Quando un giorno ci potremo togliere le mascherine, quando ci potremo riabbracciare senza alcuna distinzione di parentela o congiunzione e quando potremo tornare a baciarci sulla bocca, sulle guance, metterci le dita nel naso, sfregarci gli occhi e leccare dalle mani nuovamente la cioccolata, il miele o il sapore di famose patatine cotte al forno, quando tutto questo tornerà ad essere possibile facciamo in modo di non sentirci in colpa.
Potrebbe accadere. Potrebbe succedere che la pandemia ci attribuisca delle colpe che non abbiamo avuto e che lo faccia soprattutto nei confronti di chi ha seguito pedissequamente le norme igieniche per proteggersi ma, soprattutto, per proteggere gli altri: mogli, mariti, figli, amanti, parenti e amici e perfetti sconosciuti per cui i comportamenti civici e civili hanno un valore doppio perché sono altamente, anzi totalemente, disinteressati.
Alla fine della pandemia conteremo i morti e i tanti feriti che ci saremo lasciati dietro e che avremo ancora accanto: nei nostri incubi, nei nostri sogni ricorrenti, nelle immagini diurne che vengono alla mente quando si è sovrapensiero e si perde la percezione del limitrofo, ci si sente immersi nel senza-tempo e non si vede letteralmente nulla del reale o si continua a leggere un libro e ci accorge di aver solo mentalmente scorso le parole, ma di non averne capito nemmeno lontanamente il significato.
Quando la pandemia sarà finita potremo sentirci più liberi, riconquistare tutti quegli spazi di vita che oggi siamo costretti a negarci e che qualche scriteriato definisce “dittatura sanitaria” senza alcuna contezza di cosa veramente significhi additare un potere politico e un sistema statale con quell’epiteto. L’Italia non è una dittatura ed è stata, fino a poco tempo fa, anche molto poco “sanitaria“, visto che le risorse impiegate nel potenziamento delle strutture ospedaliere pubbliche erano insufficienti già soltanto per l’attività consueta di cura delle patologie più comuni, figuriamoci se operiamo il confronto con l’emergenza sanitaria in atto.
Quando la pandemia sarà terminata grazie a nuove cure e ad un vaccino, unitamente utilizzati per neutralizzare il Covid-19, quelli di noi che saranno usciti indenni da questi tempi e quelli che saranno passati per la forca caudina del contagio, ma senza conseguenze gravi, potranno raccontare esperienze tra le più diverse e faranno la storia di un periodo così sconvolgente, così impattante sul mondo intero da essere ricordato nelle generazioni a venire.
Ogni momento di per sé è storico, ma è ovvio che esiste una storicità dei tempi data dagli avvenimenti che segnano un profondo solco, una linea di confine tra un’era ed un’altra, tra un tipo di vivibilità e invivibilità della vita stessa e tutto un altro tipo di comportamenti. Ecco, “al tempo del coronavirus” diventerà un eponimo storiografico, la designazione di un passaggio dell’epoca che contemporaneamente consideriamo “moderna” e che pensavamo capace di poter tutto affrontare e tutto risolvere.
Almeno lo pensavano e lo continuano a ritenere coloro che, da convinti liberali e liberisti, sostengono le meravigliose sorti e progressive dell’economia capitalistica, del regime delle merci e del profitto. La pandemia ha costretto questa modernità a rapportarsi con sé stessa e le ha imposto drastici cambiamenti che nemmeno il migliore dei movimenti anticapitalisti è riuscito a mettere in pratica nel passato, a considerare nel presente e a costruire oggi nella prospettiva dello stravolgimento futuro di una struttura economica devastante per il pianeta intero.
Poche sere fa, Milena Gabanelli ha sciorinato le cifre della diseguaglianza nella divisione delle ricchezze sul globo: non sono niente altro se non la conferma che 2153 multimiardari, grandi manager e imprenditori di aziende che arrivano in ogni continente tramite Internet e distribuiscono merci che nemmen loro producono direttatmente, hanno un reddito pari a quello di oltre 4,6 miliardi di terrestri (pari al 60% della popolazione mondiale).
E’ la conferma che siamo nel giusto quando ci ostiniamo ad essere comunisti perché vogliamo l’espropriazione degli espropriatori, la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione ed una economia che arrivi progressivamente alla fine dell’economia stessa per come l’abbiamo intesa fino ad oggi. Ma essere nel giusto non è sufficiente, come si sa bene da decenni e decenni di sconfitte. Anzi, da secoli.
