Nel gennaio del prossimo anno cadrà il centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano (inizialmente denominato “d’Italia”), avvenuta a Livorno, a seguito di una scissione di minoranza dal Partito Socialista.
Potrebbe essere una buona occasione per una revisione critica di 70 anni di storia che hanno influito in misura significativa sull’intera vicenda italiana del novecento. In una fase nella quale la sinistra del nostro Paese si trova al suo minimo storico, un’analisi delle ragioni che hanno consentito al Partito Comunista di assumere dimensione di massa e di radicarsi nella società, potrebbe fornire ancora utili insegnamenti.
Non sappiamo se l’editoria italiana saprà fornirci contributi validi ad un riesame di quella storia. Per ora dobbiamo misurarci con il volume di Mario Pendinelli e Marcello Sorgi, due giornalisti di chiara fama. Sorgi è stato direttore della Stampa di Torino e Pendinelli inviato del Corriere della Sera e direttore di un rieditato Mondo che cercava di ripercorrere i successi dell’originale guidato da Mario Pannunzio. Due autori che si possono collocare in un’area politico-ideologica di centro-sinistra, diremmo di “progressismo liberale”. Intitolato “Quando c’erano i comunisti”, è stato pubblicato dalla Marsilio (pp. 383, € 18,00). Essendo dovuto alla penna di due giornalisti di successo, si tratta di una lettura molto scorrevole e in genere gradevole.
Purtroppo i suoi meriti finiscono qui. Forse per l’aspirazione commerciale ad essere il primo prodotto librario ad occupare lo spazio offerto dalla commemorazione storica, si tratta di un testo scritto con molta superficialità e scarsa attenzione alla precisione dei fatti ricordati, nessuno dei quali per altro derivato da una qualche ricerca originale ma tutti rigorosamente di seconda e possibilmente anche di terza mano. Il libro ha anche però un’evidente intenzione politica e quindi andrà valutato anche come contributo al dibattito interno al progressismo liberale.
Quanto a ricostruzione storica ha molti più difetti che pregi. La scelta è di parlare dei comunisti non tanto come movimento collettivo che ha coinvolto milioni di persone, quanto come successione – quasi dinastica verrebbe da dire – dei suoi leader. Una serie di “medaglioni” nei quali non si fa mancare alcun aneddoto o aspetto relativo alle vicende umane, ritenute sicuramente più attraenti per un lettore abituato al retroscenismo e all’infotainment (il misto tra informazione e intrattenimento) che caratterizza la grande stampa italiana.
La scrittura veloce o forse la fretta di arrivare in libreria prima di altri, ha portato ad accumulare una notevole quantità di errori e di veri e propri strafalcioni per i quali bastava una semplice e veloce verifica su wikipedia. Curiosamente i due autori citano due aneddoti, relativi rispettivamente a Gramsci e a Togliatti, come positivo esempio di come i due dirigenti comunisti richiamassero i giornalisti della stampa di partito alla scrupolosa precisione dei loro articoli. Consigli che, purtroppo, si sono ben guardati dal seguire.
Dovremo sottoporre qualche esempio almeno degli errori più clamorosi, affinché il nostro giudizio non sembri motivato da spirito fazioso. Nel mentre si racconta della formazione dell’Internazionale Comunista gli autori scrivono: “A Zimmerwald, Zinov’ev presenta i 21 punti che dovranno essere accettati e rispettati dai partiti che vogliono far parte dell’organizzazione rivoluzionaria comunista: la Terza Internazionale, nota anche con il termine russo Komintern”. Poco oltre si afferma: “le disposizioni del Komintern sono rigide e dettagliate, e vengono approvate dai rappresentanti di trentanove partiti socialisti o comunisti presenti ai lavori”.
