A seguito di un inizio d’anno decisamente vivace sul fronte di occupazioni e scioperi, oggi gli e le studentə di tutta Italia scendono in piazza per manifestare. Una conversazione a più voci sulle problematiche, emergenziali e strutturali, della scuola in Italia
«Una cosa è chiara: non ci stanno ascoltando, c’è un generale disinteresse verso le nuove generazioni». Le parole di Dario (liceo Manzoni, Milano), Pau (liceo Pilo Albertelli, Roma), Giulia (nome di fantasia, liceo Kant, Roma), Sara (liceo Socrate, Roma), Rebecca (liceo Manzoni, Milano), Ambra (liceo Giulio Cesare, Roma), Andrea (liceo Kant, Roma) convergono tutte verso quest’unico punto. Non è un caso, cioè, che nelle ultime settimane si siano moltiplicati i gesti di protesta e si siano diffuse negli istituti dell’intera penisola scioperi e occupazioni. Non è un caso tra l’altro che per oggi sia prevista la mobilitazione nazionale degli e delle studenti “Occupiamoci della scuola”: una giornata di che vuole essere – stando al comunicato diramato da collettivi come quello del Socrate Occupato – «il momento di dire basta».
Come mai protestate?
Pau: All’inizio della pandemia dicevamo che non volevamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema. Purtroppo, la realtà è che non sta avvenendo alcun cambiamento. In ambito educativo, le scelte sono sempre le stesse. Eppure, determinati cambi di rotta e determinati investimenti o si fanno adesso o non si fanno mai più. Le proteste che stiamo mettendo in campo sono l’unico modo per farci sentire.
Sara: Provare a coordinarsi a livello nazionale è molto importate. Come studenti del nostro istituto, abbiamo fatto sciopero, poi siamo scesi in piazza ma non è cambiato nulla a livello di visibilità e di dialogo. Per quello è stato necessario occupare: perlomeno si è aperto un tavolo di confronto con la dirigenza scolastica e le istituzioni ora ci ascoltano. Abbiamo intenzione di mobilitarci per tutto il corso dell’anno.
Andrea: Non solo il mondo giovanile non viene ascoltato, ma si è anche inveito contro i giovani scaricandogli addosso colpe e responsabilità non loro. Durante l’occupazione qui al Kant, un ragazzo è stato fisicamente aggredito dalle forze dell’ordine: si tratta, secondo me, del segno inequivocabile che chi detiene il potere è inadatto a svolgere il proprio mestiere. Quello che stiamo provando a fare è riprenderci il nostro futuro, anche attraverso le proteste.
Dario: Si è appena formato il governo a guida Mario Draghi e ben sappiamo quali sono le sue posizioni in merito alla gestione delle risorse. Penso che le nostre richieste debbano essere anche molto concrete in questo senso: vogliamo che una buona parte dei finanziamenti che arriveranno dal Recovery Fund siano investiti nell’istruzione. Invece, ci troviamo a fare i conti ancora con le “classi-pollaio” e con edifici talvolta insicuri.
Una situazione aggravata dalla pandemia e dalla didattica a distanza…
Dario: Nessuno nega che, soprattutto durante la prima fase della pandemia, fosse necessario chiudere le strutture scolastiche. Poi però, e penso in particolare a una situazione come quella del centro cittadino di Milano, ci dobbiamo confrontare con un contesto in cui un sacco di attività non essenziali hanno ripreso, in cui le “vie dello shopping” sono gremite di gente, ma a noi viene impedito di tornare in aula. Ora andiamo a lezione metà in presenza e metà a distanza, ma per chi sta a casa è veramente difficile seguire e interagire…
Rebecca: Perché le scuole sono chiuse in questo momento? Se andiamo ad analizzare la catena delle cause vediamo che il problema principale è che andrebbero pagati di più gli e le insegnanti e andrebbe risolto il problema della precarietà lavorativa, oltre a potenziare il trasporto pubblico ed eliminare i disagi pratici, come per esempio l’assenza di termoscanner in tanti istituti. Insomma, andrebbe investito di più in istruzione e in sanità. Ma non si tratta solo di avere più soldi, bensì di cambiare il modello di insegnamento, di andare oltre la didattica frontale…
Sara: Esatto, serve un cambiamento radicale. Non ci vengono dati gli strumenti per comprendere il mondo contemporaneo. Dal mio punto di vista, occorre stanziare fondi proprio per cambiare ciò che manca nella scuola di adesso: l’inclusione delle soggettività alternativamente abili, l’attenzione alle tematiche ambientali e della crisi climatica, un diverso e migliore sistema di valutazione, l’educazione alla sessualità e all’affettività. Insomma, una scuola che formi cittadine e cittadini.