Questo non vuol dire affatto che le lotte ottocentesche e novecentesche abbiano perso di valore e di importanza perfino storica se paragonate al disastro economico moderno che comprende la battuta d’arresto della pandemia, la crisi ecologica del pianeta che è un dramma figlio dello sfruttamento delle risorse a tutto vantaggio della sola specie umana e a completo nocumento per tutti gli altri esseri viventi che trattiamo come se fossero di nostra proprietà.
Milena Gabanelli avrebbe dovuto concludere la sua inchiesta accusando il sistema capitalistico di essere la fonte di ogni diseguaglianza, di ogni ingiustizia, di questi arricchimenti straordinari per 2 mila 153 individui e dell’immiserimento altrettanto straordianario per quei 7 miliardi 699 milioni 997 mila 847 di persone che, a vario livello, sono per quasi 3 milardi dei miserevoli salariati e per il resto oscillano tra condizioni di estrema precarietà a migliori condizioni di gestione di piccole e medie imprese.
La discrepanza è globale, non risparmia niente e nessuno e non può essere ascritta alla semplicistica spiegazione che – pure non trascurabile – mancherebbe la virtù dell’onestà prima di tutto. Ciò finisce per somigliare alla finta rivoluzione grillina contro un sistema che è stato semplicemente accusato di essere per l’appunto soltanto disonesto, mentre è stato nascosto il problema che vi è a monte: a generare la cattiva gestione delle risorse pubbliche era e rimane la logica del privato, dell’arrivismo, del rampantismo, della prevalenza dei privilegi rispetto al bene comune.
Ed allora riprendiamolo questo problema la “contraddizione” per eccellenza: il capitalismo. Diciamolo, ditelo in televisione nelle inchieste che fate. Solo “Report” su Rai 3 ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome tutta la fiumana di incongruità che si registrano nelle più particolari vicende della vita quotidiana delle amministrazioni e delle istituzioni locali e nazionali. Dal binomio di “interesse privato“, che concerne tanto la sfera sovrastrutturale dei governi quanto quella economica delle imprese, si passa naturalmente a quella di “capitale privato“, di profitto e di accumulazione del medesimo.
Passando sopra ogni pietosa morale, sopra ogni intenzione alla correttezza e all’incorruttibilità mostrata come unico antidoto ai malesseri sociali. Non è così. Non basta essere onesti, occorre essere anticapitalisti fino al midollo, senza se e senza ma se si vuole davvero cambiare la vita delle generazioni futura. La nostra ormai è stata tutta immersa in questo sistema criminale, omicida verso milioni di esseri umani, miliardi e miliardi di animali ogni giorno, devastatore dell’ambiente che lo ospita.
Il pensiero unico, quello consuetudinario (oggi verrebbe definito “mainstream“) ha tutta la convenienza a fermare la critica comune sulla soglia dell’ingiustizia come prodotto non della lotta di classe propria del sistema capitalistico, bensì come contraddizione insita nell’animo umano, nella consuedutine della vita, elemento caratteristico di ogni società fino ad oggi esistita.
Quando la pandemia sarà finita si spera almeno che abbia aperto un po’ gli occhi su questi inganni che sono ben visibili, che ci stanno proprio innanzi ogni giorno ma che non vediamo perché guardiamo al microcosmo della disperazione delle tante vite che sono state trasformate in sopravvivenze, in agonie, in lenti logoramenti fisici e psichici.
Chi denuncia l’esistenza di questo sistema evidente di intrecci affaristici sulla pelle di milardi di persone è, nel migliore dei casi, definito un sognatore romantico, un utopista; nel peggiore dei casi un pazzo, un esaltato, un estremista, un settario, un folle che non sa essere pragmatico.
Quando la pandemia sarà finita oltre a riabbracciarci e baciarci, oltre a rimetterci le dita nel naso e a leccare le dita grondanti cioccolata, magari proviamo a riunirci, a ritrovarci, a riconsiderare possibile un cambiamento epocale provocato da un altro virus: quello della rivoluzione, quello di un nuovo moderno e libertario comunismo.
MARCO SFERINI
Foto di Gerd Altmann da Pixabay