Uno degli indicatori più interessanti della profondità della crisi del sistema che in questi mesi dovrebbe affrontare il virus che ha terrorizzato il mondo intero è certamente la considerazione con la quale le istituzioni, almeno in Italia, tengono le bambine e i bambini. Una società degna considererebbe la loro situazione ai tempi del coronavirus come una priorità della collettività e definirebbe tutte le misure da adottare ponendosi come primo obiettivo il loro ritorno a una quotidianità conosciuta e il più possibile serena. Il governo e i media, invece, non fanno che ripetere in modo ossessivo i divieti, cioè cosa è loro proibito (correre, per esempio) e quel che non devono fare. Sapete perché? Perché sono considerati un costo, la loro libertà di giocare e respirare all’aria aperta (anche da soli) è drammaticamente improduttiva
La profondità della crisi sistemica, evidenziata dall’epidemia Covid19, si manifesta nella considerazione con la quale le istituzioni tengono conto dei diritti delle bambine e dei bambini. Non vi è alcuna traccia di loro in nessuno dei molteplici decreti, prodotti a ripetizione dal Presidente del Consiglio, e, quando se ne parla, è esclusivamente in senso negativo, una continua prolusione su quello che non possono e nondevono fare. Così, delle bambine e dei bambini sappiamo solo che non possono andare a scuola, non possono fare una passeggiata con i loro genitori, non possono andare al parco a prendere una boccata d’aria.
Cosa possano fare è problema esclusivo delle loro famiglie e non riguarda in alcun modo la società e le istituzioni. La vita dei bambini ai tempi dell’emergenza sanitaria è un puro effetto collaterale di quella imposta ai loro genitori: non c’è alcun messaggio alla nazione e nessun “Mattarella” che si rivolga a loro, nonostante siano stati i primi ad avere la quotidianità stravolta dentro l’emergenza sanitaria.
Tutte le bambine e i bambini italiani sono rinchiusi nelle loro case da 40 giorni, quelli di loro che abitano nelle regioni del nord più colpite dagli effetti del virus addirittura da cinquanta.
E non si trova traccia di qualsivoglia commissione, nazionale o regionale, che consideri questa situazione un’emergenza psico-sociale cui dedicare energie, intelligenze, progettazioni e risorse conseguenti.
Una società degna considererebbe la situazione delle bambine e dei bambini ai tempi del coronavirus come la propria priorità collettiva e definirebbe tutte le misure da adottare ponendosi come primo obiettivo il loro ritorno ad una quotidianità conosciuta.
Cosa serve per raggiungere questo obiettivo? Che tutte le attività economiche strettamente non fondamentali siano bloccate per permettere il massimo contenimento del contagio e la sua adeguata gestione sanitaria, in modo da consentire prima possibile alle bambine e ai bambini di poter riprendere la scuola, la socialità, le attività sportive e culturali, la scoperta del mondo attorno.
Cosa si è fatto invece sinora? Si è permessa la prosecuzione di moltissime attività economiche anche non essenziali – e le tragedie delle zone più industrializzate del paese gridano vendetta – e ci si appresta a permetterne molte altre già ad aprile, dopo che la curva dei contagi ha prodotto leggeri miglioramenti.
Quale sarà la contropartita di queste pericolosissime scelte? Che la segregazione delle bambine e dei bambini, in quanto fascia per essenza non economicamente produttiva, proseguirà a scadenza indefinita.
D’altronde qual è l’ossessivo parametro che determina le scelte nel modello capitalistico e finanziarizzato? Il rapporto debito/Pil, con il denominatore in veloce precipitazione.
Molti non sanno che, nei conteggi del Pil, il settore pubblico (scuola compresa) figura solo come costo, e, poiché gli insegnanti sono (giustamente) pagati sia che la scuola sia aperta o chiusa, il rientro delle bambine e dei bambini a scuola non modifica alcun elemento del conto economico complessivo.
Ecco perché bambine e bambini possono continuare a stare a casa, mentre lavoratrici e lavoratori sono costretti a diventare carne da macello per la rincorsa del profitto e di qualche decimale di Pil, con cui presentarsi in autunno in Europa.
Ecco perché la Ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, può permettersi di dire pubblicamente che con le «classi pollaio» che si ritrova la scuola, il rientro delle bambine e dei bambini non è previsto non solo per la fine di questo anno scolastico (e, fin qui, si può capire), ma inizia ad essere messo in discussione anche per l’avvio del prossimo anno a settembre.
A parte il cinismo di definire “pollai” luoghi nei quali passano (passavano) la maggior parte della loro giornata le nostre bambine e i nostri bambini, di chi è la responsabilità di averle trasformate così, se non dei tagli draconiani alla scuola sull’altare dei vincoli di bilancio e in ossequio alla trappola del debito?
E, ancora, cosa si sta facendo e quali risorse si intendono mettere in campo per permettere il rientro delle bambine e dei bambini a scuola a settembre? Tutto tace, ma intanto fioccano le raccomandazioni affinché i genitori parlino spesso con i loro figli della situazione e li aiutino ad elaborare positivamente quanto sta succedendo.
Mi torna in mente come nei comuni e nelle città venivano usualmente gestiti, negli anni ’90, i picchi di inquinamento da traffico. Allora, i Sindaci facevano affiggere manifesti per le città con scritto “In questi giorni i livelli di inquinamento hanno superato le soglie. Si prega anziani, cardiopatici e bambini di rimanere a casa”. Ovvero, si chiedevano gli arresti domiciliari delle fasce deboli della popolazione per permettere alle fasce forti di continuare a muoversi e a lavorare, producendo inquinamento.
Penso che questo paese sarà cambiato il giorno che verranno affissi manifesti in cui sarà scritto: “In questi giorni i livelli di inquinamento hanno superato le soglie. Si prega le persone in forma e appartenenti alla fascia produttiva di rimanere a casa per permettere ad anziani, cardiopatici e bambini di muoversi liberamente in città”.
https://comune-info.net/bambini-sacrificati-al-pil/