di Scott Ritter
La storia del “piano delle taglie” si è diffusa nel contesto dello scaricabarile sulla Russia dei pezzi da novanta statunitensi per la sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan.
La mattina del 27 febbraio Beth Sanner, la vicedirettrice dei servizi segreti nazionali per l’integrazione delle missioni, è arrivata alla Casa Bianca con una copia dell’Aggiornamento Presidenziale Quotidiano (PDB), un documento che, in una forma o nell’altra, è stato reso disponibile a ogni presidente degli Stati Uniti da quando Harry Truman ricevette per la prima volta quello che era noto come il “Sommario quotidiano” nel febbraio del 1946.
La delicatezza del PDB è fuori discussione; l’ex Segretario alla Stampa della Casa Bianca, Ari Fleischer, ha definito una volta il PDB come “il documento classificato più altamente sensibile del governo”, mentre l’ex vicepresidente Dick Cheney si è riferito a esso come ai “gioielli di famiglia”.
I contenuti del PDB sono raramente condivisi con il pubblico, non solo a causa della natura altamente classificata delle informazioni che contiene, ma anche a causa dell’intimità che rivela circa le relazioni tra il capo dell’esecutivo della nazione e la comunità dei servizi segreti.
“Per gli autori dell’aggiornamento presidenziale quotidiano è importante sentirsi sicuri che i documenti non saranno mai politicizzati e/o rivelati senza necessità al pubblico dominio”, ha osservato l’ex presidente George W. Bush dopo aver lasciato la carica, dando voce a una valutazione più smussata proposta dal suo vicepresidente che aveva avvertito che qualsiasi diffusione pubblica di un PDB avrebbe costretto gli autori a “passare più tempo a preoccuparsi di come il rapporto sarebbe apparso sulla prima pagina del Washington Post.”
Il compito della Sanner era lo stesso di quello adempiuto da chi l’aveva preceduta sotto altri presidenti: trovare un modo per coinvolgere un politico i cui istinti naturali potevano non essere inclini ai dettagli tediosi e spesso contraddittori contenuti in molti prodotti dei servizi segreti. Questo era particolarmente il caso con Donald J. Trump, che risulta sdegnare rapporti dettagliati scritti, preferendo invece aggiornamenti orali supportati da grafici.
Il risultato finale è stato un processo di aggiornamento in due fasi, in cui la Sanner ha cercato di distillare materiale cruciale oralmente per il presidente, lasciando il compito di occupare dei dettagli esposti nel prodotto scritto ai suoi massimi consiglieri. Questo approccio è stato approvato in anticipo del direttore dei servizi segreti nazionali [DNI], dal direttore della CIA e dal consulente del presidente per la sicurezza nazionale.
La Sanner, un’analista veterano della CIA che ha in precedenza diretto l’ufficio responsabile di preparare il PDB, ha operato da principale consulente del DNI “su tutti gli aspetti dello spionaggio”, responsabile della creazione di “una visione coerente e olistica dello spionaggio, dalla raccolta all’analisi delle informazioni” e garantisce la “consegna di informazioni puntuali, oggettive, accurate e rilevanti”.
Se c’era qualcuno nella comunità dei servizi in grado di separare il grano dal loglio quando si trattava di quali informazioni erano adatte alla presentazione verbale al presidente, quello era la Sanner.
Nessuna copia del PDB del 27 febbraio è stata resa disponibile all’esame del pubblico, né probabilmente lo sarà mai nessuna.
Tuttavia, sulla base di informazioni racimolate da servizi mediatici derivati da fonti anonime, emerge un quadro di almeno uno degli argomenti contenuti nel documento di aggiornamento, il proverbiale “epicentro” dell’attuale crisi che circonda accuse che la Russia abbia pagato taglie in contanti a persone affiliate ai talebani al fine di uccidere personale militare statunitense e della coalizione in Afghanistan.
Collegamenti tra conti
In un giorno dell’inizio del gennaio 2020 una forza combinata di agenti speciali statunitensi e di commando del servizio nazionale di spionaggio afgano (NDS) aveva fatto irruzione negli uffici di diversi uomini d’affari nella città afgana settentrionale di Konduz e nella città capitale di Kabul, secondo un articolo del The New York Times. Gli uomini d’affari erano coinvolti nella vecchia pratica del “Hawala”. E’ un sistema tradizionale di trasferimento di denaro nelle culture islamiche, realizzato mediante il versamento di denaro a un agente che poi istruisce un collega distante di versarlo al beneficiario finale.
Funzionari della sicurezza afgana affermano che l’irruzione nona aveva nulla a che fare con il “contrabbando di fondi da parte di russi”, bensì era una reazione alla pressione della Task Force di Azione Finanziaria (FATF), un organismo internazionale creato nel 1989 la cui missione consiste, tra l’altro, nel fissare standard e promuovere l’efficace attuazione di misure legali, disciplinari e operative per combattere il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo.
Questa spiegazione, tuttavia, sembra più una storia di copertura che un fatto, se non altro per il fatto che il FATF, nel giugno del 2017, ha formalmente riconosciuto che l’Afghanistan aveva creato “il quadro legale e disciplinare per adempiere i suoi impegni nel suo piano d’azione”, notando che l’Afghanistan non era “perciò più soggetto alla procedura di controllo del FATF”.
L’irruzione congiunta USA-Afghanistan, secondo il Times, non era finalizzata a demolire il sistema Hawala in Afghanistan – un compito virtualmente impossibile – bensì piuttosto una particolare rete Hawala gestita da Rahmatullah Azizi, un ex contrabbandiere di droga di basso livello divenuto un uomo d’affari di alto profilo, assieme a un collega di nome Habib Murabi.
