Piagnoni e Palleschi, per ricordar D’Azeglio, così possono essere definiti i due campi di un dibattito sul MES in Italia eccessivamente polarizzato. Eppure una vera alternativa ci sarebbe: un reale safe asset europeo per gli investitori finanziari.
Attorno alla riforma del MES il dibattito si è, come al solito, polarizzato: fra chi si è stracciato le vesti indicando vittime e carnefici, e chi ha continuato a trattare con sussiego tutti coloro che non hanno capito che l’Europa è una cosa meravigliosa, impossibilitata a far del male a chicchessia. Se non, beninteso, a quelli che se lo meritano.
Resta il fatto che fra gli MES-scettici questa volta si sono dovuti noverare notori euro-entusiasti. In particolare, colpisce la posizione preoccupata del governatore Visco. Come la mettiamo? Forse non è possibile liquidare la questione come un semplice gioco delle parti. Che però merita di esser giocato fino in fondo.
Proviamo, infatti, a portare alle estreme conseguenze il ragionamento dei “piagnoni”. L’Italia è debole a causa di un altissimo debito pubblico, che ormai si autoalimenta: anche a fronte di una lunga serie di avanzi primari positivi ed elevati il peso del debito cresce a causa non solo della stagnazione del PIL aggravata dall’austerity ma anche del costo del suo servizio, che a sua volta tende ad aumentare proprio a causa del livello elevato del debito pubblico. In questo contesto le nuove clausole del trattato, che mettono in mano al MES, più ancora di quanto già non fosse, la possibilità di condizionare finanziamenti a favore di uno stato in difficoltà a una ristrutturazione, più o meno automatica, del debito, possono provocare quello stato di bisogno che il MES sarebbe poi chiamato a sanare. Se le cose andassero così, a rimetterci non sarebbero soltanto le banche, che sarebbero almeno parzialmente compensate dall’accesso al fondo di risoluzione che la riforma prevede alimentato proprio dal MES (buono anche, diciamolo, per eventuali probabili problemi delle banche tedesche), ma i detentori privati del debito italiano.
Al fondo del ragionamento sta il problema delle aspettative auto-avverantisi: precisamente il rischio evocato da Visco nella sua nota ufficiale del 15 novembre, significativamente intitolata: “È tempo di uscire dal vicolo cieco”. Cito dalla nota: “I piccoli e incerti benefici di un meccanismo di ristrutturazione dei debiti devono essere comparati con l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione possa far scattare una spirale perversa di aspettative di default, che potrebbero rivelarsi auto-avverantisi. Dovremmo tenere bene a mente le tremende conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione delle crisi greca dopo il meeting di Deauville di fine 2010”.
L’esistenza, e l’incombenza, di aspettative auto-avverantisi prova due cose: 1. che i mercati non sono mai perfettamente efficienti, e non si autoregolano e 2. che hanno disperatamente bisogno di un punto fermo, che non si possono dare da soli.
In termini più precisi, rifacendoci al capitolo 12 della Teoria generale di Keynes: gli operatori possono essere avversi o disposti al rischio, e possono scegliere come “posizionarsi”, ma sono tutti avversi all’incertezza, intesa come rischio non calcolabile. Quando questa aumenta, essi tendono tutti a comportarsi come i moscerini che si bruciano sulle fonti di luce che li attraggono. Con l’aggravante, nel caso dei mercati finanziari, che i moscerini le lampadine le fanno saltare.
Dopo aver riportato al suo fondamento argomentativo la posizione dei “piagnoni”, proviamo a fare lo stesso con i loro avversari. Nella Firenze dei Medici “piagnone” era l’appellativo dei seguaci di Savonarola contro l’oppressione dei “signori”. I sostenitori dei Medici, invece, con un richiamo allo stemma gentilizio di questi ultimi, erano detti “palleschi”. E come ricorda D’Azeglio, “le parti de’ Piagnoni e de’ Palleschi, inconciliabili per odi vecchi e per fresche ingiurie, tenean divisa la città”…
Sulla base della stessa logica delle aspettative auto-avverantisi, si può argomentare in effetti in senso anti-piagnone: il MES (che, non dimentichiamolo, ha reso possibile l’azionamento del quantitative easing), per il semplice fatto di esistere e di poter mobilitare ingenti somme a sostegno di debiti “sotto attacco”, potrebbe allontanare il rischio di una crisi del debito.
Un autorevole pallesco, Federico Fubini, ha scritto sul suo autorevole giornale che la riforma del MES non può essere un problema, perché la logica della ristrutturazione era già presente nella vecchia versione: siccome non siamo morti prima, non moriremo nemmeno ora. Su lavoce.info, Maria Cannata ci dice che le condizioni che nel 2018 con le stesse clausole in discussione oggi avrebbero potuto scatenare il circolo vizioso delle aspettative auto-avverantisi, ora non ci sono più, e quindi quelle aspettative non si possono più auto-avverare. Fino a che, però, magari, le condizioni non si ridiano.
