Cancellazione legge Fornero, riduzione dell’orario di lavoro settimanale, utilizzo del lavoro socialmente utile: alcune proposte utili a restituire senso alla nozione di pubblico.
Sul sito del Ministero del Lavoro leggiamo una sintetica definizione dei lavori socialmente utili: “Per Lavori Socialmente Utili (LSU) si intendono le attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi svolte mediante l’utilizzo dei soggetti percettori di sostegni al reddito, quindi in stato di svantaggio nel mercato del lavoro (disoccupazione, mobilità, cassa integrazione guadagni straordinaria) che, in questo modo, sono impiegati a beneficio di tutta la collettività”.
Dopo tanti anni di precariato sono state re-internalizzati i servizi di pulizia nelle scuole ma circa un quarto della forza-lavoro impegnata è stata esclusa non avendo i requisiti di anzianità richiesti.
A distanza di un anno dall’adozione del Reddito di cittadinanza qualche riflessione si rende necessaria senza cadere nelle solite trappole ideologiche, delle dispute di accademia, o di movimento, alla falsa antitesi tra favorevoli e contrari al reddito di cittadinanza.
Anche accomunare RdC e quota 100 è fuorviante o comunque funzionale a non rimettere in discussione la Riforma Fornero (la quota 100 è stata pensata per un triennio per poi tornare alla Fornero con l’aumento dell’età lavorativa in rapporto all’aumento dell’aspettativa di vita che da qualche tempo sta invece calando), e men che mai le privatizzazioni\liberalizzazioni del mondo lavorativo.
Gli ideatori di quota 100 e RdC non pensavano a invertire la tendenza delle liberalizzazioni, dell’aumento di età lavorativa e sfruttamento, volevano solo vendere l’illusione del cambiamento (a fini elettorali) lasciando dormire sonni tranquilli a Monsieur Capitale e all’occorrenza utilizzare il reddito in funzione nazionalista e razzistoide con lo slogan “Reddito agli italiani”.
A nessuno poi è venuto in mente che a pochi km dai beneficiari del Rdc una forza-lavoro “invisibile” viveva nei ghetti, lavorando una giornata nei campi per 25 miseri euro, o poco distante poteva trovarsi un magazzino della logistica con i tempi di lavoro e i movimenti guidati da un algoritmo.
Solo un ipocrita o un bugiardo potrebbe oggi sostenere che non esistevano alternative al reddito di cittadinanza: in quella fase storica chiunque avesse alzato la mano per dissentire (e noi l’abbiamo fatto) sarebbe stato bandito come nemico dei disoccupati, sottoposto al pubblico ludibrio come nemico delle classi meno abbienti.
Certo che immaginare Grillo e Salvini come amici del proletariato comporta uno sforzo mentale considerevole, eppure Movimento 5 Stelle e Lega hanno – pardon, avevano – la maggioranza assoluta dei consensi popolari e il reddito di cittadinanza si è tramutato in una valanga di voti in alcune aree del paese.
Lo ripetiamo per l’ennesima volta: non siamo contrari alla sottrazione di ricchezza al capitale previa distribuzione della stessa ai ceti popolari ma non si è trattata di una espropriazione quanto di un utilizzo dei soldi pubblici che lascia, a distanza di un anno e più, a dir poco perplessi.
Un’alternativa esisteva già un anno fa: sarebbero stati possibili i lavoratori socialmente utili ma i Governi hanno pensato che questa forza-lavoro prima o poi avrebbe raggiunto dimensioni tali da organizzarsi per rivendicare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. E i lavoratori socialmente utili, come nel caso delle pulizie scolastiche, hanno dimostrato di essere necessari al mondo del lavoro.