Il portafoglio di Azizi, secondo il Times che cita un “amico”, comprenderebbe il servizio da appaltatore dei programmi statunitensi di ricostruzione, la gestione di affari economici non definiti con la Russia che, secondo le fonti non nominate dei servizi segreti citate dal Times, includerebbero incontri di persona con funzionari dello Spionaggio Militare Russo (GRU) e il servizio di corriere tra i talebani e la Russia in un piano segreto di riciclaggio di denaro.
Nelle irruzioni erano state arrestate circa tredici persone, compresi membri della famiglia estesa di Azizi e stretti associati. Sia Azizi sia Muradi, tuttavia, avevano eluso la cattura ed erano ritenuti dai funzionari afgani della sicurezza essere fuggiti in Russia.
Sulla base, in larga parte, di informazioni derivate dagli interrogatori dei detenuti che erano seguiti, analisti dello spionaggio statunitense avevano messo insieme un quadro dell’attività Hawala di Azizi, descritta come “stratificata e complessa”, con trasferimenti di somme “spesso frazionate in importi minori canalizzati attraverso diversi paesi regionali prima di arrivare in Afghanistan”.
Ciò che rendeva ancora più interessanti tali transazioni da un punto di vista dello spionaggio, erano i collegamenti individuati dagli analisti statunitensi tra il sistema Hawala di Azizi, un sistema elettronico di trasferimenti, un conto collegato ai talebani e un conto russo che alcuni ritenevano collegato all’Unità 29155 (un’attività segreta della GRU ritenuta coinvolta, tra l’altro, in assassinii). Le transazioni erano state individuate dall’Agenzia della Sicurezza Nazionale (NSA), l’agenzia di spionaggio statunitense responsabile di controllare le comunicazioni e i dati elettronici in tutto il mondo.
La scoperta di circa 500.000 dollari in contanti da parte di agenti speciali statunitensi nella lussuosa villa di Azizi a Kabul era stata la ciliegina sulla torta, il “puntino” finale di un gioco complesso e confuso di “collegamento di puntini” che comprendeva la valutazione da parte della comunità dello spionaggio statunitense del presunto collegamento Russo (GRU) – Talebano (Azizi).
Il compito successivo degli analisti dello spionaggio consisteva nel vedere dove li portava il collegamento Russo (GRU) – Talebano (Azizi). Utilizzando informazioni raccolte da interrogatori di detenuti, gli analisti avevano ridotto i fondi ricevuti da Azizi attraverso la sua rete Hawala in “pacchetti”, alcuni comprendenti centinaia di migliaia di dollari che erano stati distribuiti a entità affiliate ai talebani o loro simpatizzanti.
Secondo i funzionari della sicurezza afgana citati dal Times almeno parte di tali versamenti erano specificamente destinati allo scopo di uccidere soldati statunitensi, con un prezzo di circa 100.000 dollari per ogni statunitense morto.
Il gioco di “collegare i puntini” è proseguito con gli analisti dello spionaggio statunitense che hanno collegato il denaro di quelle “taglie” a reti criminali nella provincia di Parwan, dove è situata la base dell’aviazione di Bagram, la più vasta installazione militare statunitense in Afghanistan. Secondo funzionari della sicurezza afgana, reti criminali locali avevano condotto attacchi per conto dei talebani in passato in cambio di denaro. Tale collegamento ha indotto gli analisti dello spionaggio statunitense a dare una nuova occhiata a un attentato del 9 aprile 2019 condotto con un’autobomba all’esterno della base aerea di Bagram che aveva ucciso tre marine statunitensi.
Tali informazioni erano contenute nel PDB consegnato a Trump il 27 febbraio. Secondo la procedura standard, avrebbero dovuto essere vagliate da almeno tre agenzie dello spionaggio: la CIA, il Centro Nazionale Antiterrorismo (NCC) e la NSA. Sia la CIA sia il NCC avevano valutato la scoperta che la GRU aveva offerto taglie ai talebani con “moderata sicurezza”, che nel lessico usato dalla comunità dello spionaggio significa che le informazioni sono interpretate in vari modi, che ci sono visioni alternative o che le informazioni sono credibili e plausibili ma non convalidate in misura sufficiente per garantire un livello più elevato di sicurezza.
La NSA, tuttavia, ha valutato le informazioni come di “bassa sicurezza”, intendendo che aveva considerato le informazioni come tanto scarse, discutibili o molto frammentate da rendere difficile trarne solide deduzioni analitiche e che da indurre considerevoli preoccupazioni o problemi circa le fonti di informazione utilizzate.
A galla nella boccia
Tutte queste informazioni erano contenute nel PDB portato alla Casa Bianca dalla Sanner. Il problema per la Sanner era il contesto e la rilevanza delle informazioni che recava. Solo cinque giorni prima, il 22 febbraio, gli Stati Uniti e i talebani avevano concordato un parziale cessate il fuoco di cinque giorni quale preludio alla conclusione di un accordo di pace programmato per la firma due giorni dopo, il 29 febbraio.
Il rappresentante statunitense per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad era a Doha, Qatar, a elaborare i tocchi finali all’accordo con la sua controparte talebana. Il Segretario di Stato Mike Pompeo si stava preparando a partire dagli USA per Doha, dove avrebbe assistito alla cerimonia della firma. Le informazioni recate dalla Sanner nel PDB erano il proverbiale stronzo nella boccia del punch.
Il problema era che la valutazione dello spionaggio circa le presunte “taglie” russe della GRU non conteneva alcuna informazione convalidata. Erano tutte informazioni grezze (descritte da un funzionario informato che un “rapporto di raccolta di informazioni”) e c’erano seri disaccordi tra le diverse comunità di analisi, in particolare da parte della NSA che si era risentita per il fraintendimento delle sue intercettazioni e per l’eccessiva dipendenza da informazioni non confermate derivate da interrogatori di detenuti.
