La sostenibilità è un tema centrale ormai da diversi anni. Qualcosa con cui anche il capitalismo ha dovuto fare i conti, coniando il mito dello sviluppo green e sostenibile.

La rinnovata sottoscrizione da parte di Joe Biden, all’indomani della sua elezione, degli Accordi di Parigi ha occupato e permeato immediatamente il discorso pubblico. Un evento che può cambiare molto le carte in tavola nel panorama mondiale ed europeo.

Anche il nuovo scenario politico italiano pare andare nella direzione di volersi assumere il comparto dell’ecologismo come nodo irrimandabile, chiaramente nella prospettiva liberale basata sull’accumulazione che contraddistingue i personaggi chiave di questo neonato Governo.

A pochi giorni dal suo insediamento, Draghi si è impegnato a ricevere tre rappresentanti dell’ambientalismo più o meno d’antan, ha dichiarato l’intenzione di questo Governo di mettere al centro del proprio programma politico l’ambiente e ha istituito un ministero per la transizione ecologica. L’iniziativa, che ha destato il pubblico plauso, condensa in un solo scranno il ministero dell’ambiente e, ça va sans dire, il settore energetico del ministero per lo sviluppo economico. Di nuovo, il mito di un possibile sviluppo sostenibile, l’ipotesi di conciliare crescita economica – in termini di crescita del PIL – e sostenibilità, tornano sulla scena. E lo fanno con l’intenzione di restare.

Emblematicamente, il governo italiano si è affrettato ad affidare la gestione della crisi climatica a uno dei più illustri manager di Leonardo, Cingolani: à la guerre comme à la guerre. Siamo pronti ad affrontare la partita che ci si pone davanti?

Secondo gli accordi, nei prossimi due anni, ogni Stato membro dell’UE dovrà destinare il 37% dei fondi del Recovery Fund in investimenti verdi non meglio specificati: non sono state poste condizioni, né indicate chiare linee guida in merito.

Il risultato è che ciascun Paese potrà scegliere in autonomia come spendere quei fondi, e dovrà farlo in fretta. Non ci sarà quindi il tempo, in ambito istituzionale, di ripensare profondamente al modello di sviluppo che ha così severamente minacciato la vita sul pianeta. Ci si accontenterà di pescare dal mare magnum in cui nuotano i pescecani, diventati il punto di riferimento delle politiche di sostenibilità dopo decenni di sfruttamento e devastazioni impunite. Via libera quindi a ENI, Enel, Snam, A2A, Erg, Saipem, Falck, Terna, Hera, Italgas e ai loro progetti sulle rinnovabili. Poco importa se la maggior parte di loro ha iniziato a concepire una parziale riconversione solo negli ultimi anni, quando la crisi climatica si è imposta con urgenza nel dibattito pubblico e nelle mobilitazioni sociali e solamente con lo scopo di continuare ad esistere e guadagnare. Poco importa se la storia di queste compagnie è una storia di inquinamento, di violenze, di sottrazione di risorse: ora promettono l’oro verde.

Sono promesse vane: sappiamo come agiscono le multinazionali del fossile. Spendono in marketing più di quanto investano nei settori delle rinnovabili, così da dare l’impressione di un’inversione di rotta, ma alla prova dei fatti si riconfermano le principali artefici delle emissioni climalteranti. Nel caso ad esempio di ENI, la voce spesa legata all’upstream rappresenta ancora il 70% degli investimenti, con un aumento del solo 0,8% degli investimenti nel rinnovabile. Come dichiara la stessa azienda, «La nostra strategia a lungo termine resta invariata e la nostra trasformazione è irreversibile»: non ci sarà mai l’interesse a ridurre l’estrazione di petrolio, lo sforzo green sarà teso semmai a progettare strategie di cattura di CO2, con infrastrutture pericolose come quelle in progetto a Ravenna, per poter continuare a inquinare.

Ma c’è di più: pur ammettendo la capacità di queste multinazionali di investire i fondi del Next Generation UE nelle rinnovabili, ci troveremmo di fronte a due ordini di problema.

Primo: l’investimento in forme di energia “verdi” non cancellerebbe il portato di decenni di estrazione, lavorazione e distribuzione del fossile. Un portato che si misura in inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra, in espropriazone di terreni (soprattutto nel Sud Globale, ma non solo), in soppressione dei diritti umani, in manipolazione e ricatto da parte delle istituzioni.

Secondo: l’investimento in forme di energia “verdi” non è un processo né verde né tantomeno sostenibile. Una delle parole-chiave del Recovery Fund pare essere “idrogeno”, una risorsa che ad oggi deriva per più del 99% da fonti fossili. Per essere precisi, dal processo di lavorazione del gas, che infatti negli ultimi anni è stato celebrato come una risorsa verde rispetto al petrolio, e sul quale ENI ha fatto grossi investimenti ad esempio in Mozambico e nell’Artico.

