In quest’articolo torniamo sull’annoso problema del latifondo brasiliano, cercando a partire dal concetto di semi-feudalesimo e dai dati statistici di interpretare questa realtà, analizzando le modalità con le quali essa si modernizza mantenendo al tempo stesso vive le strutture di arretratezza.
A Pedro Casaldaliga,
È conoscenza comune a molti in Brasile che latifondo e servitù siano interdipendenti tra loro, l’uno non esiste senza l’altro. Nonostante ciò, alcuni sostengono che non esista più la servitù, e mascherano il latifondo da “imprenditoria agricola”. Quest’analisi è sicuramente fallace, perché sposta il problema senza risolverlo, e dimentica la centralità della questione della riforma agraria in Brasile, per dare reale consistenza al concetto di democrazia nel paese.
Alcuni dati daranno meglio la dimensione del problema: 1) Dei 318 milioni di ettari del latifondo oltre il 55 per cento sono improduttivi; 2) tra le attività rurali che maggiormente sfruttano il lavoro in schiavitù vi sono l’allevamento, la lavorazione della canna da zucchero, le piantagioni e la raccolta del carbone; 3) la commissione pastorale della terra ha ricevuto tra il 1986 e il 2012 oltre 165 mila denunce di lavoratori posti in schiavitù, di questi solo 44 mila sono stati liberati; 4) l’80 per cento dei lavoratori rurali non ha contributi previdenziali e il 67 per cento di essi non riceve una retribuzione fissa; 5) l’agricoltura a conduzione familiare è responsabile per l’80 della produzione degli alimenti in Brasile, ma oltre il 75 per cento di queste famiglie si trova in povertà.
Secondo i classici marxisti, soprattutto Lenin, le differenti forme servili e le forme pre-capitalistiche non sono eliminate dall’avanzata dell’imperialismo nei paesi oppressi e dall’avanzata del modo di produzione capitalista che esso determina. L’internazionale comunista nel suo quarto congresso affermò che “nelle semi colonie il capitalismo sorge e si sviluppa su una base feudale, determinando forme di sviluppo incomplete, transitorie e spurie, che lasciano il campo al capitale usurario e commerciale […]. In questo modo la democrazia borghese prende una via storta e complicata per differenziarsi dagli elementi feudali-burocratici e feudali-agrari… l’imperialismo straniero non fa altro che trasformare, in tutti i paesi arretrati, lo strato superiore feudale (e in parte semi-feudale, semi borghese) della società originaria in strumenti del suo dominio” [1].
Venendo al Brasile, Nelson Werneck Sodré, tra i principali storici brasiliani, definì come regressione feudale il processo con il quale, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888, gli ex schiavi neri furono incorporati in relazioni servili di produzione, non essendoci spazio per integrarli come classe salariata, e sostenne sempre il carattere feudale-arretrato della colonizzazione portoghese in Brasile, differenziandosi dai marxisti che affermavano il carattere capitalistico di essa.
I dati riportati nel secondo paragrafo del testo rimandano ad una ricerca svolta nel 2015 dal professore dell’Università di San Paolo (USP), Ariovaldo Umbelino, che dimostra non solo che la maggior parte dei latifondi sono improduttivi, ma che anche nelle proprietà più grandi le forme semi-feudali continuano ad esistere, anche se di forma più nascosta. Il maggior numero di denunce per lavoro in schiavitù sono state fatte negli stati del Parà, Mato grosso do Sul, la regione ovest di Bahia e il centro-sud di Goias. Ma non mancarono denunce anche nella regione Est dello Stato di San Paolo e nel Sud-Est di Minas Gerais. Secondo il professore, dunque, il lavoro in schiavitù c’è anche nei settori abbastanza tecnologizzati e con alta presenza di capitali.
