di Ramzy Baroud
La discussione sul razzismo istituzionale israeliano nei confronti della sua stessa popolazione araba palestinese è tutt’altro che cessato dopo l’approvazione finale della legge discriminatoria sulla stato-nazione nel luglio del 2018. In effetti la più recente aggiunta alla Legge Fondamentale di Israele è un semplice inizio di un programma sposato dal governo mirato a emarginare ulteriormente più di un quinto della popolazione di Israele.
Mercoledì 28 ottobre, diciotto membri del parlamento israeliano (Knesset) si sono inventati ancora un altro piano per attaccare i cittadini arabi israeliani. Hanno proposto una lege che revocherebbe la cittadinanza israeliana a qualsiasi detenuto palestinese in Israele che riceva, direttamente o indirettamente, aiuti finanziari dall’Autorità Palestinese (PA).
Degno di menzione è che questi parlamentari non rappresentano solo partiti di destra, ultradestra e religiosi, ma anche il partito ‘centrista’ Azzurro e Bianco (Kahol Lavan). Cioè la legge proposta ha già il sostegno della maggioranza del parlamento israeliano.
Ma si tratta realmente di una questione riguardante gli aiuti ai detenuti? Particolarmente visto che la PA è prossima alla bancarotta e che i suoi contributi finanziari alle famiglie di detenuti palestinesi, persino nei Territori Occupati – West Bank, Gerusalemme Est e Gaza – sono simbolici?
Ecco un contesto alternativo. Giovedì 29 ottobre il giornale israeliano Haaretz ha rivelato che il governo israeliano del primo ministro di destra Benjamin Netanyahu programma di espandere del 50 per cento la giurisdizione della cittadina ebrea di Harish, nel nord di Israele. Lo scopo è prevenire che i palestinesi divengano la maggioranza in quell’area.
Il piano d’emergenza è stato formulato dal ministero della casa di Israele come reazione rapida a un documento interno che prevede che, entro l’anno 2050, gli arabi palestinesi costituiranno il 51 per cento della popolazione di 700.000 residenti di quella regione.
Questi sono solo due esempi di iniziative intraprese nel giro di due giorni, una prova schiacciane che, davvero, la legge sullo stato-nazione è stata la semplice premessa di un lungo periodo di razzismo istituzionale che mira alla fine a vincere una guerra demografica unilaterale lanciata da Israele contro il popolo palestinese molti anni fa.
Poiché una pulizia etnica diretta – che Israele ha praticato durante le guerre del 1948 e del 1967 – non è un’opzione, almeno non per ora, Israele sta trovando altri modi per garantire una maggioranza ebrea nello stesso Israele, a Gerusalemme, nell’Area C nella West Bank occupata e, per estensione, dovunque altrove in Palestina.
Lo storica israeliano dissidente, professor Ilan Pappe, definisce ciò un ‘genocidio graduale’. Questa pulizia etnica a passo lento include l’espansione degli insediamenti ebrei illegali nella Gerusalemme Est occupata e nella West Bank, e la proposta annessione di quasi un terzo del Territori Occupati.
La Striscia di Gaza assediata è una storia differente. Vincere una guerra demografica in una regione densamente popolata, ma piccola, di due milioni di abitanti residenti in 365 chilometri quadrati non è mai stato realizzabile. Il cosiddetto ‘ritiro’ da Gaza dello scomparso primo ministro israeliano Ariel Sharon, nel 2005, è stato una decisione strategica mirata a tagliare le perdite israeliane a Gaza a favore di dell’accelerazione del processo di colonizzazione nella West Bank e nel deserto del Naqab. In effetti la maggior parte dei coloni ebrei illegali di Gaza è stata alla fine ricollocata in tali regioni demograficamente contestate.
Ma come può far fronte Israele alla sua stessa popolazione araba palestinese, che oggi costituisce una considerevole minoranza demografica e un blocco politico influente e spesso unito?
Nelle elezioni generali israeliane del marzo 2020 partiti politici arabi palestinesi uniti in corsa sotto un gruppo ombrello, la Lista Congiunta, hanno ottenuto il loro maggior successo storico elettorale sinora, emergendo come terzo partito politico più vasto di Israele. Tale successo ha fatto risuonare campane d’allarme tra le élite dominanti ebree di Israele, conducendo alla formazione dell’attuale ‘governo di unità’ di Israele. I due principali partiti politici israeliani, Likud e Kahol Lavan, hanno chiarito che nessun partito arabo sarebbe incluso in nessuna coalizione di governo.
Un forte elettorato arabo rappresenta uno scenario da incubo per i pianificatori governativi di Israele, che sono ossessionati della demografia e dall’emarginazione degli arabi palestinesi in ogni possibile arena. Di qui la rappresentanza stessa della comunità araba palestinese in Israele diviene un bersaglio di repressione politica.
In un rapporto pubblicato nel settembre 2019, il gruppo per i diritti Amnesty International ha rivelato che “membri palestinesi della Knesset in Israele stanno sempre più subendo attacchi discriminatori”.
“Pur essendo democraticamente eletti come i loro omologhi ebrei, i parlamentari palestinesi sono il bersaglio di una discriminazione profondamente radicata e di restrizioni indebite che mutilano la loro capacità di parlare in difesa dei diritti del popolo palestinese”, ha affermato Amnesty.
Queste rivelazioni sono state comunicate da Amnesty appena prima delle elezioni del 27 settembre. L’attacco contro cittadini palestinesi di Israele ricorda molestie e attacchi simili contro dirigenti e partiti palestinesi nei Territori Occupati, specialmente prima di elezioni locali o generali. Cioè Israele considera la sua stessa popolazione araba palestinese attraverso le stesse lenti con cui considera i palestinesi militarmente occupati.
Dalla sua fondazione sulle rovine della Palestina storica e fino al 1979, Israele ha governato la sua popolazione palestinese mediante le Regole della Difesa (di Emergenza). Il sistema legale arbitrario imponeva numerose restrizioni ai palestinesi cui era stato consentito di restare in Israele dopo la Nakba, o pulizia etnica della Palestina, del 1948.
In pratica, tuttavia, le norme emergenziali sono state cancellato soltanto di nome. Sono state semplicemente ridefinite e sostituite – secondo il gruppo per i diritti Adalah, con sede in Israele – da più di 65 leggi che attaccano direttamente la minoranza arabo palestinese di Israele. La legge sullo stato-nazione, che nega alla minoranza araba di Israele il suo status legale, perciò, e la protezione sotto la legge internazionale, non fa che accentuare l’incessante guerra di Israele contro la sua minoranza araba.
Inoltre, “la definizione di Israele come ‘lo stato ebreo’ o ‘lo stato del popolo ebreo’ rende la disuguaglianza una realtà pratica, politica e ideologica per i cittadini palestinesi di Israele”, secondo Adalah.
Il razzismo israeliano non è casuale e non può essere semplicemente classificato come un’altra violazione dei diritti umani. E’ il cuore di un piano sofisticato che mira all’emarginazione politica e allo strangolamento economico della minoranza araba palestinese in seno a un quadro costituzionale e dunque ‘legale’.
Senza comprendere appieno lo scopo finale di questa strategia israeliana, i palestinesi e i loro alleati non avranno possibilità di combatterla appropriatamente, come certamente dovrebbero.
Ramzy Baroud è un giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. Quello più recente è ‘The Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons’ (Clarity Press, Atlanta). Il dottor Baroud è ricercatore anziano non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA) e anche presso l’Afro-Middle East Center (AMEC). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2020 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3