Cosa resta dell’impero americano, dell’immobilismo europeo, della sinistra USA, del trauma degli attentati, di Genova, del ritiro dall’Afghanistan, della necessità di un patto multiculturale non xenofobico. Una chiacchierata a tutto tondo con la filosofa e giornalista Ida Dominijanni, per interpretare questa fase di crisi rileggendo gli ultimi vent’anni di storia
Luca Peretti
Un archivio, un diario, una raccolta, un pezzo di un percorso personale e collettivo. È tante cose il nuovo libro di Ida Dominijanni, 2001. Un archivio. L’11 settembre, la war on terror, la caccia ai virus (Manifestolibri). Un libro con una limitazione temporale precisa (2001-2008) ma che deborda, sfilacciandosi, partendo (almeno) da prima dell’11 settembre, e cioè da Genova e dintorni, e arrivando (almeno) fino ai nostri giorni, alla nostra contemporaneità pandemica. Secondo un principio per cui per capire uno snodo storico – in questo caso l’11 settembre e le sue conseguenze – bisogna partire da prima e arrivare dopo, vivisezionarlo nelle sue varie sfaccettature e possibili temporalità.
Dominijanni ha lavorato fino al 2012 a “il manifesto”, ma è stata ed è attiva anche in ambito accademico. Da questi punti di vista, quello della notista politica e della filosofa, Dominijanni ripensa allo snodo politico e sociale seguito a quell’estate di venti anni fa. Il libro è composto da interviste a intellettuali italiani e no e da articoli pubblicati per la rubrica Politica o quasi che Dominijanni teneva sul quotidiano comunista – la stragrande maggioranza dei testi ripubblicati arriva infatti da “il manifesto”.
È questa molteplicità di voci uno dei motivi di interesse del libro: si leggono le parole di alcune delle e degli intellettuali più influenti di questo quinto di secolo Duemila, come Étienne Balibar, Toni Negri, Slavoj Žižek, Homi Bhabha, Judith Butler e di altri magari più noti in ambito accademico ma non per questo meno interessanti, come Paul Gilroy, Victoria De Grazia, Elena Paciotti. A questo si uniscono le pagine del “diario” di Dominijanni, articoli che accompagnano la fase 2001-2008. L’abbiamo intervistata a partire da questo volume ma la conversazione ha abbracciato diversi argomenti, spaziando su entrambe i lati dell’Oceano Atlantico e interrogando il presente oltre che i venti anni passati.
Il tuo libro parte da Genova, o meglio costruisci una coppia Genova-New York che mi pare strutturi il tuo libro, che sia cioè un inquadramento operato da te più che dagli intervistati o anche dai tuoi commenti dell’epoca. Come hai pensato a questa coppia retrospettivamente e come si legano dunque Genova e l’11 settembre?
Il ventennale di Genova è stato un ventennale ricco, prolifico, ma sono stupita di quanto sia mancata una discussione sulla continuità dei due eventi. Secondo me questa continuità è importantissima. Nella mia testa sono sempre stati due eventi legati, ma non nel modo in cui li ha legati un certo pensiero di destra, conservatore, reazionario che ha visto Genova come un’anticipazione dell’11 settembre (nel senso proprio di una volontà distruttiva dei contestatori, assimilandoli ad Al Qaeda). Piuttosto sono due eventi rivelatori della globalizzazione: Genova è il primo movimento globale contro il potere imperiale; l’11 settembre è la manifestazione di quello che io chiamo nel libro la nuova spazialità globale, un mondo senza un dentro e fuori e con contraddizioni nuove rispetto a quelle tradizionali della spazialità politica moderna ritagliata sullo stato nazione e sul mondo bipolare novecentesco. Secondo c’è un isomorfismo tra i due eventi, anche se sono naturalmente imparagonabili.
C’è poi un altro fatto, che secondo me è emerso poco nel ventennale di Genova. Ci si è chiesti molto da cosa è stato sconfitto quel movimento, da chi, come. La tesi della repressione che avrebbe distrutto un movimento che invece avrebbe rivitalizzato la democrazia e i partiti (che si trovava per esempio su “L’Espresso”) è una tesi solo parzialmente vera: secondo me il movimento di Genova è stato sconfitto soprattutto dall’11 settembre, nel senso che questo non ha dato la possibilità di riflettere e rielaborare quello che era successo a Genova.