Inoltre, nessuna delle informazioni che collegavano la GRU ai talebani offriva alcuna indicazione di quanto in là si spingesse la conoscenza delle “taglie” da parte della catena di comando russa, e se qualcuno al Cremlino – per non parlare del presidente Vladimir Putin – ne fosse o no a conoscenza.
Nessuna delle informazioni contenute nel PDB era “operativa”. Il presidente non poteva sollevare granché bene il telefono per lamentarsi con Putin sulla base di un caso ricavato unicamente da informazioni non verificate e in alcuni casi non verificabili.
Aggiornare il presidente su una valutazione che, se presa alla lettera, avrebbe potuto smontare un accordo di pace che rappresentava un impegno chiave del presidente nei confronti della sua base politica nazionale – riportare in patria i soldati statunitensi da interminabili guerre all’estero – era l’epitome della politicizzazione dello spionaggio, specialmente quando non c’era alcuna unanimità nella comunità dei servizi segreti statunitensi, tanto per cominciare, circa il fatto che la valutazione fosse persino corretta.
Questa era una materia che poteva, e sarebbe stata, gestita dai consiglieri della sicurezza nazionale del presidente. La Sanner non avrebbe aggiornato di persona il presidente riguardo a tale rapporto, una decisione che trovava d’accordo il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Robert O’Brien.
Denuncia della Russia
Por fine ai 19 anni di disavventura degli Stati Uniti in Afghanistan era sempre stato un obiettivo del presidente Trump. Come entrambi i presidenti prima di lui i cui mandati avevano assistito alle morti di soldati statunitensi in quella terra dura, lontana e inospitale, Trump si è trovato ad affrontare una dirigenza militare e della sicurezza nazionale convinte che la “vittoria” potesse essere ottenuta, se solo fossero investite nel problema risorse sufficienti, appoggiate da una dirigenza decisa.
La sua scelta a Segretario alla Difesa, James “cane rabbioso” Mattis, un generale in pensione dei marine responsabile del Comando Centrale (il comando geografico combattente responsabile, tra altre regioni, dell’Afghanistan) aveva premuto Trump per altri soldati, altro equipaggiamento e una mano più libera nell’attaccare il nemico.
Nell’autunno del 2017, Trump alla fine aveva accettato di inviare circa 3.000 soldati in più in Afghanistan, assieme a nuove regole d’ingaggio, che avrebbero consentito maggiore flessibilità e una reazione più rapida per l’impiego di attacchi aerei statunitensi contro forze ostili in Afghanistan.
Al presidente c’è voluto poco più di un anno rendersi conto di una realtà che sarebbe stata riflessa nei risultati dello Speciale Ispettore Generale per la Ricostruzione dell’Afghanistan, John Sopko, che c’erano stati “sforzi espliciti e sostenuti del governo statunitense di fuorviare deliberatamente il pubblico… di distorcere statistiche per far apparire che gli Stati Uniti stavano vincendo la guerra, quando non era così”.
Nel novembre del 2018 Trump si è rivoltato contro “Cane rabbioso”, dicendo all’ex generale dei marine: “Le ho dato quello che aveva chiesto. Autorità illimitata, nessuna restrizione. Lei sta perdendo. Sta prendendo calci in culo. Lei ha fallito”.
E’ stata probabilmente la valutazione più onesta della guerra in Afghanistan dichiarata da qualsiasi presidente statunitense al suo segretario alla difesa in carica. A dicembre 2018 Mattis era fuori, essendosi dimesso di fronte alla decisione di Trump di tagliare le perdite statunitensi non solo in Afghanistan, ma anche in Siria e in Iraq.
Lo stesso mese il diplomatico statunitense Khalilizad aveva avviato il processo di colloqui diretti di pace con i talebani conclusosi con l’accordo di pace del 29 febbraio. E’ stata una disputa sui colloqui afgani di pace a condurre al licenziamento del Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton. Nel settembre del 2019 Trump voleva invitare la dirigenza talebana a Camp David per la cerimonia della firma, iniziativa che Bolton aveva contribuito ad annullare. Trump aveva cancellato il “vertice” citando un attacco talebano che aveva tolto la vita a un soldato statunitense, ma Bolton era sparito.
Discorsi sul fallimento
Non si affrontano due decenni di investimenti sistemici in un fallimento militare che si era radicato sia nella psiche sia nella struttura della dirigenza militare statunitense, il licenziamento di un segretario alla difesa popolare e poi non si fa seguito a ciò con il congedo di uno dei più vendicativi combattenti burocratici intestini nell’attività, senza accumulare nemici.
Washington DC è sempre stato un Peyton Place politico dove nessun atto finisce impunito. Tutti i presidenti affrontano questa realtà, ma Trump è stato un caso molto differente; in nessun momento della storia degli Stati Uniti una figura così divisiva aveva conquistato la Casa Bianca. Il programma anti-establishment di Trump aveva allontanato persone dell’intero spettro politico, spesso per buoni motivi. Ma egli aveva anche assunto la carica con una Lettera Scarlatta con la quale nessuno dei suoi predecessori aveva dovuto fare i conti: lo stigma di una “elezione rubata” conquistata solo con l’aiuto dello spionaggio russo.
Il mantra dell’”interferenza russa” era onnipresente, citato da legioni di avversari di Trump improvvisamente permeati di una valutazione da Guerra Fredda della geopolitica globale, che vedevano l’Orso Russo dietro ogni blocco stradale incontrato, mai soffermandosi a considerare che il problema poteva in realtà risiedere più vicino a casa, nella stessa dirigenza militare che Trump cercava di sfidare.
L’Afghanistan non era diverso. Prima di dimettersi da comandante delle forze statunitensi in Afghanistan nel settembre del 2018, il generale dell’esercito John Nicholson aveva cercato di deviare la responsabilità della realtà che, nonostante aver ricevuto i rinforzi e la libertà di azione richiesti, le sue forze stavano perdendo la battaglia per l’Afghanistan.
