L’accordo sottoscritto il 10 marzo scorso tra Governo e parti sociali non promette nulla di buono: è l’ennesima occasione persa da un sindacato sempre più lontano dalle istanze dei più deboli.
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È del 10 marzo scorso la firma del nuovo accordo siglato da Governo e parti sociali in materia (residualmente, vedremo perché) di lavoro. Nello specifico, l’accordo si intitola “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” e porta la firma del Presidente del Consiglio, del Ministro per la Pubblica Amministrazione e di CGIL, CISL e UIL.
Tutti esultano: un risultato importante, dicono, una premessa per ulteriori interventi che non potranno che far bene al Paese, alla Pubblica Amministrazione, ai lavoratori del pubblico impiego.
Non credo sia un buon accordo e penso sia piuttosto l’ennesima apertura a ulteriori interventi erosivi dei diritti dei lavoratori, che comporterà ancora conseguenze nefaste sulla comunità del lavoro e dunque sulla sua capacità di riempire spazi pubblici di partecipazione democratica.
A mio avviso si dovrebbe partire già dal titolo, laddove si parla di “innovazione del lavoro”: è forse necessario interrogarsi preliminarmente su cosa si intenda per innovazione. È un modo per dire che con questo accordo si vuole condurre il lavoro pubblico, dai sottoscrittori associato attualmente a modelli obsoleti e fatiscenti, a nuovi lidi animati invece da una presunta idea di progresso?
Forse è proprio questo che i firmatari intendono e si comprenderebbe dunque cosa vogliono significare quando scrivono che desiderano «attenuare le disparità storiche, il dualismo tra settore pubblico e settore privato»: della loro idea di progresso nel lavoro privato abbiamo purtroppo un’immagine decisamente nitida e ci ricorda i contenuti di questo accordo.
Sulle attuali condizioni del mondo del lavoro privato (italiano ed europeo) abbiamo scritto tantissime volte, citando a iosa le innumerevoli riforme succedutesi e che altro non hanno fatto se non produrre un incremento esponenziale del livello di precarietà del e nel mondo del lavoro. Come pure abbiamo tante e tante volte avuto modo di riflettere sull’impatto che tale precarietà ha rivestito nelle dinamiche di potere interne al Paese, tutte indirizzate a un indebolimento delle fasce subalterne della popolazione, già fragili per loro stessa natura.
L’accordo pare evidentemente voler indirizzare il mondo della pubblica amministrazione sugli stessi identici sentieri: sentieri pericolosi, caratterizzati dal dominio dei forti sui deboli, dal silenzio lugubre di quelle urla rivendicative che non godono delle tutele minime necessarie al loro lancio.
Ripercorriamo alcune parole chiave contenute nel testo.
Si parla di flessibilità e lo si fa ampiamente: di una «flessibilità che riguarda tre variabili: lavoro (…), organizzazione e tecnologia. Flessibilità organizzativa vuol dire avere una organizzazione duttile, capace di adattarsi alle esigenze dei cittadini e delle imprese con rapidità».
Non è una bella parola e in passato si è quantomeno qualche volta accompagnata al tema della sicurezza sociale, che – manco a precisarlo – in questo caso non viene citata nemmeno una volta.
Si diceva, tempo fa (ai tempi del “Pacchetto Treu” e della “Legge Biagi”, ad esempio), di voler mettere assieme i due termini: flexicurity la chiamavano. Una bufala, una polpetta avvelenata data in pasto all’opinione pubblica per illuderla: delle due, è infatti rimasta solo la flessibilità, che da sola altro non è che precarietà. È sotto gli occhi di tutti.
Flessibilità, appunto, che debba evidentemente riguardare anche lo smart working. Pure in merito al lavoro agile siamo più volte intervenuti e di recente indicando come le lacune riguardanti le tutele della persona sono risultate evidenti nel ricorso generalizzato a questa modalità di prestazione lavorativa. Proprio in relazione a ciò diviene assolutamente imprescindibile la realizzazione di un impianto normativo solido e di protezione. Inutile dirlo, nessuna sorpresa in effetti, l’accordo di cui parliamo indica una direzione praticamente opposta, auspicando «linee di intervento sul lavoro agile (smartworking) [che evitino] una iper-regolamentazione legislativa» (iper-regolamentazione sta – potete scommetterci – per “diritti dei lavoratori”).
Che ad animare i sottoscrittori dell’accordo non vi sia la volontà di mettere al centro i lavoratori, le donne e gli uomini della pubblica amministrazione, è palese: dopotutto lo si dice a chiare lettere che si voglia ottenere una «valutazione oggettiva della produttività e la sua valorizzazione economica e professionale». È appunto la produttività un’altra delle parole a spiccare con maggior evidenza nel testo, accompagnata dalla ricerca ossessiva di una disciplina «che favorisca la produttività e l’orientamento ai risultati».