Si tratta di una notevole confusione con la quale vengono concentrati in un immaginario evento tre fatti diversi e distanziati l’uno dall’altro di parecchi anni. La conferenza di Zimmerwald si tenne nel settembre del 1915 con la presenza di gruppi e partiti socialisti che si erano rifiutati di aderire alle politiche di guerra dei rispettivi stati nazionali. I “39 partiti” sono presumibilmente quelli invitati alla riunione di fondazione dell’Internazionale Comunista del marzo 1919. I 21 punti vennero presentati ed approvati nel secondo congresso dell’Internazionale che si tenne tra luglio e agosto del 1920 con la partecipazione di 67 partiti. Eppure solo due pagine prima gli autori avevano correttamente scritto che a Zimmerwald nel 1915 si era tenuta una riunione di esponenti socialisti. Le stesse informazioni sono reperibile dalla lunga intervista ad Umberto Terracini, pubblicata in appendice e che forse costituisce la parte più utile del libro. Anche se, va detto, si tratta di un testo già pubblicato nel 1981 e in buona parte ripetitivo di un’analoga operazione editoriale. L’intervista sul “comunismo difficile” pubblicata da Laterza qualche anno prima.
Non poteva mancare un riferimento al viaggio in treno con il quale Lenin tornò in Russia dalla Svizzera, oggetto di tante leggende e mistificazioni. Tutto il capoverso è un esempio della superficialità della scrittura, ma anche di qualche pregiudizio ideologico. Gli autori iniziano così: “Dopo la caduta del regime sovietico, l’apertura degli archivi di Mosca ha consentito di ricostruire esattamente il famoso viaggio in treno di Lenin, che lo riportò in Russia dall’esilio in un paesino dell’impero asburgico, nell’attuale Polonia meridionale”. Il paragrafo viene concluso in questo modo: “ Viaggiarono in vagoni con status di extraterritorialità che da Zurigo attraversavano il confine tedesco e raggiunsero dopo un lungo percorso la costa, a Sassnitz, sul mar Baltico, dove era pronto un traghetto per la Svezia”. Strano giro davvero che parte dalla Polonia meridionale e passa da Zurigo per arrivare in Russia, potrebbe pensare l’ignaro lettore.
Ma gli autori non si possono far mancare un riferimento all’eterna leggenda sull’inesistente “patto col diavolo” tra Lenin e il Kaiser tedesco. A prova della tesi viene richiamato il “racconto” romanzato da Solzenicyn, “senza il conforto dei documenti”, pubblicato nel 1975. L’attendibilità della ricostruzione del dissidente russo è stata efficacemente demolita niente meno che da Boris Souvarine, dirigente comunista negli anni ’20, poi entrato in conflitto con i bolscevichi e che negli anni ’70 era un fervente anti-comunista, non meno di Solzenicyn, ma assai meno disposto a credere a qualsiasi fanfaluca servisse alla propaganda ideologica. Tutte le ricostruzioni fantasiose della vicenda si dimenticano di ricordare che la proposta di trattare il rientro in Russia dalla Svizzera, attraverso il territorio tedesco, venne avanzata per primo dal menscevico Martov e riguardò l’intera comunità dei 3-400 esuli politici russi. I boslcevichi, assieme agli esponenti del Bund ebraico che viaggiarono sullo stesso treno di Lenin, decisero di non attendere l’autorizzazione formale del Soviet di Pietroburgo per compiere il viaggio. Ma tutti i russi, in maggioranza ostili ai bolscevichi, compirono l’attraversamento in treno attraverso la Germania, nelle stesse condizioni e senza bisogno di alcun “patto col diavolo”. Sorgi e Pendinelli fanno riferimento a fantomatici documenti emersi dopo l’apertura degli archivi sovietici, purtroppo senza fornire alcuna citazione della fonte di questa rivelazione. Anche la più recente ricostruzione della vicenda, pur certamente non favorevole a Lenin e ai bolscevichi, non ne riporta alcuno.