Incapace di farsi carico della responsabilità, o non disposto a farlo, Nicholson aveva invece scelto la via d’uscita sicura: incolpare la Russia.
Scaricabarile
“Sappiamo che la Russia sta tentando di minare le nostre conquiste militari e anni di progressi militari in Afghanistan, e indurre partner a mettere in discussione la stabilità dell’Afghanistan”, aveva scritto Nicholson in una e-mail a giornalisti, apparentemente immemore della storia di fallimenti e bugie documentati all’epoca da Sopko.
Nel marzo del 2018 Nicholson aveva accusato i russi di “agire per minare” gli interessi statunitensi in Afghanistan, accusando i russi di armare i talebani. Ma l’esempio più indicativo di chiamata in causa della Russia da parte del generale si era verificato nel febbraio del 2017, poco dopo l’insediamento del presidente Trump. In un’apparizione davanti al Comitato del Senato sulle Forze Armate, Nicholson era stato affrontato dal senatore Bill Nelson, un Democratico della Florida ardente sostenitore dell’intervento statunitense in Afghanistan.
“Se la Russia si sta arruffianando i talebani – e questo è un termine gentile – se sta consegnando equipaggiamenti di cui abbiamo prove che i talebani stanno ricevendo… e altre cose che non possiamo menzionare in questo contesto non segretato, e se i talebani sono anche associati con al-Qaeda, perciò i russi stanno aiutando indirettamente al-Qaeda in Afghanistan?” aveva chiesto Nelson.
“La sua logica è assolutamente solida, signore”, era stata la risposta di Nicholson.
Salvo che le cose non stavano così.
La Russia ha una storia lunga e complicata in Afghanistan. L’Unione Sovietica invase l’Afghanistan nel 1979 e nel corso del decennio successivo combatté una guerra lunga e costosa contro tribù afgane, appoggiate da fondi e armi statunitensi e da una legione di jihadisti arabi che in seguito si sarebbe trasformata in quella stessa al-Qaeda cui il senatore Nelson alludeva nella sua domanda al generale Nicholson.
Arrivati al 1989 l’impero sovietico si stava esaurendo, e con esso la sua disastrosa guerra afgana. Nel decennio seguente la Russia fu in conflitto con il governo talebano sorto dalle ceneri della guerra civile afgana seguita dopo il ritiro delle forze sovietiche.
Mosca ha offerto il suo appoggio alle forze più moderate della cosiddetta Alleanza del Nord e, dopo gli attacchi terroristici di al-Qaeda dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti ha sostenuto l’intervento a guida USA per sconfiggere i talebani e portare stabilità a una nazione che confinava con le repubbliche dell’Asia centrale dell’ex Unione Sovietica, che la Russia considerava particolarmente sensibili per la propria sicurezza nazionale.
Riconoscimento che gli USA stavano perdendo la guerra
Quattordici anni dopo, nel settembre del 2015, la Russia si era trovata di fronte alla realtà che gli Stati Uniti non avevano una strategia per la vittoria in Afghanistan e che, lasciato ai suoi mezzi, l’Afghanistan era condannato al collasso in un pantano ingovernabile di interessi tribali, etnici e religiosi che avrebbero generato un estremismo capace di migrare oltre confine nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e nella stessa Russia.
Le preoccupazioni della Russia erano condivise da paesi regionali quali Pakistan e Cina, entrambi che rischiavano serie minacce sotto forma di estremismo islamista interno.
La cattura della città afgana settentrionale di Konduz, seguita dall’ascesa di una gruppo islamista ancor più militante in Afghanistan noto come Stato Islamico-Khorassan (IS-K), entrambe le cose verificatesi nel settembre del 2015, aveva lasciato concludere ai russi che gli USA stavano perdendo la guerra in Afghanistan e che migliore speranza della Russia consisteva nel collaborare con lo schieramento prevalente – i talebani – al fine di sconfiggere la minaccia dell’IS-K e di creare le condizioni per un accordo negoziato di pace in Afghanistan.
Nulla di questa storia è stato menzionato né dal generale Nicholson né dal senatore Nelson. Nicholson, invece, ha cercato di presentare come “maligno” il coinvolgimento della Russia in Afghanistan, dichiarando in un aggiornamento del 16 dicembre 2016 che:
“la Russia che dato apertamente legittimità ai talebani. E la sua versione è circa questa: che i talebani sono quelli che combattono lo Stato Islamico, non il governo afgano. E naturalmente… il governo afgano e lo sforzo antiterroristico statunitense sono quelli che ottengono i maggiori risultati contro lo Stato Islamico. Dunque, questa legittimazione pubblica che la Russia riconosce ai talebani non è basata sui fatti, bensì è utilizzata come un modo per essenzialmente minare lo sforzo del governo afgano e della NATO e per rafforzare i belligeranti”.
Assente dai commenti di Nicholson è qualsiasi riconoscimento circa la creazione dell’IS-K e circa l’impatto avuto da esso sui talebani nel loro complesso.
La creazione dell’IS-K può essere collegata causalmente al caos verificatosi nei ranghi interni dei talebani dopo la morte del mullah Omar, il fondatore e l’ispiratore morale dell’organizzazione. La lotta per la scelta di un successore a Omar aveva rivelato il frazionamento dei talebani in tre fazioni.
Una, rappresentante la fazione prevalente dei talebani strettamente collegata al mullah Omar, voleva proseguire ed estendere la lotta esistente contro il governo dell’Afghanistan e la coalizione a guida statunitense, che lo appoggiava e sosteneva in un tentativo di ripristinare l’emirato che governava prima di essere cacciato dal potere nel mese successivo agli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Un’altra, basata sui ranghi del talebani pachistani, voleva un approccio più radicale che perseguiva un emirato regionale oltre i confini dell’Afghanistan.