Non le persone al centro, quindi, ma esigenze di business in senso lato e di produttività, appunto.
Solo il tempo potrà dire chi ha ragione e chi ha torto, ma penso sia già all’orizzonte anche una decrescita della ricchezza nelle mani del mondo del lavoro. Chi si occupa di lavoro e diritti viene attraversato da un brivido sudato quando legge che le parti ravvisano la «necessità di implementare gli istituti di welfare contrattuale, (…), estendendo anche ai comparti del pubblico impiego le agevolazioni fiscali previste per i settori privati a tali fini».
È davvero impressionante la leggerezza con la quale si mette nero su bianco l’intenzione di costringere lo Stato ad arretrare persino dal terreno di protezione di coloro i quali prestino per esso la propria opera, il proprio impegno, la propria vita. Come pure è ormai consegnato alla storia cosa abbia voluto dire, per il privato, il ricorso al welfare aziendale e alla defiscalizzazione dei premi: contrazione delle retribuzioni e vantaggi fiscali per le grandi aziende. Lo sanno pure i sassi.
Sul fatto che poi nell’art. 36 della Costituzione il concetto di “premio” non venga citato, stendiamo un velo pietoso: si cerca di inculcare, subdolamente ma non meno violentemente, una involuzione culturale per la quale non è più di “retribuzione” (dovuta e di diritto) che si debba campare, ma di “premi” (eventuali e legati al buon cuore della grande azienda multinazionale o, follia pura, della pubblica amministrazione per la quale lavori).
Dulcis in fundo, nessuna sorpresa nel leggere che «il Governo, previo confronto, individuerà le misure legislative utili a valorizzare il ruolo della contrattazione decentrata». La forza dei lavoratori, in moltissimi casi, è stata alimentata dal loro numero, dalla loro capacità di riempire le piazza e di farsi notare da tutto il mondo: decentrare la contrattazione, perimetrare al minimo i contorni del confronto, significa ridurre la forza contrattuale (già ampiamente compromessa) del fronte del lavoro.
Dopotutto, nessuna sorpresa: fu proprio Draghi a ordinare (con la famosissima lettera del 2011) a Berlusconi di individuare nuove regole per la contrattazione aziendale nel settore privato. Berlusconi obbedì e nell’agosto di quell’anno venne alla luce il “Decreto Sacconi”, che consentiva alla contrattazione decentrata di andare in deroga (in peggio), non solo ai contratti collettivi, ma persino a previsioni di legge. Quel decreto ha costituito la base legale per molte tragedie del mondo del lavoro nel nostro Paese: una delle più note è quella che ha riguardato Almaviva.
Quando qualche sera fa ascoltavo Beppe Severgnini dire dalla Gruber che nel nostro Paese abbiamo disperato bisogno di una sinistra e di una destra liberali non riuscivo a trovare le parole per commentare: mi sono limitato a balbettare e a domandare a me stesso come si possa affermare una cosa del genere senza che nessuno alzi il dito e dica qualcosa, qualcosa di sinistra (socialista). Era presente Gad Lerner e non mi ha sorpreso il fatto che abbia taciuto.
Eppure sarebbe bastato così poco: non era liberale il governo di chi, a sinistra, ha privatizzato il nostro patrimonio pubblico? Non era liberale il governo di chi, a sinistra, ha varato norme come quelle della liberalizzazione del controllo a distanza, del demansionamento, e ha abolito la reintegra in caso di licenziamento illegittimo? Non era liberale il governo di chi, a sinistra, ha legalizzato completamente il ricorso ai contratti atipici, compreso il lavoro interinale? Non era liberale il governo di chi, a destra, assai più comprensibilmente (proprio perché di destra) ha provato a fare le stesse identiche cose, riuscendo peraltro a realizzarne molte meno?
Forse non è di pensiero e politica liberali che abbiamo bisogno: non si deve ad esempio dimenticare che quell’accordo sia stato firmato, e da sindacalista fa malissimo doverlo ammettere, dalle più grandi organizzazioni sindacali del nostro Paese, compresa quella che dovrebbe richiamarsi al mondo della sinistra, la CGIL, dimostrando come la crisi politica nel nostro Paese sia ampia e grave e come comprenda evidentemente anche ampia parte del mondo della rappresentanza dei lavoratori.
Abbiamo bisogno di qualcos’altro: abbiamo bisogno di forze nuove, coraggiose, autorevoli. Abbiamo bisogno di donne e di uomini seri e solidali, cha abbiano la voglia di agire tenendo sempre a mente i contenuti della nostra Costituzione, che vogliano mettere al centro la persona e la sua dignità, che intendano ostinatamente perseguire obiettivi di equità, che osino realizzare un progetto di stato sociale, attraverso strumenti di sovranità democratica.
È di questo che abbiamo bisogno perché i lavoratori sono soli e il pericolo è imminente, più minaccioso che mai.