Nella sua quarta edizione, il Climate Strike punta il dito sui responsabili della crisi climatica. A fronte delle risposte inadeguate di governi nazionali e locali, i Fridays inaugurano una nuova fase della protesta, in cui l’attenzione per le questioni più generali si accompagna a scelte d’azione più mirate e radicali.  

Con uno scambio di vocale, a materializzarsi sui cartelli e nei corpi dei ragazzi in piazza, la “giornata del consumismo” del Black Friday diventa Block Friday. Oppure – in maniera ancora più provocatoria -–Black Block Friday, visto il carattere anche di “azione diretta” che vuole assumere questo quarto sciopero mondiale per il clima di venerdì 29 novembre (dopo quelli del 15 marzo, 24 maggio e 27 settembre), a pochi giorni dall’avvio del Cop25 di Madrid e appena dopo la dichiarazione di emergenza climatica adottata dal Parlamento Europeo.

A Roma sono oltre 30.000 i partecipanti, studenti medi e superiori scesi per le strade a protestare affinché i governi e le istituzioni di tutto il mondo affrontino la crisi climatica con misure efficaci e immediate. Nel resto d’Italia, sono state 167 le città coinvolte nello sciopero, mentre a livello mondiale si sono verificati eventi in oltre 2000 località in 157 paesi. «Torniamo in piazza anche oggi perché non siamo ascoltati», dicono dalla testa del corteo nella capitale. «Siamo stati ricevuti dal governo, ma non c’è l’intenzione di mettere in pratica le nostre proposte. Il decreto Clima è un provvedimento che si rifiuta di andare al cuore del problema. Anche a livello europeo e internazionale, servono politiche più radicali».

Il “cuore del problema” viene identificato chiaramente dai manifestanti nel capitalismo, ovvero in un «modello di sviluppo ingiusto e diseguale, per cui cento grandi imprese sono responsabili del 70% dell’inquinamento mondiale e la ricchezza è nelle mani di pochi». Le richieste, scandite a gran voce durante il corteo che da Piazza della Repubblica si è snodato per il centro di Roma, vanno dunque verso un piano nazionale di de-carbonizzazione dell’economia, la prevenzione dei disastri ambientali attraverso una maggiore attenzione alle esigenze dei territori (quindi con un secco no alle grandi opere), lo stop alla vendita criminale di armi di cui le aziende e le istituzioni italiane si rendono complici (e di cui la recente invasione del Kurdistan siriano è un tragico esempio), ma si concentrano anche su questioni specifiche come quella dell’Ilva, che andrebbe sottoposta a un processo di riconversione ecologica. D’altronde, se l’obiettivo generale dei Fridays For Future è quello di “salvare il pianeta”, altrettanto chiaro ai manifestanti è come il prezzo del cambio climatico e dell’inquinamento globale lo stiano pagando in questo momento soprattutto lavoratori sfruttati (a Milano, si è verificato un blitz davanti alla sede di Amazon) e popoli oppressi (numerosi i riferimenti all’Amazzonia e alle violenza subite dagli indigeni).

Anzi, l’intento dello sciopero pare proprio essere quello di articolare la protesta, puntando il dito sui responsabili della crisi climatica, ENI in primis. In questo modo lo sciopero riesce pure a superare la dimensione di protesta e testimonianza che ha permesso di acquisire consenso ma al tempo stesso che necessitava di crescere in termini di conflitto. Sull’asfalto di piazza Barberini, viene scritto con vernice bianca venata di rosso: «Ilva uccide». Poco prima, il corteo aveva indicato un immobile su via Barberini di proprietà di Caltagirone, denunciando le logiche clientelari e speculative che governano lo sviluppo urbano nella capitale. Ma anche altre città italiane si sono mosse in questo senso: in particolare, raffinerie e impianti di combustione sono stati oggetto di azioni di protesta. A Stagno (comune di Collesalvetti, provincia di Livorno), gli attivisti di Fridays For Future Pisa e i comitati livornesi in seguito al corteo hanno bloccato l’uscita delle cisterne dalla raffineria Eni, contestando le responsabilità ambientali dell’azienda (una sede, quella di Stagno, che pare tra l’altro essere al centro di operazioni di greenwashing in accordo con la Regione Toscana, come denuncia Medicina Democratica). Oppure a Sannazzaro (provincia di Pavia), dove i manifestati hanno occupato l’ingresso di un’altra raffineria Eni impedendo gli ingressi, o Napoli (che aveva già visto un blitz presso l’impianto della Q8 lo scorso 5 ottobre), dove il corteo ha bloccato l’area di stoccaggio e distribuzione di San Giovanni a Teduccio nella parte orientale della città, in cui operano diverse aziende nel più totale disinteresse verso l’ambiente e il territorio circostante. «Azioni di questo tipo sono assolutamente necessarie nella fase attuale», dicono gli attivisti del Fridays For Future nel capoluogo campano. «Le risposte da parte dei governi, nazionali e locali, sono totalmente insufficienti e abbiamo quindi deciso che devono essere gli stessi manifestanti a indicare la strada da seguire, in maniera diretta».

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Un’esigenza condivisa anche dagli studenti della capitale. Gabriele, arrivato in piazza a scioperare dal liceo scientifico Newton, afferma: «Occorre creare un disagio reale, paralizzare il sistema per costringerlo a reagire in qualche modo. Prendi per esempio i Gilet Gialli in Francia, lì qualcosa sono riusciti a ottenerla anche con poca esperienza di mobilitazione e con numeri non impressionanti. Se siamo troppo concilianti, invece, facciamo il gioco di chi ha il potere». Gli fa eco Marika, del liceo Seneca: «Dobbiamo costringere i governi a prendere una posizione. Sappiamo che questa non è la soluzione a tutto, ma si tratta di un passo necessario ed è impensabile che le istituzioni non riconoscano neanche il problema». Si tratta di una caratterizzazione inedita dello sciopero per il clima, che si è concretizzata soprattutto nel contesto italiano mentre nel resto d’Europa le manifestazioni sembrano essersi “fermate” soprattutto a cortei e slogan. Forse, potrebbe segnare l’inizio di una nuova fase della protesta, in cui l’attenzione per le questioni più generali si accompagna a scelte d’azione più mirate e radicali.

Nel frattempo, sui cartelli e nelle voci degli studenti scesi in piazza, la “rabbia” per il cambiamento climatico assume forme variegate e creative. Gli attacchi a politici come Trump e Bolsonaro (colpevole, quest’ultimo, di «essersi fumato l’erba sbagliata») oppure, più genericamente, ai “meno giovani” («Gli occhi delle future generazioni sono su di voi. Se fallirete, non ve lo perdoneremo mai»); il pianeta che è costantemente personificato, femminilizzato, “erotizzato” in diverse maniere («Le stagioni sono più irregolari del mio ciclo») oppure visto spesso come la propria “casa”, il posto cui – nel bene e nel male, e ironicamente – si vuole appartenere («Salvate la terra, è l’unico mondo con la Peroni»); infine, l’alternanza fra necessità di cambiamento individuale («Go Vegan. Non è una scelta, ma un dovere») e soluzioni collettive («Il problema non sono le nostre abitudini. Il problema è il sistema»). Fra giochi di parole e di concetto, slogan diretti, flash mob simbolici e azioni mirate, il corteo è dunque sceso dal Pincio fino a piazza del Popolo, dove gli studenti si sono stesi a terra in un atto di appartenenza finale mentre iniziava a cadere una leggera pioggia. Il termometro, verso le due, segnava 17 gradi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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