Fabrizio Faggiano e Antonella Barale

La risposta italiana alla pandemia di SARS-CoV-2 è stata soprattutto la ricerca del “paziente zero”; il modello “centrato sui pazienti” e sul ruolo degli ospedali ha prevalso rispetto al modello “centrato sulla comunità”. Ora occorre rovesciare quest’approccio e investire sulla prevenzione.

Da quando, il 9 gennaio 2020, il Center for Disease Control cinese ha annunciato l’isolamento del nuovo coronavirus SARS-2 come fonte del cluster di polmoniti gravi nella città di Wuhan [1], tutto il Servizio sanitario italiano si è mobilitato in attesa del paziente zero. Il suo identikit era chiaro: un cinese, in arrivo via aerea direttamente da Pechino o Shangai. La strategia sembrava aver avuto successo: il 30 gennaio, ecco la coppia di cinesi, provenienti da Wuhan, ricoverati all’ospedale Spallanzani di Roma e positivi al SARS-CoV-2 (5 febbraio 2020), proprio come era stato previsto. L’immediata sospensione dei voli dalla Cina era stata vista come una efficiente reazione di sanità pubblica per bloccare il virus in arrivo.

Ma la realtà era diversa, e avremmo potuto prevederlo. Anche i nostri cugini francesi, dopo la Grande Guerra, avevano eretto la loro linea Maginot per difendersi dall’aggressività tedesca, lungo il confine con la Germania e con il Lussemburgo. Sappiamo come è andata a finire: le truppe del Reich hanno mandato truppe civetta davanti alla linea Maginot, ingannando le difese francesi, ma hanno fatto il giro dal Belgio, invadendo facilmente la Francia.

E così è successo anche per il virus SARS-CoV-2: è arrivato dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna e chissà da dove ancora, aggirando le nostre linee di difesa. Si ipotizza che a Wuhan fosse presente fin dall’autunno, mentre in Europa le prime polmoniti anomale sono state registrate verso la fine di dicembre. D’altra parte la Cina è un partner commerciale così importante dell’Europa tutta che era illusorio pensare di intercettare precocemente il flusso e bloccare l’arrivo di persone portatrici dell’infezione.

Se questa strategia avesse avuto successo, l’Europa sarebbe riuscita a “contenere” l’epidemia, cioè a prevenire l’estendersi della infezione attraverso la rapida identificazione e isolamento dei casi e il rintracciamento dei contatti [2]. Questa è la strategia che ha permesso alla Corea del Sud di subire un impatto molto inferiore rispetto all’Italia.

Ma così non è avvenuto da noi: qualcuno è stato contagiato in un Paese europeo, è rientrato in Italia, probabilmente senza alcun sintomo, qui ha sviluppato la malattia, spesso con una sintomatologia simil-influenzale. Nel nostro Paese (ma lo stesso è avvenuto nella maggior parte dei Paesi europei, con maggiore forza in quelli che hanno più rapporti con la Cina) la malattia si è diffusa sottotraccia per molto tempo. In Italia probabilmente era presente dall’inizio di gennaio. Quaranta-cinquanta giorni prima di individuare il “paziente 1”.

Cosa è successo in questo periodo? Ricordiamoci che si tratta di una malattia subdola, infettiva anche nei due giorni che ne precedono l’esordio, e con una sintomatologia, almeno all’inizio, facilmente scambiabile con una influenza stagionale. Questo si traduce in un R0 – il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun infetto – di circa 2,5 e in un tempo di riproduzione (tempo fra l’infezione di un caso e quella dei suoi casi secondari) di 5 giorni. Provate a fare i conti: se all’inizio di gennaio ci fossero stati 10 casi, a fine febbraio, i casi sarebbero stati già 95 mila.

Il primo caso è stato diagnosticato a Codogno il 21 febbraio. Troppo tardi? Difficile dirlo. È un fatto che il virus era presente già in buona parte dell’Europa ma è stato scoperto a Codogno, e questo primato dobbiamo riconoscerlo ai medici di quell’ospedale.