Una mancanza di rielaborazione insomma…
Sì, è stato poi difficile continuare a esistere come movimento diciamo “anti-impero”, e cioè contro gli Stati Uniti – visto che c’era una forte componente di antiamericanismo – quando il tuo avversario diventa l’elemento vulnerato e vulnerabile. Da questo punto di vista il terrorismo impedisce sempre ai movimenti di crescere, perché sottrae spazio alla contestazione. Il terrorismo è un grande nemico dei movimenti.
Quando parlavo di isoformismo intendevo anche un’altra cosa. Senza fare paragoni assurdi come quello accusatorio della destra, a Genova era venuto fuori un livello di confronto ravvicinato e di scontro tra due soggetti politici nuovi rispetto al passato, così come sono nuovi quelli che emergono rispetto all’11 settembre: cioè una forma imperiale del potere da una parte e un movimento globale dall’altra (a Genova), mentre con l’11 settembre i due soggetti diventano un attacco virale e un potere imperiale. È un cambiamento grande di soggettività politica.
(Gabrio Mucchi)
Rispetto a questo, trovo sbagliata la tesi che i movimenti rigenerino la rappresentanza, lo era anche negli anni Settanta, ma a maggior ragione il movimento di Genova, soprattutto in alcune componenti, era un movimento antirappresentativo. Non è affatto detto che se fosse stato meno represso avrebbe rivitalizzato la classe dirigente e politica di questo paese, è una lettura molto scontata, banale e progressista. A Genova ho sentito un movimento nato e cresciuto proprio prescindendo dalla rappresentanza, neanche contro, era proprio un’altra cosa, non era la Nuova Sinistra degli anni Settanta.
Mentre tu sostieni che gli USA hanno reagito meglio all’11 settembre di quanto fatto dall’Europa ed Étienne Balibar ti diceva che l’Europa era «parte del problema, non la soluzione», l’opzione europea (chiamiamola così) sembrava concreta. In alcuni tuoi intervistati emerge una certa fiducia nell’Europa. Addirittura quando chiedi a Žižek cosa resta, lui ti risponde «l’Europa» e parla di modello europeo. Non mi pare sia invecchiata bene questa fiducia verso l’Europa…
Io contestavo già all’epoca questo ottimismo europeista, che era molto diffuso, un po’ un antiamericanismo “buono”, della sinistra (anche moderata): l’idea che loro stanno distruggendo lo stato di diritto, ma questo in Europa non potrebbe mai succedere, è la culla dello stato di diritto, è la regione in cui è vero che ci sono state le guerre di civili, quelle di religione, ma è anche la regione che ha poi imparato a dare una forma giuridica a questi conflitti e a lasciarseli alle spalle.
A me è sempre sembrata una lettura ottimistica: intanto io penso che le due sponde si assomiglino, sono insieme simili e diverse, le differenze sono più complicate di così. E poi perché il processo di costruzione europea languiva: quelli sono gli anni in cui viene sconfitta la bozza di Costituzione europea, il referendum in Francia contro il trattato è del 2005. Insomma, questo processo di costruzione europea non mi pare stesse trionfando. E poi perché i due modelli di integrazione multiculturale, e cioè quello comunitarista americano e quello assimilazionista francese, erano palesemente tutti e due in crisi…
Lo si è visto negli anni successivi, con le rivolte nelle banlieue prima e Black Lives Matter poi…
Esattamente. Va detta un’altra cosa su questo. La grande stampa mainstream capisce solo quando si vede che i terroristi sono prodotti in casa che il terrorismo non è un alieno, ma un prodotto di quella spazialità interna-esterna che dicevo prima. Su Bin Laden si poteva fare il giochino che era un alieno che veniva dall’arretratezza mediorientale, che era un residuo premoderno, ma questo non è stato più possibile quando poi è scoppiato il terrorismo in Europa per mano di kamikaze nati e cresciuti in Europa e talvolta anche cittadini europei.
Sì, tra l’altro, il giochino era già fallace visto che gli attentatori dell’11 settembre avevano imparato a pilotare in USA…
Assolutamente, di questo parlo nell’introduzione, è solo stato più evidente dopo.
