Sebbene l’attuale numero degli scioperi sia limitato in confronto a quello degli anni ’40, quando negli Stati Uniti incrociava le braccia in media un lavoratore su dieci in un anno, il numero di lavoratori in sciopero nel paese è il più alto dagli anni ’80.
I salariati americani stanno mostrando i muscoli per la prima volta da molti decenni e si potrebbe dire che, anche se non lo hanno dichiarato apertamente, nei fatti hanno dato vita a uno sciopero generale nazionale per ottenere salari e condizioni di lavoro migliori. Durante la pandemia milioni di lavoratori sono stati chiamati a fare enormi sacrifici, ora cominciano a chiedere il conto.
Tutto ciò avviene nonostante la crisi del sindacato. L’appartenenza sindacale negli Stati Uniti è ai minimi storici: meno del 7% dei lavoratori del settore privato è iscritto, la metà rispetto ai primi anni ’80. Il conflitto in atto non è solo con i datori di lavoro, ma anche con le dirigenze sindacali, ritenute troppo moderate e compromesse con il sistema dell’1%.
I media mainstream stanno dando risalto al fenomeno e raccontano di una generalizzazione degli scioperi un po’ in tutto il paese: sembra che nel mese di ottobre più di 100.000 lavoratori abbiano partecipato a scioperi o si siano preparati a farli. Secondo The Guardian, a marzo 800 infermieri dell’ospedale St Vincent in Massachusetts hanno scioperato; ad aprile, 1.100 minatori di carbone in Alabama hanno incrociato le braccia. A luglio, gli operai della fabbrica Frito-Lay hanno scioperato, ad agosto è stato il turno degli stabilimenti di Nabisco e, questo mese, di quello dei 1.400 operai degli stabilimenti di Kellogg’s. A metà ottobre 10.000 lavoratori di John Deere, storico produttore di macchine agricole, hanno iniziato uno sciopero, e altri 60.000 del settore del cinema e della televisione, iscritti al sindacato International Alliance of Theatrical Stage Employees (IATSE), hanno minacciato di farlo: un’azione sindacale che si è conclusa con un accordo provvisorio con un’associazione di produttori di Hollywood in rappresentanza di aziende come Walt Disney, Netflix e Amazon.
Operatori sanitari, operai di fabbrica, lavoratori dei fast food, minatori, autisti di autobus stanno facendo sentire la propria forza, vogliono salari più alti e orari meno disumani, e cominciano a riconoscersi come classe e non come un insieme scoordinato di atomi sociali. Hanno dalla loro un potere di ricatto maggiore, dato che con la ripresa dei consumi dopo la fine dei lockdown è aumentata anche la richiesta di forza-lavoro. Gli imprenditori lamentano la mancanza di personale disposto a lavorare e individuano come causa gli aiuti governativi, i sindacati invece denunciano salari ancora troppo bassi e pessime condizioni di lavoro.
Molti di coloro che hanno perso l’occupazione a causa della pandemia si rifiutano di tornare ad impieghi con bassi salari e turni massacranti. Il Washington Post ha definito il fenomeno “Great Resignation”. Il Dipartimento del Lavoro americano ha dichiarato che circa 4,3 milioni di persone hanno lasciato il lavoro nel mese di agosto. Si tratta di circa il 2,9% della forza-lavoro statunitense, e il dato è in aumento rispetto al precedente record stabilito ad aprile con circa 4 milioni di persone che avevano smesso volontariamente di lavorare. In tutto, partendo da aprile, sono 20 milioni i lavoratori ad aver abbandonato il proprio impiego. I settori più colpiti sono quelli della vendita al dettaglio e dell’hospitality.
Si tratta di una vera e propria disaffezione al lavoro dovuta all’esaurimento fisico e mentale. Come nota il Corriere della Sera in un articolo del 18 ottobre sulle dimissioni post Covid, “ci si licenzia, in breve, per cercare qualcosa di meglio senza accontentarsi dello stipendio a fine mese. Tempo libero e benessere sembrano battere la mera ragione economica”.
Anche in Cina si è sviluppato un fenomeno simile, si chiama “tangping” (stare sdraiati). La “fabbrica del mondo” sta assistendo alla propria versione di “Great Resignation”, con una generazione di giovani proletari disillusi dalle prospettive lavorative e scoraggiati dai salari bassi. Le autorità di Pechino registrano una crescente carenza di lavoratori qualificati e tengono d’occhio con preoccupazione questa resistenza passiva ai ritmi sfrenati della vita lavorativa.
Scioperare e rifiutare il lavoro, soprattutto quello massacrante e sottopagato, fa certamente bene alla salute individuale e collettiva. E’ un primo passo, ma non basta. Ciò che manca, e di cui c’è bisogno, è il coordinamento internazionale dei lavoratori, una rete di classe che abbia come obiettivo non tanto la pratica della rivendicazione (tanto cara ai sindacalisti), quanto la lotta contro il sistema del lavoro salariato, perché “i proletari, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro.”