Il primo 25 aprile della nostra storia chiusi in casa

Giulio Palermo  

La crisi morde e i lavoratori sono carne da macello. Il vampiro del capitale non ha più lavoro da succhiare alla classe operaia ma ha sempre più sete. Sta lì, nell’angolo, a divorare se stesso, in attesa che i suoi luogotenenti ingiacchettati gli portino nuovo lavoro fresco di cui nutrirsi. Ma quel lavoro fresco per ora deve rimanere rinchiuso in casa, in un mondo ormai deserto.

Ancora per un pò i lavoratori non possono tornare al lavoro e piegarsi la schiena sotto le leggi del capitale. Non certo per il loro bene e nemmeno per quello dei singoli vampiri, che si dimenano furiosamente mentre si avvicina l’alba dell’insolvenza, ma per quello dell’intero mondo delle tenebre. Perché ormai il rischio è sistemico e il capitale ha paura che dalle rivolte spontanee possa veramente sorgere il sol dell’avvenir che spazzerà via tutto.

Infatti, se il vampiro ha sete, i lavoratori hanno fame. Nei loro stomaci ormai non c’è più niente e nella loro testa è tramontato anche il sogno di un lavoro stabile con cui procacciarsi la semplice sussistenza. Ormai è balenata in loro l’idea di andare a prendersi tutto. Quelle merci nei supermercati le hanno prodotte loro e, prima di discutere degli ettolitri di lavoro aggiuntivo che dovranno versare per dissetare il capitale in crisi, ora, se le vogliono riprendere. In molti settori, i lavoratori hanno rifiutato di riprendere il lavoro, organizzando scioperi spontanei, in aperto contrasto con le direttive dall’alto dei sindacati che vanno a braccetto con i padroni. Lavorare per vivere, sì. Lavorare per morire, no! I lavoratori hanno paura. Hanno paura che ancora una volta la loro pelle sia svenduta per salvare la cravatta del capo sindacale e la Mercedes del capo d’azienda. Ma non hanno paura di assaltare i supermercati. Perché non ce la fanno più a sentir piangere i loro figli. Questa è la ragione per cui per ora devono stare tutti a casa. Semplici questioni di ordine pubblico in un sistema economico-finanziario in cui regna il caos. Del coronavirus, al governo e ai padroni, non gliene importa niente.

Mentre il capitale sbraita che si deve riprendere la produzione e che si deve farlo forzando sullo sfruttamento dei lavoratori, se no salta tutto in aria, i gendarmi hanno una sola preoccupazione: che salti veramente tutto in aria! La riapertura delle fabbriche è un problema delicato, che coglie di sorpresa gli stessi centri capitalistici e i loro bracci armati. Perché questa crisi ha fatto saltare i piani del capitale finanziario europeo, che contava di colpirci uno a uno, a cominciare dai Pigs (poi diventati Piigs con l’aggiunta dell’Italia) e poi, via via, anche gli altri: un porco alla volta, tutti i lavoratori d’Europa inviati al macello. Ma ora, in questa accelerazione mondiale, che sullo sfondo ha i rapporti conflittuali Usa-Cina, l’Europa arranca. Ormai, per non morire, deve macellarci tutti assieme e questo pone il rischio che i maiali si uniscano e prendano parola. Meglio tenerli ancora un po’ separati, ognuno nel suo porcile. Questa è la contraddizione del capitale di questi giorni.

Da una parte, i suoi servi economici, con riunioni frenetiche nelle banche centrali, nei consigli economici e finanziari e nelle confederazioni di industriali e di banchieri, a cercare il modo di scaricare il peso della crisi sui lavoratori. Mes, programma Sure, Recovery fund, Coronabond e tanti tecnicismi che si differenziano solo per il tasso di interesse che i lavoratori dovranno pagare al capitale che li sfrutta e che per non morire oggi promette di sfruttarli di più domani. Governi dell’Europa del Sud contro governi dell’Europa del Nord intenti a negoziare il salvataggio di banche e imprese, sapendo che accollando questo nuovo mare di debiti ai loro stati saranno i lavoratori di tutt’Europa a dover pagare caro e tutto. Forze politiche di destra e di sinistra che fingono di litigare nella ricerca dello strumento finanziario più appropriato per socializzare le perdite del capitale privato, ma che si guardano bene dal dire ai popoli d’Europa che lo stock di nuovo debito che gli stati dovrebbero accollarsi — poco importa attraverso quale strumento e a quale tasso di interesse — renderà immediatamente dopo inesigibile il debito sovrano. Oggi lo stato salva il capitale finanziario, domani il capitale finanziario strangola lo stato e dopodomani lo stato dissangua i lavoratori. I quali nel frattempo sono incarcerati a casa loro a fare la fame, con la bocca tappata.