Per altro quando vengono fornite dei riferimenti a testi precisi si scopre che sono autori di scarsa attendibilità, come il biografo di Lenin, David Shub. Nato in Russia, Shub si era trasferito negli Stati Uniti prima della rivoluzione d’ottobre. Aveva aderito al menscevismo ma si era schierato contro i suoi leader perché nella guerra civile non si erano alleati con i “bianchi” controrivoluzionari. Ferocemente ostile a Lenin, la sua biografia raccoglie senza discernimento sulla effettiva attendibilità, qualsiasi notizia potesse mettere in cattiva luce il leader bolscevico, ricorrendo anche vere proprie falsificazioni di citazioni ed eventi (l’allora trotskista dissidente Max Schactman, pubblicò una recensione demolitrice sulla sua rivista New International, oggi disponibile in rete).
Non mancano errori grossolani anche su eventi più recenti e facilmente verificabili, come quando si parla dello PSIUP per dire che è “nato da una scissione dopo la breve unificazione tra PSI e PSDI”, mentre è cronologicamente vero il contrario. Oppure si fa riferimento al modello” latino-americano castrista delle canzoni degli Inti-Illimani”. Quando dovrebbe essere noto anche ai più sprovveduti che le canzoni del gruppo cileno rimandano all’esperienza di governo di Salvador Allende e alla solidarietà contro la violenta repressione messa in atto dai militari di Pinochet.
Al di là di questa scarsa attenzione alla precisione delle informazioni, il libro di Sorgi e Pendinelli solleva notevoli perplessità anche quando propone una interpretazione delle posizioni politiche dei maggiori leader del PCI. Queste derivano da una visione politica che viene esplicitata nell’introduzione, sulla base della quale gli autori hanno affrontato “il complicato rapporto, non solo di contrasto e opposizione, con l’avversario naturale, il capitalismo, che strada facendo diventa un interlocutore, perché, proprio a partire dalle riflessioni di Gramsci, la sinistra comprende che con esso deve condividere l’eterno problema italiano dello sviluppo economico, necessario per colmare i ritardi della storia”.
“Il conflitto – proseguono gli autori – prevale quando la sinistra si allontana dall’idea di crescita come valore e ripiega sul rivendicazionismo spicciolo e, in sostanza, sull’assistenzialismo”. Al capitalismo si rimprovera di lasciarsi andare all’estremismo liberista. “In questi due casi non vincono mai né il capitalismo né la sinistra: perdono insieme e perde la società”. Il succo politico di tutto il libro è qui espresso. Compito della sinistra è collaborare con il capitalismo per favorire la crescita, con piena soddisfazione di tutti.
Da questa visione deriva una lettura del ruolo dei protagonisti della storia del PCI che risulta unilaterale e in genere poco fondata. E’ il caso in particolare di Gramsci che viene rappresentato come un quasi liberale grande ammiratore della Fiat e degli Agnelli. Rifacendosi all’interpretazione di Gobetti, sarebbe la presenza della Fiat a Torino, opera di “uomini geniali”, e in particolare di Giovanni Agnelli , “solitario eroe del capitalismo moderno”, ad essere la vera “premessa della nascita del PCI”. Anche la visione gramsciana dei Consigli di fabbrica (che per altro non avranno più un ruolo significativo in tutta la successiva esperienza politica di Gramsci dirigente del PCI e nei Quaderni del Carcere) è vista come esaltazione acritica della modernità portata dal capitalismo industriale.
A proposito dell’”eroe del capitalismo” Giovanni Agnelli, Gramsci aveva ben presente qual era la realtà rappresentata dalla modernità apportata dalla Fiat. Lo sintetizzava Paolo Spriano, nel 1973, recensendo la biografia scritta da Valerio Castronovo, il quale “si sofferma su quell’episodio che si situa alla radice della fortuna di Agnelli; gli spericolati giochi di borsa del 1906-908, che valsero all’amministratore delegato della Fiat un processo per aggiotaggio (in un mese e mezzo i titoli Fiat avevano fatto un salto di 2286 punti), da cui uscì, fortunosamente, con una sentenza di non luogo a procedere, valendosi dell’aiuto decisivo della testimonianza favorevole offertagli dal famoso dirigente della Commerciale, Toeplitz”.
