativo curdo di imporre il proprio dominio.

Il PYD siriano fu formato nel 2005 da militanti del PKK. Nel 2011 per costruire la milizia YPG per il PYD arrivarono siriani del PKK da Qandil, la base del PKK si trova infatti nel nord dell’Iraq. Nelle zone prevalentemente arabe, i curdo-siriani si sentono incaricati di governare in quanto ai loro occhi gli arabi non sono altro che una banda di barbari, incapace di costruire la loro società “democratica, socialista, ecologica e multi-comunitaria”.

Geurriglieri curdi del PKK a Kirkuk, Iraq, (Kurdishstruggle via Flickr)

Ci si può immaginare quanto i leader conservatori delle tribù arabo sunnite odino i loro animi. Non c’è possibilità che questi leader tribali sostengano mai i curdi contro il SAA (Esercito Arabo Siriano) o l’esercito turco, dopo tutto questi leader tribali arabi hanno speso molto tempo a Damasco alla ricerca di appoggio da Bashar al-Assad. E ora gli stessi curdi hanno accettato quello stesso appoggio di fronte all’incursione turca, col via libera di Trump.

Ad est di Deir ez-Zor, le PYD/YPG hanno già dovuto dire addio alla regione che è sede del 50% della produzione di petrolio siriano. Damasco ed il SAA ora hanno la situazione in pugno. Ciò che è rimasto da fare per le PYD/YPG è di consegnarsi alla protezione di Damasco e dei russi contro la Turchia, con la possibilità di esercitare la propria sovranità sui territori esclusivamente curdi.

L’ignoranza dell’Occidente

L’Occidente, con la tipica alterigia da orientalista, non ha ancora capito che alawiti, cristiani, ismaeliti e drusi in Siria preferiranno sempre per la loro protezione Damasco piuttosto che una “opposizione” monopolizzata da fondamentalisti islamici, se non jihadisti. L’Occidente non ha inoltre capito che il governo di Damasco, per sopravvivere, può sempre contare sulla formidabile rete del partito Baath, ed in più sul temibile mukhabarat, la polizia segreta.

Ricostruire la Siria

La ricostruzione della Siria potrebbe costare più di 200 miliardi di dollari. Damasco ha già messo in chiaro nettamente che gli USA e l’UE non sono i benvenuti. La Cina invece sarà in prima linea in questo processo, a fianco della Russia e dell’Iran. Questo sarà un progetto che seguirà strettamente l’agenda strategica di integrazione nell’Eurasia, che vede i cinesi ambire a rilanciare la posizione strategica della Siria nell’Antica Via della Seta.

Per quel che riguarda Erdogan, sfiduciato sostanzialmente da tutti e un pochino meno neo-ottomano rispetto al suo recente passato, sembra ora aver finalmente capito che Bashar al-Assad “non se ne andrà”, e che ci dovrà convivere. Ankara è costretta a rimanere legata a Teheran e Mosca, nel cercare una completa soluzione costituzionale per la tragedia siriana attraverso l’ex “processo di Astana”, in seguito poi sviluppato ad Ankara.

La guerra naturalmente non poteva essere completamente vinta. Tuttavia contro tutte le aspettative è chiaro che una nazione siriana unita e sovrana è destinata a prevalere contro ogni ciocca di perverse bottiglie molotov geopolitiche, create in qualche malvagio laboratorio NATO/CCG. La Storia ci dirà alla fine che questa rimarrà la svolta finale, esempio per tutto il Sud del Mondo.

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Articolo di Pepe Escobar pubblicato su ConsortiumNews il 18 ottobre 2019
Traduzione in italiano di DS e Michele Passarelli per SakerItalia

[le note in questo formato sono dei traduttori]

http://sakeritalia.it/medio-oriente/siria/la-strada-verso-damasco-come-e-stata-vinta-la-guerra-in-siria/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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