La storia dei lavori socialmente utili in Italia andrebbe riscritta senza affidarla alle cronache giornalistiche, ogni Regione ha una storia a sé stante ma in tanti casi le stabilizzazioni di questa forza-lavoro sono avvenute alla luce di reali necessità con immissione negli enti pubblici di giardinieri, esecutori tecnici o amministrativi, sepoltuari, addetti ai musei, assistenti di base, figure per lustri esclusi dalle dotazioni organiche degli Enti locali, escluse dalle poche assunzioni indirizzate per lo più a livelli professionali più alti.
Di fatto un lavoro socialmente utile, se utile lo è veramente, nasce dalla analisi dei fabbisogni reali di un territorio, si forma il personale affidandogli poi ruoli ben definiti e risultati da raggiungere con verifiche e controlli reali. I lavori socialmente utili sono, anzi dovrebbero essere, funzionali alla manutenzione e cura del territorio, delle infrastrutture ecc.
Pensiamo alle opere di manutenzione e risanamento del territorio, alla cura di corsi d’acqua o all’ambito sociale e culturale (perché cultura e turismo sono volano dell’economia): il ruolo del pubblico dovrebbe essere dirimente ma se il pubblico viene abbandonato, come avvenuto da 30 anni a questa parte, non potranno esserci lavori utili veri e propri. Sta qui il problema, ossia nella progressiva dismissione del pubblico e nella volontà di separare pubblico e lavoro e da qui bisogna ripartire per la necessaria inversione di tendenza.
Ad un anno dall’inizio del reddito di cittadinanza, stanno arrivando i primi reports da leggere e ponderare. Ebbene, 65.302 sono i contratti stipulati da chi beneficia del reddito, contratti per lo più precari, molti a tempo determinato (61,8%), pochi a tempo indeterminato (19,9% del totale, apprendisti inclusi) e la restante parte (18,3%) distribuita tra somministrazione e collaborazioni.
Questi dati sono sufficienti a dimostrare il fallimento del reddito di cittadinanza, dettato da motivi elettorali, dalle sovvenzioni alle imprese e senza avere ripensato\riorganizzato i centri per l’impiego e il sistema pubblico destinato alla formazione, all’aggiornamento e all’inserimento lavorativo.
Trent’anni fa era ancora possibile trovare un contratto a tempo determinato o indeterminato attraverso gli uffici pubblici di collocamento. Oggi, invece, è quasi impossibile in virtù non solo dei cambiamenti del mercato del lavoro (molti appalti, e al ribasso, affidati alle cooperative che a loro volta hanno costruito una forza lavoro sottopagata e ricattata), ma anche del ruolo delle innumerevoli agenzie interinali che spesso svolgono un ruolo selettivo della forza-lavoro per le aziende e le imprese per le quali operano.
I contratti dei beneficiari del RdC sono per lo più precari e collocati nelle regioni del Meridione e nelle Isole, come indicano le statistiche, visto che nelle aree industriali e della logistica la forza lavoro viene garantita attraverso cooperative e agenzie interinali.
Il dato sconcertante è tuttavia quello dei contratti in rapporto alla platea dei beneficiari del reddito: parliamo di 65 mila contratti su oltre 966 mila unità, pari al misero 6,7%. Tutto ciò conferma che i centri per l’impiego, dopo gli anni nei quali sono stati ridimensionati e soprattutto stravolti dalle riforme del mercato del lavoro, sono venuti meno alla loro funzione.
Siamo convinti che ogni dibattito su reddito e lavoro sia fuorviante e fuori tempo, il RdC non va eliminato ma ripensato in un’ottica totalmente diversa.
Nel periodo post pandemico saranno necessari innumerevoli interventi pubblici e in questa ottica è opportuno pensare ad un nuovo, massiccio, intervento dello Stato nel mercato dei lavoro, da qui la necessità dei lavori socialmente utili per restituire centralità nella formazione\aggiornamento\ricerca del lavoro ai centri per l’impiego. Ma non sarà possibile raggiungere questo obiettivo senza rimettere mano al mercato del lavoro, senza riduzione dell’orario settimanale e senza cancellare la Legge Fornero.
https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/piu-intervento-pubblico-nel-post-covid-19