Dall’altra, i suoi servi in divisa, nelle caserme, sui blindati, nelle riunioni a porte chiuse con i servizi segreti e col taccuino in mano a prendere appunti dai comandi della Nato, per cercare il modo di gestire i popoli affamati del mondo intero, che di certo non possono essere lasciati liberi di sfamarsi da soli e unirsi sotto una bandiera comune. Perché l’assalto ai supermercati non è che l’inizio, questo è chiaro sia ai signori della finanza, sia a quelli della repressione. Ma una volta saccheggiato tutto sugli scaffali dei supermercati non rimane niente. La produzione è ferma. Rimangono solo la fame dei lavoratori e la sete di profitto del capitale. L’una contro l’altra, senza alcuna possibilità di ricomporsi armoniosamente con le chiacchiere mistificate dell’unità nazionale e del bene comune.

Il primo 25 aprile della nostra storia chiusi in casa, con le strade presidiate da polizia e esercito, è ormai vicino. E per la prima volta da quando ci siamo liberati dal fascismo, la nostra festa la passeremo da soli, ognuno a casa sua nel coprifuoco permanente, a cantare Fischia il vento e Bella ciao! Poi, sarà la volta del Primo maggio. Questa è la data più temuta. Figuriamoci se il capitale concentrato, centralizzato e internazionalizzato dell’era imperialista può consentire che i lavoratori del mondo intero si ritrovino nel giorno della loro festa, con la stessa fame, la stessa rabbia e la stessa idea di porre fine a questo sistema in crisi. Sarebbe veramente un invito all’internazionale socialista. E per noi italiani non è finita perché anche il 2 giugno è una data sensibile. È vero che ormai ci hanno abituati che la Festa della Repubblica è il giorno della parata militare e dei valori morali con cui il capitale parla a nome di noi tutti, ma per il popolo italiano quella è appunto la Festa della Repubblica, non quella della dittatura del capitale.

Il problema pratico ora è scaglionare la riapertura a livello settoriale e a livello internazionale. Con il fiato sul collo del crollo economico e il colpo in canna contro l’insurrezione spontanea e suicida. Perché appunto lo spontaneismo contro una doppia strategia di sfruttamento e repressione è un suicidio collettivo. Questo lo sappiamo. Ma si illudono i baroni della finanza, i capitani d’industria e i generali dell’esercito se credono che, in questo tetro teatro, siamo solo spettatori passivi. Il nostro nemico comune non è un virus, siete voi!

In questi giorni di reclusione generalizzata, dobbiamo studiare. Dobbiamo capire i limiti di questo modello economico in cui l’unica cosa che conta è il capitale e noi siamo solo strumenti per la sua valorizzazione. Dobbiamo capire che il mercato è solo il sistema circolatorio del capitale. Fa bene a lui, non a noi. Dobbiamo capire che, in tempi di crisi, lo stato borghese non ha margini per ricomporre i contrapposti interessi di classe ma diventa semplicemente lo strumento brutale attraverso cui una classe impone il suo dominio sull’altra. Dobbiamo capire che stato e mercato non sono affatto i due poli opposti — la sinistra progressista e la destra liberista — della politica economica. Sono al contrario i due modi di governo del processo di sfruttamento del capitale sul lavoro nelle fasi alterne della congiuntura economica. L’importante è scaricare tutto sui lavoratori e sulla povera gente. Con le buone o con le cattive. Lo stiamo sperimentando in questi giorni sulla nostra pelle, dalla Sicilia a Torino, da Roma alla Toscana e alla Liguria e in ogni regione d’Italia, nelle strade, nelle periferie, nelle prigioni: quando il capitale entra in crisi, la mano invisibile del mercato indossa il pugno di ferro della repressione. 

Dobbiamo prepararci alla lotta. Altrimenti pagheremo cara la nostra improvvisazione. Mettiamo a sistema le nostre esperienze, le nostre pratiche conflittuali. Socializziamo i nostri percorsi. Dalla lotta sui posti di lavoro a quelle nelle scuole e nelle università, dalla difesa dei territori al diritto alla casa, dalle questioni di genere a quelle di razza, dallo sport popolare alla difesa del pianeta e di ogni essere vivente, lo sappiamo, esprimiamo tutti la stessa intenzione di non lasciarci sopraffare dal capitale.

Dobbiamo organizzarci. Dal basso e senza primogeniture. Moltiplichiamo le assemblee autoconvocate di lavoratori di ogni settore, di militanti di ogni provenienza. Sviluppiamo tutti i contatti che abbiamo, definiamo assieme una strategia organica e prepariamoci alla controffensiva. Perché non basta partecipare, dobbiamo vincere!

Istruiamoci, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza! Agitiamoci, perché abbiamo bisogno di tutto il nostro entusiasmo! Organizziamoci, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra forza! “Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà” (Antonio Gramsci).

https://www.lacittafutura.it/dibattito/chi-non-lotta-ha-gia-perso

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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