Una terza fazione si era stancata di anni di lotte e considerava la morte del mullah Omar come un’occasione per un accordo negoziato di pace con il governo afgano. L’IS-K era emerso dai ranghi del secondo gruppo e costituiva una minaccia reale per la sopravvivenza dei talebani se avesse potuto motivare numeri più vasti dei combattenti talebani più fanatici a disertare dai ranghi dei talebani prevalenti.
Per i russi, che assistevano alla crescente potenza dei talebani così come manifestatasi nella cattura di breve durata di Konduz, il pericolo maggiore non era una vittoria dei talebani sul governo afgano dominato dagli Stati Uniti, bensì piuttosto l’emergere di un movimento estremista regionale di mentalità islamista che poteva servire da modello e ispirazione per mussulmani in età da combattimento per unirsi, consentendo l’instabilità violenta di inasprirsi localmente e di diffondersi regionalmente per decenni a venire. I talebani prevalenti non erano considerati più una forza da affrontare, bensì piuttosto da contenere mediante cooptazione.
In una dichiarazione davanti a soldati statunitensi del dicembre 2016 l’allora presidente Barack Obama aveva ammesso apertamente che “gli Stati Uniti non possono eliminare i talebani o por fine alla violenza in quel paese [Afghanistan]”. La Russia era giunta a tale conclusione più di un anno prima, dopo la cattura talebana di Konduz.
Un anno prima che Obama facesse questo annuncio, Zamir Kabulov, il rappresentante speciale russo in Afghanistan, aveva segnalato che “gli interessi dei talebani coincidono oggettivamente con i nostri” quando si trattava di limitare la diffusione dello Stato Islamico in Afghanistan e aveva riconosciuto che la Russia aveva “canali aperti di comunicazione con i talebani per scambiare informazioni”.
Per parte loro, i talebani erano dapprima freddi al pensiero di collaborare con i russi. Un portavoce aveva dichiarato che “non vediamo la necessità di ricevere aiuti da nessuno riguardo al cosiddetto Daesh [Stato Islamico] e né abbiamo contattato né parlato con nessuno riguardo a questo problema”.
Molti dei dirigenti talebani avevano una storia di lotta contro i sovietici negli anni Ottanta ed erano restii a essere visti collaborare con il loro vecchio nemico. L’ascesa dell’IS-K in Afghanistan, tuttavia, creava una minaccia comune che contribuiva a sanare vecchie ferite e anche se i talebani si opponevano a qualsiasi relazione aperta, i russi avevano avviato un processo dietro le quinte di discreto coinvolgimento diplomatico. (Kabulov aveva una storia di negoziati con i talebani che risaliva alla metà degli anni Novanta).
Arrivati al novembre 2018, tale sforzo era maturato in quello che era chiamato il “Format di Mosca”, un processo di coinvolgimento diplomatico tra la Russia e i vicini dell’Afghanistan che era sfociato nel primissimo invio di una delegazione talebana a Mosca al fine di discutere le condizioni necessarie per colloqui di pace da tenersi per por fine al conflitto in Afghanistan.
Quando il presidente Trump ha cancellato i negoziati di pace USA-talebani nel settembre del 2019, è stato il “Format di Mosca” che ha mantenuto vivo il processo di pace, con la Russia che ha ospitato una delegazione dei talebani per discutere il futuro del processo di pace.
Il coinvolgimento russo ha contribuito a mantenere aperta una finestra di negoziati con i talebani, aiutando ad agevolare il ritorno finale degli USA al tavolo negoziale lo scorso febbraio e ha avuto non piccola parte nella riuscita conclusione finale dell’accordo di pace del 27 febbraio 2020, un fatto che nessuno negli Stati Uniti era disposto a riconoscere pubblicamente.
Cattivo spionaggio
Il Rapporto sulla Raccolta di Informazioni che si era fatto strada nel PDB del 27 febbraio non era apparso in un vuoto. La scelta della rete Hawala gestita da Rahmatullah Azizi era stata la manifestazione di una più vasta ostilità antirussa che esisteva dal 2015 nelle priorità di raccolta di informazioni dell’esercito statunitense, della CIA e nella Direzione della Sicurezza Nazionale (NDS) afgana.
Tale ostilità può essere fatta risalire a pregiudizi interni esistenti sia nel Comando Centrale USA sia nella CIA contro qualsiasi cosa sia russa e all’impatto avuto da tali pregiudizi sul ciclo dello spionaggio come applicato all’Afghanistan.
L’esistenza di questo tipo di pregiudizi è la campana a morto di qualsiasi sforzo professionale di spionaggio, poiché distrugge l’oggettività necessaria per produrre analisi efficaci.
Sherman Kent, il decano dell’analisi dello spionaggio statunitense (Il Centro Analisi delle Informazioni della CIA prende il suo nome) ammoniva circa questo pericolo, indicando che mentre non c’erano scuse per pregiudizi procedurali o politici, l’esistenza di pregiudizi analitici o cognitivi era radicata nella condizione umana, richiedendo di un continuo sforzo di minimizzazione da parte dei responsabili del controllo di compiti di analisi.
Kent sollecitava gli analisti “a opporsi alla tendenza di vedere nelle informazioni quello che si aspettano di vedere” e “sollecitava una speciale cautela quando una squadra intera di analisti concorda su un’interpretazione degli sviluppi di ieri e su una predizione di quelli di domani”.