Leggendo il tuo libro mi sono chiesto molto non solo che evento è stato l’11 settembre (su questo c’è una riflessione filosofica importante che riprendi nel testo), ma che trauma è stato per la società statunitense, alle prese con una endless war probabilmente non finita davvero neppure tre settimane fa. Cosa succede in questi venti anni a una società fortemente militarizzata che crea costantemente nuovi traumi, nuovi nemici, alla ricerca di una nuova guerra…
L’intervista che c’è nel libro a Mary Marshall Clark, la docente di Columbia che ha messo in piedi il progetto di storia orale sulla memoria dell’11 settembre, mi viene incontro per quella che in quel momento è stata una scommessa, per me e per il pensiero femminista (anche Butler tra l’altro parte da questo): e cioè che quel trauma abbia potuto scavare inconsciamente anche un’altra strada rispetto alla ripetizione di quel dispositivo che dici tu e che certamente è quello predominante negli Stati Uniti, e che ha funzionato anche dopo l’11 settembre. La scommessa è che non ci sarebbe stato solo questo, ma anche uno scavo nell’inconscio americano. Io credo che alla lunga questo sia vero.
Pensiamo alle lacrime di Biden di alcuni giorni fa in diretta TV, al di là del fatto spettacolare che magari gli è stato suggerito dagli spin doctor (non lo so, a me sembrava sincero), però mi pare che alla lunga questo sentimento di una potenza lesionata in maniera irrimediabile si sia fatto un po’ strada e che quindi la percezione che c’è adesso, naturalmente non nella società americana totale ma in alcune parti, è che l’America sia stanca di guerra… questa popolazione di reduci, che non hanno le gambe, che non hanno la pensione, sono tutti in stato post-traumatico, non hanno lavoro, sono alcolisti, è qualcosa che lì non si regge più e che ha dato la spinta a Biden per questa ritirata dall’Afghanistan.
(da Flickr)
Ho l’impressione che il senso di onnipotenza sia stato lesionato. Sarà la spettacolarità, l’aver attaccato proprio New York in modo così centrato e centrale, l’aver colpito l’immaginario americano.
Io sono assolutamente d’accordo che siano stanchi, pensiamo per esempio a quanti homeless siano ex soldati nonostante tutta la retorica gloriosa sui reduci che non vengono mai lasciati soli, al tempo stesso non vedo e non capisco come la società statunitensi si stia re-immaginando per diventare qualcosa di diverso…
Questo non lo vedo neanche io.
Mi pare decisivo questo punto, visto che già sono chiaramente un paese in crisi di identità, non si capisce in che direzione possono andare se smettono di essere un paese di guerre, traumi, ricerca del nemico, militarizzazione. Sarà molto importante provare a capirlo nei prossimi anni…
È molto importante per loro ma è anche molto importante per il resto del mondo. Un primo termometro è quello dalle reazioni che ci sono state per questo ritiro, e come al solito quello che colpisce di più sono le reazioni di chi ci sta intorno, quindi della sinistra, che dopo aver detto per decenni che gli Stati Uniti non dovevano fare il gendarme del mondo ora che (forse) smettono di farlo si allarma moltissimo e comincia ad attaccare perché non lo fa più. Insomma è tutto l’immaginario geopolitico mondiale che deve fare i conti con questa novità, che è una novità enorme.
Posso sbagliare, ma lo scenario che apre questo ritiro dall’Afghanistan è uno scenario molto nuovo, esattamente perché non c’è più l’elemento certo della superpotenza americana. Poi può darsi che in realtà si riconfermi, non escludo affatto infatti una ripresa della lotta al terrorismo, che è ancora attiva in un numero enorme di paesi, più di quaranta, interessati ancora dalla War on Terror. Ma poi se in Afghanistan o dall’Afghanistan ripartono attentati terroristi è probabile che riprenda anche la reazione. Però mi ha colpito che, in una delle interviste che feci, Giacomo Marramao, affermi che può darsi che ci sarà un cambiamento di colore, di pigmentazione della società americana (non nel senso della razza ma politico), cioè che prevalga una californizzazione dell’America, una non passione per la guerra, la fine dell’identificazione nel nazionalismo, nel nichilismo nazionale, nell’immaginario che all’interno è stato quello del Far West e che all’esterno ha portato alle guerre. E questo un po’ mi pare che forse un po’ stia accadendo, almeno nell’America blu, quella delle coste.
Però credo che il trauma dell’11 settembre qualcosa abbia aperto, magari qualcosa di non razionalizzato, di non implicito, che però a distanza di venti anni si comincia a vedere che forse ha intaccato qualcosa.