Lo studio a cui facciamo riferimento dimostra come nel corso degli anni ci sia stata una “migrazione” delle denunce, dal Nord e dal Nord-est del paese al Sud-est, con ogni probabilità derivante dal fatto che le lotte contadine in questi Stati hanno prodotto un aumento dei controlli. Nel frattempo, però, le relazioni feudali e semi-feudali non scompaiono bensì “migrano” verso altri Stati con una minore fiscalizzazione e quando sono sanzionate, si spostano di nuovo. L’aumento del lavoro servile nel Sud-Est del paese dimostra che la base del latifondo capitalista continua ad essere la semi-feudalità, di cui il capitale si appropria per una migliore accumulazione.
in gran parte del latifondo e specialmente nelle regioni più povere del Nord e del Nord-est del paese, la forza-lavoro viene reclutata stagionalmente contrattando il lavoratore da solo o con tutta la famiglia. Tali lavoratori, nel viaggiare verso il Sud-est, arrivano già con il debito di dover pagare il viaggio e ricevono all’arrivo una cesta di alimenti e l’affitto del luogo in cui andranno a stabilirsi. Si riproduce così il sistema del”barracao” e risulta evidente la relazione tra il monopolio feudale della terra e la riproduzione delle relazioni per-capitalistiche, come base delle economie oppresse dall’imperialismo.
Una delle forme classiche di relazioni semi-feudali è il barracao, che converte il sotto-proletario in servo da impiegare in grandi piantagioni nelle mani di grandi capitalisti che sono al tempo stesso latifondisti. Tra chi si serve di tali rapporti sociali vi è il gruppo Cosan, che si occupa della raccolta della canna da zucchero, inserito nella lista “nera” delle organizzazioni che si avvalgono del lavoro in schiavitù.
Un altro esempio scandaloso di questa unione tra latifondo capitalista e modalità feudali fu l’assassinio di tre ispettori del lavoro da parte di “pistoleri” al soldo di Norberto Manica, padrone del latifondo per la produzione di fagioli nella regione di Unai, nello Stato di Minas Gerais, in una piantagione altamente meccanizzata e servita da una tecnologia di punta.
Il regime del barracao funziona così: il lavoratore ha un quaderno dove sono segnati i suoi debiti, che vanno dai costi per il trasporto a quelli necessari per il suo mantenimento (il debito impagabile), come elemento di sottomissione e di ricatto per il lavoratore prima nel regime di colonato (a cui furono sottoposti molti nostri connazionali tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo) e oggi nell’attuale schiavitù, che impedisce al lavoratore di lasciare la piantagione a causa di questo supposto debito, essendo la sua permanenza assicurata da “guardiani” e da altre forme di coercizione. In questo modo il lavoratore, che apparentemente sarebbe un salariato, è obbligato a comprare dal signore tutti i beni di consumo a prezzi super-inflazionati, forma attraverso la quale il padrone gli sottrae il salario che gli spetterebbe. Il lavoratore senza terra si trova così costretto a lavorare per il padrone e rimanendo vincolato alla terra in cui lavora.
Carlos Marighella, tra i principali esponenti del PCB nel secondo dopoguerra, in un brillante studio sulle piantagioni di caffè, affermava come solo in un paese con forti reminiscenze feudali fosse possibile l’unione tra il capitalista e il latifondista; fenomeno che al polo opposto creava il fenomeno del colono sfruttato, che era al tempo stesso un lavoratore salariato e un uomo vincolato ai meccanismi feudali, che produceva reddito da lavoro che finiva unicamente per proporzionare lucro al suo capitalista.
L’agricoltura familiare è una delle forme, non solo in Brasile ma anche in molti paesi del Terzo mondo, in cui le forme servili si riproducono con più forza. In Brasile, secondo l’ultimo censimento del 2017, il 77 per cento delle proprietà contadine sono di proprietà familiari [2], ma essi hanno appena il 23 per cento delle terre. Tra queste vi sono 2,5 milioni di famiglie, rappresentanti di 10 milioni di persone, che lavorano dall’alba al tramonto ma il cui lavoro genera un reddito inferiore al salario minimo, altri 2 milioni di lavoratori non hanno contratto e ricevono anch’essi meno del salario minimo.