Oltre al settore del fossile, più immediatamente riconducibile alle emissioni climalteranti, nel dibattito intorno all’esigenza di coniugare crescita del PIL e sostenibilità si continua a parlare di cantieri e grandi opere. Dunque, i fondi che dovrebbero essere messi a disposizione della messa in sicurezza dei territori, che dovrebbero essere impiegati nelle piccole opere di prossimità, nelle bonifiche, nelle misure di abbattimento dell’inquinamento, vengono invece usati per finanziare mega-progetti inutili e con impatti devastanti sui territori e sui diritti di chi li vive.

Quella che ci si staglia di fronte non è la nostra transizione: è una manovra tutta estetico-finanziaria che punta alla sopravvivenza del business as usual. Non risolve affatto la crisi ecologica che abitiamo e che peggiora di giorno in giorno assumendo forme note e inedite. Non elimina alla radice i fattori che hanno reso possibile lo sfruttamento, le disuguaglianze, le malattie. Così come quando si parla di riparazione dei danni coloniali si chiede che siano gli Stati imperialisti a ripagare le comunità colonizzate, allo stesso modo dovremmo esigere che a pagare la riconversione – reale ed equa – sia chi per decenni ha avvelenato l’aria, l’acqua, la terra. Non dovremmo esultare perché le stesse compagnie riceveranno miliardi di euro di debito pubblico con cui ripulirsi faccia e coscienza intavolando misere opere di “compensazione” dei danni.

Rise Up 4 Climate Justice è nata con un obiettivo chiaro: creare mobilitazioni larghe e radicali per la giustizia climatica ed è questo il momento di farlo.

Ci troviamo nel pieno di una pandemia che ha stravolto qualsiasi equilibrio, che ha mostrato i limiti del capitalismo estrattivista ma che allo stesso tempo sta fornendo ad esso la possibilità di ristrutturarsi, cambiando volto ma mantenendo la tossicità che lo ha sempre contraddistinto. Forzare il cedimento di questo mortale sistema di cose tocca a noi.

I mesi che ci attendono ospiteranno appuntamenti emblematici: il summit degli azionisti di ENI, durante il quale verrà discusso e approvato il piano investimenti dell’azienda, gli appuntamenti del semestre italiano del G20, ma ancora la COP giovani di Milano, la COP di Glasgow etc. Non per rincorrere un’agenda già dettata, ma per costituirsi granello di sabbia nella ruota dentata, indicare con chiarezza i momenti in cui muove l’avversario, immaginare mobilitazioni direttamente in queste occasioni, o in vista delle stesse, è fondamentale. Fare luce sulle responsabilità della crisi climatica, rivendicare il diritto a un ecosistema sano, appare urgente.

Le resistenze territoriali sono esperienze fondamentali in questo momento di forzato polarismo: il rapporto che ciascuna comunità ha intrecciato con il territorio che abita è l’unica garanzia per la tutela dell’ambiente e della sua salvaguardia. Negli ultimi mesi abbiamo visto la forza con cui i comitati hanno affrontato la partita sui depositi di scorie nucleari, coinvolgendo e schierando le comunità per la salvaguardia dei propri territori. È fondamentale dare voce e sostegno a queste esperienze, anche alle più di nicchia, perché i piani di sviluppo non mettano ulteriormente a repentaglio gli ecosistemi.

Oggi più che mai, non possiamo considerare la questione politica dell’ecologia – che Rise Up ha scelto di assumere come campo di battaglia – slegata dalla delicata fase sociale che ci si presenta.

Gli equilibri di tenuta del sistema vacillano e gli eventi ci impongono di prendere in carico un’analisi del reddito e del lavoro, irrimandabile se vogliamo porci a un livello avanzato di contrapposizone alla deriva green che sta assumendo la ristrutturazione del capitalismo e del lavoro.

La sfida in questo senso è soprattutto quella di rendere dialettico il rapporto tra lotta ambientale e lotta sociale, senza limitarci a lasciare le nostre analisi in un limbo di incomunicabilità, ma piuttosto traducendole in pratica quotidiana di contrapposizione ecologica di classe.

Prepariamoci ad attraversare i mesi che verranno costruendo mobilitazioni e alleanze: domenica 7 marzo, alle ore 15:30, partecipa anche tu all’assemblea di Rise Up.

https://www.infoaut.org/no-tavbeni-comuni/rendere-dialettico-il-rapporto-tra-lotta-ambientale-e-lotta-sociale-assemblea-online-di-rise-up-4-climate-justice

Link:​​​​​​​

Argomento: Rise Up 4 Climate Justice

Ora: 7 mar 2021 03:30 PM Roma

Entra nell’incontro in Zoom

https://unive.zoom.us/j/82883597934

ID riunione: 828 8359 7934

Passcode: riseup4

Da Rise Up 4 Climate Justice

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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