Quello che è successo dopo lo conosciamo tutti: qualcosa che assomiglia molto all’effetto di uno tsunami. Migliaia di malati si sono rivolti agli ospedali della Lombardia, molti di questi hanno richiesto la terapia intensiva. Il servizio sanitario della regione più ricca d’Italia ha reagito trasformando reparti, e a volte ospedali interi, per accogliere in modo sicuro le ondate di ammalati, costruendo dal nulla ospedali e terapie intensive temporanee. È stato uno sforzo colossale, inimmaginabile in tempi normali, che ha dimostrato quanto un servizio sanitario pubblico sia essenziale in un Paese moderno

È stato fatto tutto il possibile per controllare l’epidemia? La risposta a questa domanda, essenziale per fare in modo che il Servizio sanitario sia preparato in caso di prossimi eventi epidemici, è estremamente difficile. Lo tsunami di cui sopra ha colpito per primi gli ospedali ed è da qui che è partita la reazione della regione che per prima ha dovuto subirne l’impatto. Ma l’ospedale è solo l’ultimo presidio di contrasto degli effetti di una epidemia. Se un paziente ha bisogno di essere ospedalizzato, è perché è stato contagiato con una carica virale sufficiente a sviluppare la malattia, e la malattia ha determinato delle insufficienze d’organo che richiedono un intervento urgente in ambiente ospedaliero. Cioè tutti gli interventi di controllo dell’epidemia che mirano a interrompere la catena di trasmissione, a contenere i contagi e il numero delle forme più gravi di malattia, hanno fallito.

D’altra parte la reazione all’epidemia ha sempre avuto un obiettivo esplicito: abbassare la curva epidemica per rendere sostenibile l’impatto dell’epidemia sul sistema sanitario (cioè sulle ospedalizzazioni) per offrire il miglior servizio ai malati che necessitano di cure. E così tutti i modelli previsionali sono stati utilizzati allo stesso fine, rendere sostenibile l’impatto sul sistema sanitario. Quando si è cominciato a parlare esplicitamente di misure di sanità pubblica per ridurre la trasmissione, queste, cioè le misure come il lockdown, le politiche di distanziamento, eccetera, sono state chiamate non-pharmaceutical interventions [3]. Come se fossero alternative “minori” al trattamento farmacologico della malattia, che peraltro semplicemente non esisteva.

Eppure bastava affacciarsi in un ospedale di Bergamo per comprendere che questa prospettiva era sbagliata. Lo hanno chiaramente espresso in un articolo un gruppo di medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: “Western health care systems have been built around the concept of patient-centered care, but an epidemic requires a change of perspective toward a concept of community-centered care…. In a pandemic, patient-centered care is inadequate and must be replaced by community centered care. Solutions for Covid-19 are required for the entire population, not only for hospitals.” [4]

Una strategia alternativa avrebbe potuto mirare, fin dall’inizio, a interrompere la trasmissione e a ridurre al minimo il numero dei contagi. Alcuni pilastri di questa strategia sono il modello “3-T trace-test-treat” proposto dall’OMS nel 2012 per la malaria, che raccomanda l’identificazione precoce di ogni caso, il censimento di tutti i contatti stretti e l’applicazione a questi delle misure di contenimento (quarantena per i contatti, isolamento per i casi) in modo da interrompere la trasmissione della malattia. Si tratta di una strategia genuinamente preventiva, che mira a ridurre al minimo la diffusione dell’epidemia, raccomandata da molti epidemiologi fin dall’inizio dell’epidemia [5].

Proprio questo è il modello applicato in Corea del Sud, che ha prodotto (al 7 luglio 2020) un tasso di contagi molto inferiore rispetto a quello italiano (13.000 casi su 50 milioni di abitanti, contro i 245.000 su 60 milioni di abitanti in Italia) e un numero di decessi più di 100 volte inferiore (285 decessi contro 35.000 italiani).

Ma è anche il modello che è stato applicato in Veneto, a partire da Vo’ Euganeo. Lì, il giorno successivo al primo morto italiano per COVID, il 21 febbraio, la cittadina è stata posta in lockdown per 14 giorni, e tutta la popolazione testata con il tampone. Questa misura ha portato ad un immediato calo delle infezioni e a far diventare quell’intervento un modello richiamato da tutto il mondo [6]. Queste sono le applicazioni del modello community-based a cui facevano riferimento i medici di Bergamo [4].