La prima guerra mondiale fu il vero trampolino di lancio della Fiat indirizzando la produzione verso i settori coperti dalla domanda statale, bellica in primo luogo. “E fece poi man bassa delle commesse statali”, sintetizza Spriano. Nel triennio 1916-1918 i guadagni personali di Agnelli arrivavano a toccare la cifra di 1.818.076 lire (da moltiplicare per dieci, scrive Spriano con i calcoli del 1973). Mentre migliaia di poveracci morivano nelle trincee, i profitti della Fiat salivano dall’8,20 al 30,51% e la ditta era diventata la terza in Italia nel campo industriale.
Un altro elemento fondamentale della vicenda della Fiat di Agnelli è così riassunto, sempre da Spriano: “la sua capacità di instaurare un potere economico senza scordare mai, neppure per un momento, di avvalersi di tutte le mediazioni politiche, di incunearsi nello Stato, sapendo cambiare i cavalli a ogni tappa per correre più svelto”. La capacità di Gramsci di misurarsi criticamente con i punti più avanzati dello sviluppo capitalistico (e con le sue espressioni culturali) viene scambiata dagli autori come un desiderio di operare un embrassons-nous con il capitalismo stesso e i suoi principali protagonisti.
Anche il ruolo di Togliatti che pure nel complesso non è così ostile come vorrebbe la vulgata trionfante nelle pagine culturali dei maggiori quotidiani, viene forzato in modo unilaterale per farlo rientrare nella visione politica degli autori. Si vedano, in particolare, due giudizi. Il primo lo vede già nel 1935 consapevole del fallimento del modello del “socialismo reale”, poco credibile come anticipazione di una visione critica che maturerà, anche con contraddizioni, molti anni dopo. Il secondo è ripreso da un libro di Emanuele Macaluso secondo il quale Togliatti non voleva che il PCI fosse un partito “anti-sistema”. Il Togliatti del libro di Macaluso è troppo “migliorista” per essere vero e tende a “salvare” Togliatti dalla dannazione degli anti-comunisti e dei post-comunisti, facendone un riformista, solo un po’ in ritardo sui tempi. Ma non si fa un buon servizio alla figura di Togliatti (spesso superficialmente liquidata anche dall’estrema sinistra) sottraendolo al suo essere parte della storia del comunismo, italiano e internazionale, con le sue contraddizioni, i vincoli negativi derivanti dallo stalinismo, ma anche della sua capacità di produrre avanzamenti e progressi per l’umanità.
A Berlinguer rimproverano di non aver portato decisamente il PCI sulla strada del riformismo socialdemocratico e di essersi attardato a cercare una “terza via” (non quella di Blair e Clinton), ovvero l’idea che le contraddizioni fondamentali del capitalismo richiedessero ancora, nonostante il fallimento del socialismo burocratico e autoritario dell’est Europa, una trasformazione sociale complessiva. Sorgi e Pendinelli intervistano alcuni ex dirigenti del PCI, che tendono comunque tutti ad avanzare questa critica a Berlinguer e ad approvare la cancellazione del PCI, dando vita prima al PDS e poi al PD.
Eppure le pagine finali del libro sono dedicate ad una esplicita critica dell’adesione della sinistra socialdemocratica alle logiche liberiste avvenuta negli anni ’90. La rilettura non pregiudizialmente ostile ma piegata ad un’interpretazione moderata della vicenda storica del Partito Comunista, dovrebbe servire a stimolo di riflessione per quest’area politica identificata dagli autori con il PD. Sorgi e Pendinelli però non si avvedono che questa ricostruzione può essere utile solo se riconosce che i meriti storici del Partito Comunista sono legati al suo voler essere forza di cambiamento sociale in conflitto con la direzione che il capitalismo imprime allo sviluppo economico e sociale. Il libro, in fondo, esprime l’impossibilità insita nel punto di vista del progressismo liberale di voler affidare alla sinistra un mero ruolo di adattamento al capitalismo, sperando in questo modo di mantenerlo nei suoi binari di forza capace di alimentare lo sviluppo economico e sociale.