Russia, Cina, Stati Uniti, Norvegia continuano a scommettere sull’Artico. Le cui risorse naturali potrebbero rivelarsi gigantescheImpianto di perforazione per la perforazione di pozzi di petrolio e gas.
Russia, estate 2019. Lungo la Moscova, proprio di fronte al Cremlino, Igor Sechin, amministratore delegato del colosso russo dell’energia Rosneft, alza il telefono per parlare con alti responsabili governativi. Il suo sguardo, probabilmente, punta verso le celebri cupole della sede dell’esecutivo russo. La richiesta è semplice e diretta: un alleggerimento astronomico delle tasse a vantaggio della compagnia petrolifera (il cui capitale è controllato dallo stesso governo). Un regalo che potrebbe toccare i 36,7 miliardi di euro.
Le trivellazioni offshore nell’Artico russo
Sechin sa che il presidente Vladimir Putin non è contrario. Per capire la ragione, però, occorre fare un passo indietro di cinque anni. E uno spostamento di qualche migliaio di chilometri più a Nord. Nell’oceano Artico. È qui infatti, tra i ghiacci della calotta polare, che Rosneft aveva scoperto un immenso giacimento di petrolio. Tra 125 e 500 milioni di tonnellate di oro nero. Tanto da convincere l’azienda a chiamare la riserva “Pobeda” (“Vittoria”, in russo). Per la gioia del partner americano che partecipò finanziariamente alla scoperta, la ExxonMobil, assieme ad una piattaforma norvegese che si era incaricata di effettuare le trivellazioni.
Di qui la volontà di riprendere le esplorazioni nel mare di Kara, sul quale affaccia la costa siberiana. Pochi giorni prima del tentativo della compagnia di ottenere il gigantesco regalo fiscale, il gruppo aveva presentato il proprio progetto. Ovvero la costruzione di pozzi per le trivellazioni offshore nella zona interessata dalla licenza “East-Prinovozemelsky-2”. Il piano, battezzato «Ragozinskaya», era stato presentato a Dudinka, città portuale della Siberia settentrionale. E potrebbe non essere l’unico: Rosneft possiede 19 licenze per zone situate nella regione artica, di cui quattro proprio nel mare di Kara: i Prinovozemelsky 1, 2, 3 e il North Karsky. Per un totale di 126mila chilometri quadrati.
L’Artico potrebbe “nascondere” 90 miliardi di barili di petrolio
I giacimenti scoperti finora sono una trentina. E le riserve sarebbero simili a quelle dell’Arabia Saudita. Più in generale, secondo le stime degli esperti, le riserve di petrolio “acclarate” a Nord del circolo polare sarebbero di 90 miliardi di barili. Qualcosa come il 13 per cento delle riserve globali. Per quanto riguarda, il gas naturale, poi, il totale sarebbe di 47 miliardi di metri cubi: il 30% del totale mondiale. Problema: se le nazioni che affacciano sull’Artico (e non solo) dovessero decidere di sfruttarle, la battaglia contro i cambiamenti climatici sarà irrimediabilmente perduta.
Il caso di Rosneft, d’altra parte, non è affatto isolato. Gruppi francesi, americani, norvegesi, russi e cinesi stanno da tempo investendo nella regione artica. A partire dalla Groenlandia, nella quale si immagina non soltanto di poter trovare fonti di energie fossili ma anche enormi quantità di terre rare (utilizzate ad esempio per la fabbricazione di computer, telefoni cellulari e batterie). Un fattore che interessa particolarmente Pechino, che oggi controlla circa il 90% del mercato. Ma secondo la ricercatrice Mikaa Mered, docente di Geopolitica e Geoeconomia dei mondi polari presso l’istituto ILERI di Parigi, la Groenlandia potrebbe rivelarsi anche la terza nazione al mondo per riserve di uranio.
In Groenlandia terre rare, metalli preziosi e uranio
Il governo dell’isola, d’altra parte, non è sembrato opporsi allo sfruttamento delle proprie risorse, nel corso degli anni. Per un’isola di 57mila abitanti che dipende quasi esclusivamente dalla pesca (che vale il 90% delle esportazioni nazionali), l’idea di valorizzare minerali, metalli preziosi e fonti di energia fa sognare. Le riserve potenziali di uranio sarebbero infatti pari a 600mila tonnellate. Mentre quelle di terre rare potrebbero rappresentare tra il 12 e il 25% del totale mondiale.
Non stupisce perciò che le esplorazioni nel sottosuolo dell’isola artica stiano esplodendo. Come anche al largo delle coste norvegesi e di quelle dell’Alaska. Dove, per via delle scelte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sono state concesse numerose nuove autorizzazioni per trivellare. Anche in aree che erano state rese riserve protette dal suo predecessore Barack Obama.
Ad alimentare le mire di numerosi governi, poi, sono gli stessi cambiamenti climatici. Provocati a loro volta proprio dalle attività minerarie e dalla combustione di fonti fossili, in un perverso circolo vizioso. Che potrebbe portare anche al fenomeno noto come isteresi, ovvero l’impossibilità di ricreare il ghiaccio sciolto a causa del riscaldamento globale. In parole più semplici, un punto di non ritorno.
I rischi finanziari che accompagnano la corsa all’Artico
Ciò nonostante, le major delle fossili non sembrano arrendersi. È il caso del colosso norvegese Statoil, che nel 2017 ha lanciato un progetto da 5,9 miliardi di dollari per sfruttare le licenze concesse nel mare di Barents. In barba anche alle previsioni economiche: secondo Matthieu Auzanneau, autore del libro Oro Nero, «ciò mostra un’assenza di prospettiva sul petrolio convenzionale. Per sperare che le trivellazioni siano redditizie occorre un prezzo al barile superiore ai 100 dollari». Mentre oggi il valore si aggira attorno ai 40 dollari.
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I rischi finanziari per le compagnie petrolifere potrebbero dunque essere tanto importanti quanto quelli posti dalle stesse all’ambiente e al clima. Da una parte, infatti, la necessità di abbattere drasticamente le emissioni di CO2 mondiali, se si vogliono rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, è del tutto incompatibile con le mire delle multinazionali. Dall’altro, eventuali incidenti nell’Artico si trasformerebbero in autentiche catastrofi ambientali. Per via delle difficoltà nel raggiungere le aree e per via delle condizioni climatiche estreme. Il disastro della ExxonValdez in Alaska, nel 1989, lo testimonia ancora.
Allo stesso modo, nella regione antartica si immagina possano concentrarsi enormi riserve di minerali (oro, argento, rame, cobalto, cromo, nickel) così come di combustibili fossili. Un trattato internazionale firmato nel 1983 regolamenta in modo piuttosto rigido le esplorazioni nell’area. Ma se fossero scoperti grandi giacimenti la “spartizione” della regione tra sette nazioni – Francia, Regno Unito, Australia, Norvegia, Argentina, Cile e Nuova Zelanda – riuscirebbe a reggere?