Ambra: Da noi al Giulio Cesare, la preside ha provato a farsi paladina del nostro diritto a discutere a riunirci in assemblea, salvo poi ostacolare in ogni modo l’organizzazione della Settimana dello studente e dei corsi alternativi. Questo per dare un’idea della considerazione dei temi che proviamo noi studenti a mettere in campo autonomamente. Stiamo riuscendo a svolgere la Settimana grazie a proteste e sit-in.
Foto dall’archivio DINAMOpress
Trovate difficile esprimere dissenso?
Pau: A me sembra che sia in atto da tempo un processo di trasformazione verso il modello della scuola-azienda, in cui i dirigenti scolastici sono molto spesso dei “presidi-boss”, figure “minacciose” anche per gli stessi professori. Il problema è proprio questo “microclima” gerarchico e piramidale, in cui non muta nulla a livello di rapporti. Davvero, è tutto così statico al punto da risultare frustrante: fra i ministri è tornata Mariastella Gelmini, non esattamente un segnale di cambiamento!
Dario: L’impressione è che anche la repressione poliziesca sia aumentata. A noi è capitato che le forze dell’ordine avessero provato a farci desistere dal mettere in atto gesti di dissenso, facendoci velatamente capire che le conseguenze sarebbero state più gravi del solito. Va sottolineato che in questo momento organizzare un corteo o un’occupazione vuol dire un po’ “fare un salto nel buio”: non sai quale possa essere la reazione, occorre mobilitarsi in fretta e in modi inediti.
Ambra: L’emergenza che stiamo vivendo è il risultato di anni e anni in cui il mondo scolastico è stato trascurato, ma rappresenta anche un’occasione per ripensare in un senso profondo la funzione educativa. Il punto è che la scuola viene vista solo come un luogo in cui assegnare “valutazioni” agli e alle studenti, in particolare ora che la didattica è fortemente compromessa dalla pandemia: nei rientri in classe siamo subissate da verifiche, interrogazioni, ecc.
Andrea: Come collettivo studentesco ci sembra necessario lottare contro tutti quei valori che poi portano alle problematiche della violenza, delle diseguaglianze, della mascolinità tossica… Dobbiamo, insomma, lottare per una società che ancora non esiste. Il punto è che si tratta di problematiche davvero molto radicate nel nostro quotidiano, di cui magari neanche ci accorgiamo. L’unico modo che abbiamo è ascoltare e dare voce alla sofferenza di chi le vive sulla propria pelle, cercando dialoghi in questo senso anche oltre il contesto scolastico…
Vedete in particolare dei movimenti o delle realtà con cui collaborare?
Sara: la nostra lotta è naturalmente transfemminista e intersezionale. Siamo in contatto con Non Una di Meno e siamo sempre presenti alle iniziative portate avanti dal movimento. In particolare, come collettivo studentesco ci siamo occupate di raccogliere testimonianze e riflessioni per la giornata del 25 novembre. È una questione politica che proviamo a porci: cosa vuol dire vivere la città di Roma in quanto ragazze?
Dario: Qui a Milano abbiamo attivato percorsi con DeGenerAzione, Ambrosia, con lo spazio autogestito di Zam, ci stiamo organizzando per le mobilitazioni in ricordo di Dax. Il nostro obiettivo è andare nel profondo della questione di cosa vuol dire intersezionalità delle lotte: che cosa significa antifascismo? In che modo viene alimentato dalla cultura dal basso e dal trasfemminismo? Ecc… Penso che su questi temi si stia diffondendo una consapevolezza sempre maggiore…
Giulia: Non c’è un solo obiettivo per cui scendiamo in piazza e ci mobilitiamo. Nel nostro istituto abbiamo provato per esempio a porre una maggiore attenzione alle questioni di genere, abbiamo cercato di introdurre un bagno “gender free” per includere le soggettività non binarie… Speriamo che le nostre richieste si affianchino a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici della sanità. Crediamo che la lotta studentesca sia un tutt’uno con la lotta delle donne, con la lotta di quanti e quante non hanno ancora un futuro e dei diritti garantiti.