Parte di una litania di fallimenti dello spionaggio
Il collegamento tra teoria è realtà è stato raramente, se mai lo è stato, attuato all’interno della comunità dello spionaggio statunitense. Da stime esagerate della Guerra Fredda del potenziale militare sovietico (i divari dei “bombardieri” e dei “missili”), alla sottovalutazione del potenziale militare Vietcong e nord-vietnamita, al fallimento di predire accuratamente la necessità e l’impatto delle politiche di riforma di Gorbaciov nell’Unione Sovietica, alla disfatta che è stata la questione delle armi di distruzione di massa (WMD) irachene, a una simile errata lettura del potenziale e delle intenzioni nucleari dell’Iran e ai due decenni di fallimento che sono stati (e sono) l’esperienza afgana, la comunità dello spionaggio statunitense ha una storia di pervasione delle sue analisi da parte di pregiudizi sia politici sia cognitivi e di interpretare in modo molto, molto sbagliato una quantità di cose.
La storia delle taglie russe non fa eccezione. Rappresenta il collegamento di due correnti analitiche separate, entrambe le quali ampiamente pervase di pregiudizi politici; una, rappresentante la rabbia degli Stati Uniti per non essere in grado di controllare il destino della Russia dopo il collasso dell’Unione Sovietica, e la secondo la lettura totalmente errata da parte degli Stati Uniti della realtà dell’Afghanistan (e dei talebani) relativamente alla Guerra Globale al Terrore (GWOT).
Circa nel primo decennio queste due correnti hanno vissuto vite separate, popolare da squadre di analisti il cui lavoro si incrociava raramente (in realtà, a dire il vero, la “casa” russa/eurasiatica era stata frequentemente derubata dei suoi talenti migliori per alimentare l’insaziabile appetito di maggiori e migliori “analisi” imposto dall’impresa della GWOT).
L’elezione di Barack Obama, tuttavia, aveva cambiato il paesaggio dello spionaggio e, nel farlo, aveva avviato processi che consentiva a tali due correnti sino allora separate dello spionaggio di muoversi insieme.
Sotto il presidente Obama gli Stati Uniti avevano deciso un’”impennata” di circa 17.000 soldati in più in Afghanistan in un tentativo di capovolgere le sorti dello scontro. Al settembre del 2012 tali truppe erano state ritirate; l’”impennata” era terminata, con poco da mostrare a parte altri 1.300 soldati statunitensi uccisi e decine di migliaia di altri feriti. L’”impennata” era fallita, ma come ogni fallimento radicato nella politica presidenziale, era stata invece spacciata per un successo.
In quello stesso anno l’amministrazione Obama aveva subito un altro fallimento politico di dimensioni simili. Nel 2008 il presidente russo Vladimir Putin aveva scambiato di posto con il primo ministro Dmitri Medvedev e quando Obama aveva assunto la carica la sua squadra di esperti della Russia, guidata da un professore della Stanford di nome Michael McFaul, gli aveva spacciato il concetto di una “reimpostazione” delle relazioni USA-Russia, che si erano inacidite sotto otto anni di presidenza Bush.
Ma la “reimpostazione” era decisamente unilaterale; attribuiva a Putin l’intera colpa del cattivo sangue tra le due nazioni e nessuna colpa a due successivi otto anni di amministrazioni presidenziale, guidate da Bill Clinton e da George W. Bush che avevano visto gli Stati Uniti espandere l’alleanza della NATO fino ai confini della Russia, abbandonare fondamentali accordi sul controllo delle armi, e comportarsi fondamentalmente come se la Russia fosse un nemico sconfitto il cui unico atteggiamento accettabile era di acquiescenza e sottomissione.
Quello era un gioco che il primo presidente russo, Boris Yeltsin, era sembrato sin troppo felice di giocare. Il successore da lui scelto, Vladimir Putin, tuttavia, non lo era.
Con Medvedev insediato quale presidente, McFaul aveva cercato di rafforzare politicamente Medvedev – in effetti di praticargli il trattamento “Yeltsin” – nella speranza che un Medvedev rafforzato potesse essere in grado di cacciare Putin dal quadro.
Per una quantità di motivi (forse il più importante il fatto che Putin non aveva nessuna intenzione di farsi schiacciare e Medvedev non era mai stato incline a praticare nessuno schiacciamento) la “reimpostazione” russa era fallita. Putin era stato rieletto presidente nel marzo del 2012. Lo stratagemma di McFaul nera fallito e da quel momento in poi le relazioni USA-Russia erano diventate un “gioco a somma zero” per gli Stati Uniti; ogni successo russo era considerato un fallimento statunitense e viceversa.
Nel 2014, dopo aver visto un presidente ucraino filorusso regolarmente eletto, Viktor Yanukovych, deposto dalla carica da una rivolta popolare che, se non patrocinata dagli USA, era appoggiata dagli USA, Putin aveva reagito annettendo la penisola a maggioranza russa della Crimea e appoggiando i secessionisti filorussi nella regione scissionista del Donbass dell’Ucraina.
Tale azione aveva creato uno scisma tra la Russia e gli Stati Uniti e l’Europa con la conseguente imposizione di sanzioni economiche contro la Russia da parte di entrambe le entità e l’emergere di una nuova relazione di tipo Guerra Fredda tra la Russia e la NATO.
Nel 2015 la Russia aveva fatto seguito al suo intervento in Ucraina con l’invio del suo esercito in Siria dove, su invito del governo siriano, aveva contribuito a cambiare le sorti del campo di battaglia a favore del presidente siriano sotto attacco, Bashar al-Assad, contro un assortimento di gruppi jihadisti.
Nel giro di una notte, l’acqua stagnante che erano stati gli affari Russia/Europa è stata gettata a tutto campo sul palcoscenico mondiale e, con esso, nel cuore della politica statunitense. La scuola di McFaul della fobia di Putin è divenuta improvvisamente un dogma e ogni accademico che ha pubblicato un libro o un articolo critico del presidente russo è stato elevato di rango e statura, fino a, e compreso, un posto nei massimi circoli decisionali della comunità dello spionaggio statunitense.
