Nei 40 anni di egemonia neoliberista si sono acuite le diseguaglianze economiche e sociali che sono diventate un problema anche per la tenuta del capitale. Non a caso si parla genericamente di diseguaglianze quasi per attenuarne la natura economica e sociale dimenticando invece la povertà.

Non avevamo certo dubbi sulla natura di classe del governo Draghi e sulla sua azione in linea con i dettami della Bce e degli Usa. La rassegna potrebbe essere sterminata, non ultimo l’incremento delle vendite di armi in sinergia con le multinazionali Usa ed europee. Draghi si era impegnato espressamente a non ampliare la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza rimettendo mano alla previdenza ed eliminando come atto iniziale del percorso la quota 100. Sostanzialmente andiamo verso il progressivo ridimensionamento del welfare, anzi verso una sua ridefinizione a favore delle cosiddette politiche attive del lavoro.

Quando si parla di diseguaglianze non mettiamo mai sotto accusa la natura economica e le conseguenze sociali delle stesse. I diritti sociali sono pressoché dimenticati e posti in subordine ai diritti civili, alla parità di genere, al principio delle pari opportunità, pur inderogabili. Ma così operando permangono le condizioni di sfruttamento e di miseria di ampi settori della popolazione italiana.

Nell’anno e mezzo o quasi di pandemia sono aumentate le diseguaglianze anche all’interno del mondo del lavoro; diseguaglianze tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori precari e a tempo indeterminato, tra italiani e stranieri, tra lavoratori pubblici e privati. Statisticamente è la forza lavoro immigrata e precaria ad avere perso più lavoro, a subire i contagi (la diffusione massima è nelle case popolari). Sono queste le figure sociali che hanno subito il deterioramento delle condizioni di vita, senza dimenticare la proletarizzazione di parte di quel ceto medio che ha dovuto chiudere le attività lavorative per mesi ricevendo in cambio pochi e insufficienti sussidi.

Alcuni autori e analisti socialdemocratici da anni denunciano il potenziale effetto devastante delle diseguaglianze sulla stessa tenuta sistemica. L’ascensore sociale è fermo da anni soprattutto nei paesi del Sud Europa. Nell’Est si sta facendo strada un polo manifatturiero trainato dalla locomotiva tedesca, che non impedisce tuttavia, se non alimenta, l’acuirsi delle diseguaglianze sociali. Il rapporto centro-periferia andrà riletto in considerazione della pandemia e dei piani di sostegno accordati dalla Ue in cambio di riforme strutturali che mineranno quanto resta della sovranità nazionale.

Le diseguaglianze vanno combattute anche da parte nostra senza dimenticare che il nostro obiettivo non è la tenuta sistemica ma la lotta alla crescente miseria, alla precarizzazione del lavoro e delle esistenze umane, ai processi repressivi del capitalismo della sorveglianza.

La forza lavoro immigrata è passata da 4 milioni e 60mila, autunno 2019, a 3 milioni e 963mila cittadini nel secondo trimestre 2020 stando ai dati forniti da Lavoce.info.

Trattasi di lavoratori spesso a tempo determinato e/o con contratti precari non confermati in tempi pandemici.

Decine di migliaia di badanti sono a casa in attesa che venga conclusa la vaccinazione degli anziani, molte delle badanti sono prive di regolare contratto e per questo escluse da ogni forma di assistenza, costrette sovente a fare ritorno nei paesi di origine.

Gli stessi dati sui permessi di soggiorno vedono un sensibile calo degli ingressi per lavoro stagionale, calo pari al 65,1% nel primo semestre 2020 (Istat, 2020).

Il blocco dei licenziamenti è servito per salvaguardare l’occupazione di quanti avevano contratti a tempo indeterminato ma sono mancate tutele effettive per la forza lavoro precaria. Un reddito di inclusione, in questa situazione emergenziale, sarebbe stato di grande aiuto a salvaguardia del potere di acquisto. E adesso anche la forza lavoro a tempo indeterminato, con il ripristino dei licenziamenti collettivi, rischia il licenziamento.

Le disuguaglianze sono cresciute a dismisura in tempi pandemici ma al contempo sono venute a galla le contraddizioni reali del nostro paese, con troppi lavoratori precari senza effettive tutele. Invece di accordare un reddito di inclusione la scelta del governo Draghi è quella di andare verso misure di sostegno alle politiche attive del lavoro, in genere funzionali alla frammentazione della classe lavoratrice e all’esclusione del lavoro stabile, senza mai rimettere in discussione la natura precaria dell’occupazione italiana, quella precarietà alimentata dalla campagna per la riduzione del costo del lavoro che ha sancito l’innalzamento dell’età pensionabile, la soppressione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e processi di delocalizzazione produttiva, senza investimenti effettivi nell’ammodernamento delle realtà produttive e nella formazione.

Cosa è accaduto nel nostro paese dalla metà degli anni Ottanta alla fine del 2019?

Lo facciamo dire direttamente dagli economisti liberal della Voce.info.

“Lo 0,1% più ricco ha visto raddoppiare la sua ricchezza netta media reale (da 7,6 milioni di euro a 15,8 milioni di euro ai prezzi del 2016), facendo raddoppiare la sua quota dal 5,5 al 9,3%. Al contrario, il 50% più povero controllava l’11,7% della ricchezza totale nel 1995, e il 3,5 nel 2016 (Figura 1a); ciò corrisponde a un calo dell’80% della sua ricchezza netta media (da 27mila a 7mila euro ai prezzi 2016). Nel 1995, la quota del 40% medio era molto simile a quella del 10% superiore, ma è invece diminuita nel tempo di quasi 5 punti percentuali (Figura 1b) [1]. La quota spettante al top 0,01% (i 5mila adulti più ricchi) è quasi triplicata, passando dall’1,8 al 5%.”

Iniziamo quindi a ragionare di un reddito di inclusione o della riforma del welfare in termini non ideologici senza pensare che il reddito sia da contrapporre al salario. Non cadiamo nella logica astratta e accademica di una ricerca intellettuale per far fronte alla miseria crescente e alla tenuta del sistema capitalistico. La discussione deve riguardare i meccanismi di impoverimento della classe lavoratrice e della proletarizzazione del ceto medio, elementi senza i quali sarà difficile anche comprendere le direttive economiche e sociali dei prossimi mesi. A prescindere dalle opzioni strategiche in tema di scelta fra riduzione dell’orario di lavoro e reddito di inclusione, il dato dell’eccezionale perdita di mezzi di sostentamento di larghi strati di proletariato e di ceto medio non consente di accantonare la questione del sostegno agli strati più impoveriti dalla crisi.

Note: 

[1] Chi è interessato può vedere qui i due grafici (1.2 e 2.2) con didascalie interattive.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/lotta-alle-diseguaglianze-o-lotta-alla-povert%c3%a0

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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