Modelli a confronto

Cosa caratterizza il modello patient-centered da quello community-centered (o community-based)? La risposta è intuitiva: il primo aspetta che il cittadino acceda al servizio al momento del bisogno, cioè, nel caso dell’emergenza COVID, all’esordio dei sintomi; il secondo è proattivo, mira ad anticipare l’intervento in modo da impedire lo sviluppo della malattia, nel caso dell’emergenza COVID, tracciare i contatti di soggetti infettanti (casi) in modo da isolarli e impedire che, nel caso infettati, possano trasmettere ulteriormente l’infezione. Così viene interrotta la catena del contagio.

Il modello community-based ha bisogno di una robusta infrastruttura di servizi sul territorio e di un solido coordinamento fra questi servizi. Il dipartimento di prevenzione del Servizio di igiene e sanità pubblica (SISP) delle Aziende sanitarie locali è la direzione strategica del contrasto alle epidemie e ha la responsabilità diretta del suo monitoraggio, delle azioni di case finding e di contact tracing e di tutte le altre azioni di sanità pubblica associate, come la comunicazione del rischio e la formazione. Il Distretto sanitario, che governa le cure primarie a livello del territorio, è responsabile della gestione dei pazienti COVID isolati al domicilio, e del monitoraggio della salute dei contatti in quarantena. SISP e Distretto devono lavorare in modo coordinato in tutte le fasi della gestione dell’epidemia.

L’approccio community-based è quello più appropriato per gestire le tre principali situazioni di rischio dell’epidemia da SARS-CoV-2: le comunità, come le case di riposo, l’ospedale e i luoghi di lavoro. Le prime due sono state quelle più critiche nella fase 1 dell’epidemia COVID e sono state, a luglio 2020, all’origine della trasmissione di circa il 40% delle infezioni [7]. Un focolaio di infezione in questi ambienti, infatti, trova facile terreno di diffusione, in ragione della promiscuità fra soggetti infetti e suscettibili, e ha un elevato impatto sulla salute a causa della presenza di persone fragili per l’età o per le condizioni immunitarie. La prevenzione di focolai in questi ambienti richiede però un investimento di competenze e di personale straordinario, per assicurare che procedure di monitoraggio e di controllo valide siano applicate in modo rigoroso in tutte le situazioni a rischio.

Il modello patient-centered è invece quello “eroico”, che affronta l’epidemia là dove colpisce in modo più duro, l’ospedale. La risposta patient-centered punta ad offrire la migliore cura ai pazienti che presentano forme gravi di malattia che, in marzo-aprile, sono state circa il 20% dei casi diagnosticati. Nelle aree a maggiore incidenza di malattia, la reazione del Servizio sanitario è stata di questo tipo: gli ospedali si sono rapidamente adattati alla sfida, hanno trasformato interi reparti in reparti COVID, hanno allargato le terapie intensive, sono stati costruiti dal nulla nuovi ospedali COVID, sono state messe in atto procedure stringenti di protezione dei dipendenti e dei ricoverati. Inoltre sono partiti immediatamente studi per cercare terapie efficaci, che in quel momento non c’erano, e sono stati elaborati protocolli di trattamento dei casi meno gravi, isolati in casa.

In sintesi, per la strategia community-based è prioritario fermare l’avanzare dell’epidemia, quindi prevenire i contagi, per quella patient-centered curare i pazienti malati.

E dopo?

Cosa succederà dopo? Dopo, quando cioè la maggior parte della popolazione sarà stata vaccinata, ritroveremo senz’altro il principale problema sociale e di salute dei nostri Paesi: l’invecchiamento della popolazione e la cronicità. Infatti, se fino ad ora l’epidemia ha determinato eccessi di mortalità rilevanti, soprattutto a carico delle fasce di età più elevate, questi non hanno modificato sostanzialmente la piramide di età della popolazione italiana, e conseguentemente la serietà del problema dell’invecchiamento. Da inizio d’anno fino alla metà di luglio nella fascia di età 70+ anni erano decedute in Italia, per tutte le cause di morte, più di 30.000 persone, su un totale di 10.300.000 residenti di quella fascia di età [8]. La quota di popolazione anziana in Italia quindi non cambierà, e l’impatto della cronicità non sarà minore.