I russi sono stati improvvisamente permeati di capacità quasi sovrumane, fino a, e compresa, la capacità di rubare un’elezione presidenziale statunitense.
Dopo il fallimento dell’impennata di Obama in Afghanistan e il ritiro dall’Iraq nel 2011 di tutte le truppe combattenti statunitensi, l’atteggiamento mentale in tutta l’area di operazioni del Comando Centrale è stato di “stabilità”. Tale è stata la guida del comando e la commiserazione degli analisti dello spionaggio che tentavano di diffondere un segnale di allarme o di iniettare un minimo di realtà nell’impresa dello spionaggio la cui missione era di sostenere tale senso di stabilità.
In effetti, quando lo Stato Islamico è rimbombato fuori dal deserto occidentale dell’Iraq per stabilirsi nella Siria orientale, dozzine di analisti dello spionaggio del CENTCOM hanno lamentato ufficialmente che la loro alta direzione stava manipolando di proposito i risultati delle analisi prodotte dal CENTCOM per dipingere un quadro “roseo” deliberatamente fuorviante della verità sul terreno per paura di irritare il Comandante in Capo e i suoi massimi collaboratori.
Per chiunque abbia trascorso del tempo nell’esercito, l’importanza della guida del comando, scritta o verbale, quando si tratta di decidere sia le priorità sia gli approcci, non può essere sopravvalutata. In breve, quello che il generale vuole, il generale lo ottiene; guai all’ufficiale inferiore o all’analista che non ha compreso il messaggio.
Nel 2016 il comandante delle forze statunitensi in Afghanistan, generale Nicholson, voleva vedere i russi minare gli obiettivi politici statunitensi in Afghanistan. La cultura venefica esistente nell’impresa dello spionaggio del CENTCOM era sin troppo felice di adeguarsi.
Il degrado dell’informazione al “piano zero” ha finito col degradare l’intera comunità dello spionaggio statunitense, specialmente quando c’è stato un desiderio sistemico di scaricare la colpa del fallimento della politica statunitense in Afghanistan dovunque ma non sui responsabili: esattamente sulle spalle dei decisori della politica statunitense e sull’esercito che ne ha eseguito gli ordini.
E c’è stato un apparato potenziato di spionaggio Russia/Eurasia in cerca di occasioni di scaricare la colpa sulla Russia. Incolpare la Russia del fallimento della politica statunitense in Afghanistan è diventato la legge della nazione.
Le conseguenze di questi pregiudizi politici e cognitivi sono sottili, ma evidenti a quelli che sanno che cosa cercare e che siano disposti a dedicare del tempo alla ricerca.
Dopo la rivelazione al The New York Times delle informazioni sulle “taglie” russe, membri del Congresso hanno preteso risposte riguardo all’affermazione della Casa Bianca che le informazioni pubblicate sul Times (e imitate da altri canali mediatici prevalenti) erano “non confermate”.
Il deputato Jim Banks, che fa parte del Comitato sulle Forze Armate in qualità di uno degli otto parlamentari Repubblicani aggiornati dalla Casa Bianca sulla sostanza delle informazioni riguardanti le presunte “taglie” russe, ha twittato poco dopo la fine della riunione che “avendo operato in Afghanistan nel periodo della presunta offerta delle taglie, nessuno è più arrabbiato di me al riguardo”.
La biografia di Bank segnala che “nel 2014 e 2015 si è messo in aspettativa dal Senato dello stato dell’Indiana per un impiego in Afghanistan durante le operazioni Enduring Freedom e Freedom’s Sentinel”.
La cronologia di Banks riflette quella offerta da un ex alto dirigente talebano, il mullah Manan Niazi, che ha dichiarato a giornalisti statunitensi che lo hanno intervistato dopo l’uscita della notizia delle “taglie” russe che “i talebani sono stati pagati dallo spionaggio russo per attacchi contro forze statunitensi, in Afghanistan, dal 2014 fino al presente”.
Niazi è emerso come figura chiave dietro il parto della narrazione delle “taglia” e tuttavia la sua voce è assente nel servizio del The New York Times, per un buon motivo: Niazi è un personaggio equivoco i cui riconosciuti collegamenti sia con lo spionaggio afgano (NDS) sia con la CIA minano la sua credibilità come fonte affidabile di informazioni.
Funzionari, parlando anonimamente ai media, hanno affermato che “la storia della caccia alle taglie era ‘ben nota’ nella comunità dello spionaggio in Afghanistan, compreso il capo della stazione della CIA e dirigenti di vertice nel paese, come ai commando militari alla caccia dei talebani. Le informazioni erano distribuite in rapporti dello spionaggio ed evidenziate in alcuni di essi”.
Se ciò è vero e parte di queste informazioni ha trovato spazio nel rapporto dello spionaggio cui ha fatto riferimento il deputato Banks, allora la comunità dello spionaggio statunitense ha spacciato l’idea di una taglia russa sui soldati statunitensi fino almeno dal 2015, per coincidenza nello stesso periodo in cui la Russia aveva cominciato a schierarsi con i talebani contro l’IS-K.
Viste in questa luce le affermazioni che Bolton avesse informato il presidente Trump circa la storia delle “taglie” nel marzo del 2019 – un anno intero prima che il PDB fosse consegnato alla Casa Bianca – non sembrano troppo inverosimili, salvo per un piccolo dettaglio: quali erano le basi delle informazioni di Bolton? Quale prodotto dello spionaggio era stato generato all’epoca giunto a un livello sufficiente ad autorizzarne la comunicazione al presidente degli Stati Uniti da parte del suo consigliere per la sicurezza nazionale?