Questo tipo di produzione, vincolata a produzioni di tipo patriarcale e servile, è sottomessa al capitale monopolista statale e non statale, e fornisce a questi monopoli la rendita da cui essi traggono il lucro.
Quando i contadini poveri senza terra o i contadini medi (legati all’agricoltura familiare) – sia che lavorino in un pezzo di terra che gli appartiene o che gli sia stato ipotecato dal capitale usuraio – producono per il capitale monopolistico e sono obbligati a vendere la produzione ad un prezzo sistematicamente inferiore al suo valore, (essendo obbligati spesso a collocare tutta la sua famiglia al lavoro per raggiungere gli obiettivi prefissati, senza stabilire un salario fisso o stabilendo una piccola parte nel caso di lavoratori che “impiega” con forme servili come la mezzadria o similari) stanno comunque fornendo al capitalista una parte del prodotto. In più, quando sono obbligati a comprare a prezzi monopolistici i beni necessari per il proprio mantenimento, stanno comunque fornendo una parte di rendita-denaro, rimanendo ai contadini stessi una parte estremamente insignificante del reddito prodotto dal proprio lavoro.
Marighella, nello studio a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, dimostra come il colono, formalmente indipendente, sia obbligato a vendere il suo prodotto al latifondista, che lo paga un valore più basso di quello di mercato. In tal modo il latifondista gli sottrae sistematicamente una parte del raccolto.
La concentrazione delle terre nelle proprietà di tipo feudale, unita agli ostacoli posti dall’imperialismo allo sviluppo delle forze produttive nazionali, sono i fattori obiettivi che determinano la riproduzione delle relazioni servili nella campagna e nella città. Succhiando il plusvalore prodotto dai monopoli locali e stranieri, grazie all’esportazione di capitale e alle rimesse all’estero dei profitti, l’imperialismo impedisce che l’economia si sviluppi dalla fase compradora a quella di sviluppo industriale nazionale, allo stesso tempo toglie alle masse contadine la terra e la produzione. Questa combinazione, che determina la non proletarizzazione delle masse semi-proletarie del campo, crea il fenomeno della colossale disoccupazione nelle campagne, che impone una riduzione del costo della forza-lavoro, permettendo al capitale di instaurare relazioni di lavoro estremamente dure per una più veloce accumulazione; anche i grandi latifondi si basano in larga misura su questo sistema.
Il relativo sviluppo industriale collegato ai monopoli locali e stranieri dell’industria agroalimentare si basa così sul latifondo e la semi feudalità, creando monocolture voltate all’esportazione (le c.d. commodities). Le piccole e medie proprietà rurali, ma principalmente le piccole, sono quelle che producono alimenti e sono sottomesse alle relazioni di sfruttamento con i monopoli, che pagandogli un prezzo sotto al valore di mercato, mantengono bassi i costi dei prodotti agricoli in città, potendo mantenere bassi anche i salari dei lavoratori. Per questo motivo i monopoli mantengono l’economia familiare sotto ricatto, ma non la eliminano mai definitivamente. Tale agricoltura dunque si riproduce in maniera indefinita, sottomessa al latifondo, e base del capitalismo burocratico e dell’imperialismo, e si sviluppa a unico beneficio di questi soggetti.
Data la situazione descritta poc’anzi l’unica soluzione per sradicare questi problemi ci sembra essere una riforma agraria integrale [3], con l’espropriazione senza indennizzo di tutto il latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini con poca o nessuna terra, passando dall’agricoltura familiare a forme di lavoro cooperative.
Note:
[1] CFC “Tesi sulla questione orientale”, dicembre 1922.
[2] I movimenti contadini riportano dati differenti, circa 5 milioni di famiglie con titolo di proprietà.
[3] Bandiera dimenticata da pressoché tutta la sinistra in Brasile.
https://www.lacittafutura.it/esteri/latifondo-e-servitu-fratelli-siamesi-in-brasile