Entrambi i ragionamenti sembrano tuttavia quelli di un giocatore di roulette russa che non abbia capito bene, o a cui non abbiano ben spiegato, il funzionamento del “gioco”. Diciamolo chiaramente: in un contesto fatto apposta perché un dramma non possa essere escluso, non è lecito trarre conclusioni positive dal fatto che il dramma non si sia ancora verificato.
È importante sottolineare, come ha osservato Sergio Cesaratto, che la ristrutturazione non è affatto un obbligo, ma una possibilità. Nessun paese da solo nel board ha la maggioranza assoluta. Francia e Italia, ossia due paesi che non rispettano i criteri di virtuosità che fanno accedere alla linea di finanziamento non condizionale (quella per intenderci riservata ai paesi che, proprio perché rispettano i parametri, non ne avranno mai bisogno), fanno in due il 38%. La Germania ha circa il 27%, e quindi aggregando qualche paese può facilmente esercitare potere di veto.
Ma bisogna andare fino in fondo in questo ragionamento: se le condizioni di attivazione non sono chiaramente determinate dal testo del trattato, ma dipendono da orientamenti e dalla possibilità di veti, se cioè il MES è un “meccanismo” che non prevede clausole precise per la sua applicazione, allora il MES tutto è fuorché un meccanismo. Per com’è fatto oggi, può tanto contrastare la speculazione quanto alimentarla.
Dopo aver dato voce ai peggiori incubi dei piagnoni e ai migliori sogni dei palleschi, ciò che mi preme è sottolineare in che senso entrambi perdano sistematicamente di vista un punto, che se preso in considerazione potrebbe cambiare il senso, il peso, e la direzione del dibattito. Si tratta precisamente del punto di vista sistemico.
Dal punto di vista, non dei singoli stati con le loro rappresentazioni talvolta miopi dei propri interessi, ma dell’Unione nel suo insieme, la sola domanda cruciale è la seguente: il MES è un’istituzione che rafforza il sistema degli stati europei riuniti in una unione? O non è forse che, per come è stato concepito fin dall’inizio, e ancora più con le modifiche in procinto di passare, il MES non fa bene a nessuno?
Il MES è noto anche come “Fondo Salva Stati”. Ora la questione è semplice: è davvero così che si “salvano” gli Stati? E la risposta ancor più semplice, è no: non ha alcun senso che il MES si comporti più come un cravattaro davanti a un piccolo imprenditore in difficoltà invece che come un fondo pubblico per il sostegno di debiti pubblici.
Aldilà di ogni buona o cattiva intenzione, il funzionamento del MES è fondato su una dogmatica economica insostenibile, la cui unica forza è ormai solo di essere una dogmatica a lungo ripetuta, ma che necessita di essere radicalmente rimessa in questione. Da tutti, piagnoni e palleschi. E per tutti, italiani e tedeschi.
Ci sono ragioni per crederlo, tanto economiche quanto politiche.
Fra le ragioni economiche, oltre al fatto che il MES non è qualcosa il cui funzionamento possa essere anticipato con certezza e quindi è necessariamente un originatore di aspettative irrazionali, vi è il fatto che il suo effetto sistemico è di dividere in due gruppi i paesi sulla base di un concetto fumoso di sostenibilità del debito. Fumoso perché come osserva Visco, non solo non distingue fra rischio fondamentale e rischio di liquidità, ma alimenta forti divergenze del rischio di liquidità dal rischio fondamentale. Fumoso perché non tiene conto, per esempio per l’Italia, della sua lunga serie di avanzi primari attivi, che dovrebbero essere una prova della sua solvibilità, ma che non determinano affatto una diminuzione del rischio di liquidità del suo debito sui mercati. Fumoso, infine, perché, come osserva Emiliano Brancaccio, “se il MES utilizzerà il saldo strutturale negli indici di sostenibilità, ciò significa che accetterà un equilibrio con disoccupazione altissima, per l’Italia intorno al 10%. Un assurdo scientifico prima che politico.”
Tutto questo fumo fa male a tutti. Ai Paesi non “virtuosi”, perché rischia di rafforzare il meccanismo a spirale dello spread: i mercati prezzano un rischio che non è affatto legato ai fondamentali dell’economia ma alla liquidità dei debiti. Ai Paesi “virtuosi”, perché per simmetria, il flight to quality porta i debiti pubblici “virtuosi” a rendimenti negativi. Sarebbe ora che anche, e soprattutto, i palleschi, e i tedeschi, iniziassero ad ammettere che questo non è un vantaggio ma, a medio termine, un esizio per il sistema assicurativo e pensionistico della Germania.