La risposta, naturalmente, è: nessuno. Non c’era nulla; se ci fosse stato qualcosa ne leggeremmo con conferme sufficienti ad assicurare una negazione della Casa Bianca. Tutto ciò che abbiamo è una storia, una voce, un’ipotesi, una “leggenda” promossa da voltagabbana talebani finanziati dalla CIA che si è insinuata nel folclore dell’Afghanistan in misura sufficiente a essere assimilata da altri talebani che, una volta detenuti e interrogati dal NDS e dalla CIA, hanno ripetuto la “leggenda” con ardore sufficiente a farla includere, senza discussioni, nel rapporto della raccolta delle informazioni che in effetti è stato recepito dal PDB il 27 febbraio 2020.
C’è un altro aspetto di questa narrazione che manca del tutto, cioè la comprensione fondamentale di che cosa esattamente costituisca una “taglia”.
“Dirigenti afgani hanno affermato che prezzi sino a 100.000 dollari per soldato ucciso erano offerti per bersagli statunitensi e della coalizione”, ha scritto il Times. E tuttavia quando Rukmini Callimachi, una dei membri della squadra di giornalisti che ha pubblicato la notizia, è apparsa su MSNBC per entrare in ulteriori dettagli, ha indicato che “i fondi erano inviati dalla Russia indipendentemente dal fatto che i talebani facessero seguito uccidendo o no soldati”. Non c’era alcun rapporto di ritorno al GRU riguardo a vittime. Il denaro continuava ad affluire”.
C’è solo un problema: non è così che funzionano le taglie. Le taglie sono un quintessenziale accordo quid pro quo: un premio per un servizio reso. Fai il lavoro, incassi il premio. Fallisci, non c’è alcun premio. L’idea che il GRU russo abbia creato un canale di contanti per i talebani che non era, di fatto, dipendente dall’uccisione di soldati statunitensi e della coalizione è l’antitesi di un sistema di taglie. Suona più come un aiuto finanziario, cosa che era e che è. Qualsiasi valutazione priva di questa osservazione è semplicemente un prodotto di cattivo spionaggio.
La tempistica
Chiunque abbia fatto trapelare la storia delle “taglie” russe al The New York Times sapeva che, col tempo, la base della storia non sarebbe stata in grado di reggere a un esame attento; c’erano semplicemente troppe falle nella logica sottostante e una volta che la totalità delle informazioni fosse trapelata (come è parso essere venerdì) la Casa Bianca avrebbe assunto il controllo della narrazione.
La tempistica della rivelazione suggerisce il suo vero obiettivo. Il succo principale della storia era che il presidente era stato informato di una minaccia a forze statunitensi sotto forma di una “taglia” russa, pagabile ai talebani, e tuttavia aveva scelto di non fare nulla. Di per sé la storia alla fine si sarebbe estinta di sua volontà.
Il 18 giugno gli Stati Uniti hanno adempiuto il loro obbligo, in base all’accordo di pace, di ridurre il numero dei soldati in Afghanistan a 8.600 entro il luglio 2020. Il 26 giugno l’amministrazione Trump era prossima a formalizzare una decisione di ritirare più di 4.000 soldati dall’Afghanistan entro l’autunno, una mossa che avrebbe ridotto il numero dei soldati da 8.600 a 4.500 e avrebbe dunque aperto la via al ritiro completo delle forze statunitensi dall’Afghanistan entro metà 2021.
Entrambe queste misure erano impopolari presso una dirigenza militare che per due decenni si era illusa di poter prevalere nel conflitto afgano. Inoltre, una volta che il livello delle truppe fosse sceso a 4.500 non ci sarebbe stato alcuna possibilità di tornare indietro; il ritiro totale di tutte le forze sarebbe stato inevitabile, perché a quel livello gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di difendersi, per non parlare di condurre qualsiasi genere di operazione significativa di combattimento a sostegno del governo afgano.
E’ stato a quel punto che la fonte ha scelto di passare le sue informazioni al The New York Times, con una perfetta puntualità per creare un furore politico mirato non solo a imbarazzare il presidente ma, più crucialmente, a mobilitare un contrattacco del Congresso contro il ritiro afgano.
Giovedì il Comitato della Camera sulle Forze Armate ha votato una modifica alla Legge sull’Autorizzazione alla Difesa Nazionale che prevedeva che l’amministrazione Trump rilasciasse numerose certificazioni prima che forze statunitensi potessero essere ridotte ulteriormente in Afghanistan, compresa una valutazione riguardante se “attori statali abbiano offerto incentivi ai talebani, a loro affiliati o ad altre organizzazioni terroristiche straniere per attacchi contro Stati Uniti, coalizione o forze della sicurezza o civili afgani in Afghanistan negli ultimi due anni, compresi i dettagli di qualsiasi attacco ritenuto essere stato collegato a tali incentivi”: un riferimento diretto alla soffiata circa le “taglie” russe.
La modifica è stata approvata con 45 voti a favore contro 11.
Questo, più di qualsiasi altra cosa, sembra essere stato l’obiettivo della soffiata. L’ironia del Congresso che approva una legge mirata a prolungare la guerra statunitense in Afghanistan nel nome della protezione di soldati statunitensi impiegati in Afghanistan dovrebbe essere evidente a tutti.
Il fatto che non lo sia, la dice lunga su quanto in là sulla via della follia politica si sia spinto questo paese. In un fine settimana in cui gli Stati Uniti festeggiano collettivamente la nascita della nazione, tale celebrazione sarà deturpata dal sapere che rappresentanti eletti abbiano votato per sostenere una guerra che tutti sanno essere già persa. Che lo abbiano fatto in base a cattive informazioni fatte trapelare al fine di suscitare tale voto non fa che rendere peggiori le cose.
Scott Ritter è un ex ufficiale del Corpo dei Marine che ha servito nell’ex Unione Sovietica nell’attuazione di trattati sul controllo delle armi, nel Golfo Persico durante l’operazione Desert Storm e in Iraq a controllare il disarmo delle Armi di Distruzione di Massa.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
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