Qual è la strategia di controllo più efficace per questo problema? Il rinforzo dei servizi per la cura della cronicità, la strategia patient-centered, oppure il rinforzo delle azioni di prevenzione primaria, mirate a prevenire o posticipare l’inizio della malattia cronica, cioè la strategia community-based? La risposta sembrerebbe scontata: posticipare l’esordio della malattia cronica, oltre ad essere una strategia sostenuta dall’ONU [9], aumenterebbe la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni, indicatore che vede l’Italia in posizione subalterna rispetto ad altri Paesi europei [10], ridurrebbe i costi della sanità, e, non da ultimo, aumenterebbe la qualità della vita.

Dobbiamo però essere pessimisti. I servizi di Igiene pubblica, o più in generale i dipartimenti di prevenzione, le strutture che nel nostro sistema sanitario sono deputate al coordinamento della prevenzione primaria, secondaria e terziaria, dopo anni di blocco delle assunzioni e di disinvestimento, non sembrano in grado di cogliere la sfida. Il personale, ridotto numericamente e con un’età media elevata, è stato costretto a concentrarsi sulle attività dei Livelli essenziali di assistenza (LEA), abbandonando ogni progetto di innovazione e miglioramento. Se il coordinamento all’interno delle Regioni e fra le Regioni è assicurato dalla struttura organizzativa del Piano nazionale di Prevenzione, quella fra settori, competenze e ministeri è, al meglio, sporadica. Quest’ultimo è un problema cruciale, visto che per molti problemi di salute gli interventi più efficaci, anche rispetto ai costi, sono quelli intersettoriali: aumento della tassazione per tabacco e bevande zuccherate per contrastare la dipendenza da nicotina o l’obesità, ad esempio, o politiche di mobilità cittadine, per il contrasto alla sedentarietà.

Quella di oggi è una finestra di opportunità che difficilmente si ripresenterà: l’emergenza COVID ha dimostrato l’importanza della prevenzione e del territorio, il decreto Rilancio pone all’articolo 1 il territorio e la prevenzione, e c’è un generale consenso verso l’organizzazione a rete e population-based. I servizi di prevenzione, le associazioni scientifiche, il terzo settore sono chiamati ad uno sforzo straordinario di progettazione e innovazione per riformare la prevenzione e l’offerta di welfare del territorio per dar loro la centralità che l’emergenza di oggi e i problemi del futuro richiedono.

Riferimenti

[1] https://www.epicentro.iss.it/en/coronavirus/sars-cov-2-international-outbreak

[2] R. P. Walensky, C. del Rio (2020). “From Mitigation to Containment of the COVID-19 Pandemic. Putting the SARS-CoV-2 Genie Back in the Bottle”. JAMA, 323: 1889-1890, https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2764956

[3] N. Ferguson, D. Laydon, G. Nedjati-Gilani, et al. (2020). “Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand”. Imperial College COVID-19 Response Team, 16 March 2020.

[4] M. Nacoti, A. Ciocca, A. Giupponi, et al. (2020). “At the epicenter of the COVID-19 pandemic and humanitarian crises in Italy: changing perspectives on preparation and mitigation”. N Engl J Med Cat, 21 March 2020.

[5] D. Greco (2020). “Coronavirus. La curva prima o dopo scenderà. Ma non facciamoci cogliere impreparati su come gestire il post emergenza”. Quotidiano Sanità, 28 marzo 2020: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=83246

[6] E. Lavezzo, et al. (2020). “Suppression of a SARS-CoV-2 outbreak in the Italian municipality of Vo’”. Naturehttps://doi.org/10.1038/s41586-020-2488-1

[7] Istituto Superiore di Sanità (2020). “Epidemia COVID-19: aggiornamento al 23 giugno 2020”: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_23-giugno-2020.pdf

[8] ISTAT (2020). Impatto dell’epidemia COVID-19 sulla mortalità totale della popolazione residente periodo gennaio-maggio 2020, 9 luglio 2020.

[9] www.who.int/ncds/governance/third-un-meeting/en/

[10] ISTAT (2017). BES 2017 – Il benessere equo e sostenibile in Italiawww.istat.it/it/files//2017/12/Bes_2017.pdf

* Fabrizio Faggiano è professore di Igiene presso il Dipartimento di Medicina Traslazionale, Università del Piemonte Orientale, e direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’ASL Vercelli.
** Antonella Barale fa parte dell’Osservatorio Epidemiologico dell’ASL Vercelli.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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