Va riconosciuto che la tattica di Draghi per limitare tanto lo sciopero generale, magari pure riuscire a bloccarlo, e comunque attutirne l’impatto nei confronti della manovra di bilancio in discussione al Senato della Repubblica, è sottile e, proprio per questo, infida e pericolosa.
Da un lato si appella all’autorità garante per enunciare tutta una serie di contravvenzioni che creerebbero un disagio sociale inaccettabile; dall’altro interviene proprio nel merito della legge finanziaria per rimpinguare la voce che riguarda il “caro bollette“, sottraendo ai capitoli del 2022 che riguardano l’acquisto dei vaccini e farmaci per contrastare il Covid-19 (meno 1,85 miliardi di euro); decurtando 1,4 miliardi destinati alle infrastrutture ferroviarie.
Ci sono poi, nella composizione di questi 3,8 miliardi, pure 49 milioni messi a bilancio per sostenere i compiti delle forze dell’ordine nella lotta contro il virus.
Separate in casa le mosse dell’esecutivo per prevenire la mobilitazione sindacale, sociale e di larghissima parte del mondo del lavoro, parrebbero pure argomentazioni e interventi politici degni di una qualche nota. Chi non applaudirebbe ad un governo che decide di aumentare la spesa per la diminuzione di quei paventati 1.200 euro a famiglia dovuti dall’incremento del costo delle materie prime per la distribuzione dell’energia elettrica e del gas?
Ma i punti contraddittori sono due e non sono nemmeno così microscopici come potrebbero invece apparire a prima vista: Draghi ha dichiarato che il tempo della mediazione con i sindacati era finito e, infatti, si è mosso con i suoi ministri senza consultare CGIL e UIL (per la CISL il discorso, come è evidente, è un po’ a parte…) sulle modifiche apportate al testo della legge di bilancio attualmente in discussione nella Camera Alta; in secundis, sempre il Presidente del Consiglio ha disposto una ricerca di quei miliardi che mancavano alla copertura del rincaro delle bollette tagliando altri capitoli di spesa e facendolo nella prospettiva di un 2022 in cui gli interventi saranno corposi e si potranno nascondere eventuali “piccole” manchevolezze.
E’ logico tagliare i fondi che erano destinati all’acquisto dei vaccini e di medicinali per la gestione di una pandemia che non accenna a fermarsi? E’ logico tagliare spese destinate ad ammodernare e implementare le reti dei trasporti su rotaia? E’, altresì, logico tagliare fondi alle forze dell’ordine quando si tratta, anche in questo caso, di misure volte al contenimento dell’emergenza sanitaria?
Non sarebbe stato più opportuno, se davvero il governo avesse avuto a cuore la stabilità sociale, andare a trovare quelle risorse mediante l’introduzione di forme di tassazioni progressive, con un prelievo fiscale – pure una tantum! – sui redditi di quella fascia di popolazione che ha entrate a sei cifre nei propri conti correnti? Nessuna patrimoniale, per carità! Non sia mai! Ma, liberalmente parlando, è così improponibile, così indecente, così smaccatamente inopportuno chiedere a chi ha guadagna più di 100.000 euro annui di farsi carico di una parte di quella società indigente per cui 120 euro al mese in più di gas e luce sarebbero devastanti nel magro bilancio familiare?
Evidentemente per un governo liberista come quello di Draghi, sì. La protezione delle grandi concentrazioni di capitali, della grande industria e dell’alta finanza sono le priorità del governo che, infatti, sta gestendo la dislocazione degli oltre 200 miliardi del PNRR in modo tale da garantire al padronato quel retroscena di garanzie pubbliche che gli permettano di speculare privatamente, aumentare i profitti, mantenere al palo i salari: il tutto, si intende, nel nome del “bene del Paese“.
Una retorica insopportabile, che non la si crede più nemmeno quando parla il ministro più a sinistra o meno a destra di tutti (Roberto Speranza), perché vaccini e medicine sono in questo momento importanti tanto quanto le strutture di una sanità pubblica depredata in trent’anni di privatizzazioni selvagge.
Fin qui l’operazione più prettamente politica che Draghi e il governo hanno giocato come trappola per evitare, come si diceva, se non proprio lo sciopero, almeno le sue conseguenze sociali più rilevanti.