Avevo rimosso che tra le vittime dell’11 settembre c’erano persone di 65 nazionalità diverse. Mi pare che questo discorso non rientri mai e per niente nel modo in cui gli USA ricordano quell’evento, sono tutti americani e basta…
Questo è stato l’equivoco di partenza di questa storia: la riduzione delle vittime dell’attentato alla vittimizzazione della nazione americana. Il primo gesto fallace da cui tutti gli altri sono derivati. E questo va avanti ancora oggi. Guardando un po’ di questi speciali in Italia sull’11 settembre, più che negli Stati Uniti dove come al solito nel dibattito pubblico c’è il peggio e c’è il meglio, il canovaccio del ventennale è sempre lo stesso: vittimizzazione degli Stati Uniti e localizzazione dell’evento, quindi a essere colpiti sono Manhattan, New York, gli americani, la nazione americana, perdendo di vista come a essere colpita era proprio la globalizzazione del lavoro, viste molte nazionalità e non so quante etnie colpite.
Un equivoco di partenza, perché se lo analizza così si legittima la revanche americana – se è solo un attacco all’America ecco che si capisce la risposta. Se invece lo si analizza come un evento rivelatore del globale, allora vien fuori tutta un’altra interpretazione: la vittima principale è l’America ma non in quanto nazione americana ma in quanto vertice di quello che abbiamo chiamato impero, nella sua costituzione moltitudinaria e multirazziale.
Non è forse in caso che il Presidente che più negli ultimi anni ha puntato su un’America bianca, monorazziale, cioè naturalmente Donald J. Trump, non sia interessato al ventennale dell’11 settembre, ma abbia passato la giornata di sabato a commentare un incontro semiprofessionistico di boxe con il figlio, disertando tutte le celebrazioni ufficiali…
Beh, lui aveva risolto la contraddizione in partenza. Infatti scrivo che le radici lontane del trumpismo sono nella reazione nazionalista all’11 settembre. È la matrice del sovranismo successivo, naturalmente con dei cambiamenti di paradigma, perché il trumpismo non è il neoconservatorismo dei falchi dell’amministrazione Bush figlio. Però c’è un filo di continuità.
Sei molto attenta a quello che succede nella sinistra USA, nel libro chiedi spesso alle persone che intervisti di raccontarti cosa succede nelle piazze e nei campus. Su questo mi pare interessante la fine della tua intervista a Victoria De Grazia, storica statunitense autrice tra gli altri di un volume fondamentale sulla penetrazione culturale americana in Europa (L’impero irresistibile): «l’intellettualità radical, con la sua formazione prevalentemente umanistica, si è concentrata molto sui temi della cultura, dell’immaginario e dell’immateriale e troppo poco sull’analisi dei poteri, degli armamenti e dell’economia dopo la Guerra fredda. Che intanto si ristrutturavano, e adesso si vede» (p. 133). Mi pare una critica che, in forme diverse, vediamo anche oggi. Diciotto anni dopo che ne pensi? Ti pare sia questo il o un problema?
Colpì anche me perché arrivata da lei e non da una materialista volgare, diciamo così. Ora è vero che questa critica arriva oggi spesso da destra, è Giorgia Meloni che rimprovera la sinistra di aver abbandonato la questione sociale. È però in qualche modo una critica legittima alle sinistre moderate e in questo momento secondo me, però posso sbagliare, è più vera in Europa che negli Stati Uniti. Mi pare che negli Stati Uniti infatti una coalizione sociale e politica più adeguata alla costruzione di un discorso sia sociale che culturale si sia formata contro Trump, a partire da Black Lives Matter e dal femminismo intersezionale.
(da archivio)
Forse c’è più vivacità lì che in Europa. Continuo infatti a pensare che bene e nel male, gli Stati Uniti abbiano sperimentato delle risposte in questo ventennio più che in Europa, che mi sembra molto immobile, avendo prodotto di significativo solo populismi di destra.
Non so se forse stiamo assistendo, più che alla fine dell’impero americano, alla definitiva crisi di quello europeo…
In realtà il ritiro dall’Afghanistan è una forte batosta per l’Occidente tutto e la realizzazione dell’ideologia jihadista, che su questo aveva puntato – visto che lo scontro di civiltà erano in due a farlo. Hanno sferrato un colpo all’Occidente. Dopodiché l’Europa reagisce dicendo forse ci serve un esercito comune di difesa, ma non mi pare proprio questo il punto, ci servirebbe una politica estera, un patto multiculturale non xenofobico che non si terrorizza perché arrivano gli afghani (o i libici, i siriani e via dicendo), invece su questo non c’è niente di nuovo, neanche dal basso.