Giacché è evidente, quantomeno a quegli operatori finanziari che ancora ragionano, e che quindi non sono né piagnoni né palleschi, che ciò che serve agli stati e ai mercati è una convergenza dei titoli pubblici dell’eurozona verso un tasso a medio-lungo comune, stabile e basso, ma positivo. Ma questo è esattamente l’obiettivo che si pone con il “safe asset europeo”.
Vi è una vasta letteratura scientifica che argomenta a favore della necessità, per la tenuta dei sistemi finanziari e bancari, che istituzioni pubbliche generino un asset “sicuro”, cioè un asset caratterizzato da aspettative stabili circa il mantenimento del valore nominale dell’investimento del medio-lungo periodo, e che perciò possa essere detenuto con sicurezza, aiutando le banche a gestire il loro ciclo della liquidità e le istituzioni assicurative e pensionistiche a proteggere il valore patrimoniale dei conferimenti degli investitori finali.
Un safe asset europeo sarebbe ancora più importante, perché realizzerebbe un pilastro mancante della costruzione economica europea, quello relativo al bond europeo, senza però implicare un processo di effettiva unione politica, che richiederebbe la costituzione di un ministero europeo del Tesoro. Anche questo è un aspetto su cui c’è largo consenso, mentre c’è meno consenso sul modo in cui il safe asset europeo dovrebbe essere realizzato: se basandolo su dinamiche di mercato, come se fosse una sorta di Collateralized Debt Obligation (CDO), o dotandolo di forme di garanzia pubblica. Ma questo ci porta a considerazioni non più solo economiche, ma politiche e istituzionali.
Infatti, se è vero che gli stati hanno bisogno della finanza, è vero anche il contrario. Soprattutto quando le cose non funzionano, come è la regola da qualche anno a questa parte. Da troppo tempo siamo di fronte al desolante spettacolo di un’unione politica che ha statuito politicamente la propria dipendenza da mercati che, tuttavia, senza un ruolo attivo e pubblico di quella stessa unione, rischiano di non tenere più. Con il rischio di trasformare definitivamente il sogno condivisibile di un’unione nell’incubo divisivo di una dominazione di alcuni su altri ‒ senza che, oltretutto, alla lunga i dominatori possano ritrarre alcun reale vantaggio dalla loro dominazione.
Chi è attento ai messaggi di fondo del mercato, sa che una cosa è richiesta in questo momento in modo sistematico dai mercati. E non è l’affondamento degli stati con i rating e le ristrutturazioni, imposte o minacciate, ma l’aumento dell’offerta di safe asset. Con la sua dotazione e il suo rating, il MES potrebbe essere il pivot di una operazione in grande stile di emissione di safe asset europei. Ne ha accennato Cesaratto, ne hanno scritto Dosi, Minenna, Roventini e Violi.
L’effetto di un safe asset imperniato sul MES, che, a differenza delle proposte attuali, sarebbe un titolo “sintetico” formato da debiti pubblici europei, trattato da un organismo pubblico secondo una logica pubblica, sarebbe precisamente quello evocato sopra: una convergenza dei debiti pubblici di tutti gli stati verso un rendimento basso ma sicuro, e soprattutto non negativo. I safe asset sono “safe” solo se davvero rassicurano, cioè solo se danno ai mercati quella certezza di cui hanno bisogno e che non possono produrre da soli. Fornendo ragionevoli certezze, essi prevengono i comportamenti irragionevolmente distruttivi a cui gli agenti si abbandonano quando non hanno elementi di certezza.
Forte di una lunga tradizione storica di suicidi politici, l’Europa del MES sembra invece prediligere la cura alla prevenzione. Non solo: propone cure che, invece di ridurre il male (spread e divergenze, dunque instabilità per tutti), rischiano di provocarlo.
Tanto i piagnoni, accusando, quanto i palleschi dandola per scontata, ammettono che la logica di fondo del MES sia quella che Fubini stesso chiama “la finanza dei creditori”.
Ma la finanza non è dei creditori. Non è nemmeno dei debitori. È, come diceva il liberale di destra Jacques Rueff, il luogo di incontro dei creditori e dei debitori. Di incontro, non di conculcazione o di irresponsabilità. È la stessa cosa che diceva quel liberale sui generis di Keynes. Che oggi potrebbe ben parlare a una sinistra che voglia restare europeista senza per ciò essere impopolare. E impopolare perché oggettivamente antipopolare.
Provate a immaginare un MES che, garantendo l’esistenza di un safe asset, ridefinisca le condizioni comuni di finanziamento dei debiti pubblici, sottraendole alle rivalità fra Stati e ai loro interessi contrapposti. Otterrete un’altra Europa