Non dimentichiamoci gli aspetti sociologici di una politica italiana riferita costantemente allo “stato di emergenza“: la figura del Presidente del Consiglio è una sorta di icona incensurabile, non criticabile, che di per sé stessa, per una sua dogmatica natura trascendentale, lavora stakanovisticamente per il bene di una Italia che gli indicatori economici guardano con attenzione per quel 6,5% di PIL che prometterebbe magnifiche sorti e progressive.
Una ripresa insperata in un dopo-pandemia ancora rischioso da definire come tale nel quadro odierno. Una ripresa soltanto per il mondo dell’impresa, che si lagna da ben prima del biennio pandemico; che lo fa ancora di più approfittando proprio degli eccessi causati dallo sconvolgimento mondiale sanitario, economico, sociale, ambientale e, pertanto, anche politico.
Lo sciopero generale è insidioso per Draghi anche per questo: rompe quell’unità di consensi, quell’assolutismo etico e civico che porta ben più di metà degli italiani a vedere in SuperMario l’unico cui affidare la guida del Paese. Incensato e venerato a tal punto da mettere in secondo piano aspetti rilevanti dell’equilibrio costituzionale tra i poteri e vagheggiare persino un presidenzialismo mascherato, ibrido, che scuoterebbe l’albero della democrazia, svuotandola ulteriormente dei suoi connotati principali e fondanti la Repubblica stessa.
Le parole di Giorgetti sulla dirigenza del governo dal Colle più alto delle istituzioni riecheggiano ancora oggi in un agone politico in cui, nei giorni della festa dei giovani sovranisti meloniani, tutti vanno ad omaggiare la leader di Fratelli d’Italia per cercare quei voti possibili per allargare ancora di più la maggioranza bulgara che dovrebbe portare Mario Monti al Quirinale. Il patto che Letta vorrebbe siglare pare essere questo: trasloco dell’ex banchiere europeo da Palazzo Chigi al Colle e un governo durevole fino all’autunno del 2022, per evitare di allarmare i parlamentari circa la percezione del vitalizio che, se si sciogliessero le Camere a gennaio o febbraio, rischierebbe davvero di saltare.
Per un partito che si picca ancora di fregiarsi del titolo geopolitico di sinistra (per la verità più che altro attribuitogli da tanti pennivendoli che ne scrivono sia per elogiarlo sia per denigrarlo), andare a mendicare i voti dell’estrema destra parlamentare, mai arrivata a dichiararsi antifascista, è indice di una profonda crisi proprio dei rapporti in seno ad un Parlamento svuotato delle sue funzioni. E’ la percezione che se ne ha leggendo i giornali, guardando i dibattiti televisivi e scegliendo – con cura – le opinioni, anche le più diverse, su Internet: il presenzialismo governativo, con un Draghi che non parla mai se non nelle conferenze stampa ufficiali, è sotto gli occhi di tutti.
Le Camere ratificano, discutono molto poco e quando lo fanno vengono oltrepassate nelle loro funzioni da impellenti decisioni di Palazzo Chigi. Nel nome dell’emergenza sanitaria. Mai nel nome di quella sociale.
Il tentativo del governo di fermare lo sciopero generale non è soltanto il segnale di un malessere istituzionale circoscritto alle dinamiche interne dell’esecutivo o a quelle dei partiti della maggioranza; il pericolo maggiore è quello di una regolamentazione delle funzioni democratiche
Bene hanno dunque fatto CGIL e UIL a confermare lo sciopero generale del 16 dicembre: serve dare una scossa ad una politica imbolsita, attorcigliata sul mito draghiano, che è mito liberista, devozione totale al mercato e alle sue prerogative. Bene farebbero altresì i sindacati a fare una certa autocritica su quella firma del testo di regolamentazione degli scioperi che puntava ipocritamente a disciplinare le manifestazioni di protesta dei lavoratori in contesti di agibilità minima della normale vita quotidiana, ma che nascondeva invece la marginalizzazione dei sindacati autonomi.
Un’arma a doppio taglio che oggi si è rivolta proprio contro coloro che l’avevano troppo disinvoltamente approvata e sottoscritta. I banchieri sono anime rigorose, tutt’altro che candide e utilizzano ogni mezzo a loro disposizione, soprattutto se sono anche presidenti del Consiglio, per arrivare allo scopo che si prefiggono. Avrebbe dovuto essere una lezione imparata da tempo. Un ripassino, in questo caso, il 16 dicembre prossimo sarà davvero utile: per i lavoratori, per i sindacati, per la sinistra inerte e passiva, per quella troppo dinamica e istituzionalmente attiva…
MARCO SFERINI