Dopo una pandemia che ha ampliato le disuguaglianze, una riforma fiscale che favorisce i ricchi dovrebbe essere uno smacco intollerabile per le forze di sinistra che sostengono il governo Draghi. Dovrebbe, per l’appunto.
A cura di Francesco Cancellato
Togliere a chi ha di meno, per dare a chi ha di più.
Sembra uno scherzo, dopo due anni di pandemia, ma è questo quel che succederà con la riforma fiscale del governo Draghi. O, per essere più precisi ancora, con la revisione delle aliquote, degli scaglioni e delle detrazioni dell’imposta sul reddito, altrimenti detta Irpef. Sembra uno scherzo, ma l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che si occupa di valutare l’impatto sui conti pubblici e gli effetti redistribuivi di ogni provvedimento di finanza pubblica non è particolarmente avvezzo agli scherzi: “L’analisi degli effetti distributivi delle modifiche apportate all’Irpef per livelli di reddito conferma sostanzialmente (che) la riduzione di imposta in valore assoluto è maggiore nelle classi di reddito medio-alte, in particolare quelle con un ”reddito imponibile tra i 42.000 e i 54.000 euro (tra i 3.500 e i 4.500 euro mensili)”, si legge nell’analisi dedicata alla riforma. Più nel dettaglio: i dirigenti avranno una riduzione media di imposta di circa 368 euro, più del doppio di quella prevista per gli operai che è di 162 euro.
Rileggetevele bene, queste quattro righe. Perché come voi le leggeranno i parlamentari che dovranno approvare questa riforma. E per quanto sia normale che tra loro ci siano quelli di centrodestra, favorevoli a un regime fiscale ancora più iniquo e a favore dei ricchi come la flat tax ad aliquota unica, meno normale è che questa riforma possa trovare il plauso delle forze appartenenti al cosiddetto centrosinistra, Pd e Movimento Cinque Stelle in primis
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Non lo è, e non lo sarà, perché non ha senso parlare di disuguaglianze a ogni pie sospinto e poi avallare un così smaccato trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto.
Non lo è, perché i più consistenti tagli delle tasse, come da manuale della giustizia sociale, avrebbero dovuto riguardare i redditi medio bassi.
Non lo è, perché pure il beneficio marginale, e gli effetti positivi sull’economia, sarebbero stati maggiori se a beneficiare del taglio fiscale fossero state le classi meno abbienti.
Non lo è, perché i due anni di pandemia hanno aumentato povertà e disuguaglianze, nel mondo così come in Italia, e chi ha progettato la nuova architettura fiscale avrebbe dovuto tenerne conto.
Non lo è, perché anche il valore dei patrimoni finanziari e immobiliari è aumentato a dismisura in questi anni, ma in Italia si parla solo di imposte sui redditi e mai di imposte sui grandi patrimoni.
Non lo è, perché favorire i redditi medio alti vuol dire anche favorire come al solito gli elettori maschi e gli anziani – i cosiddetti “capi famiglia” che già beneficiano di stipendi più alti, posti di lavoro più sicuri e pensioni garantite – a svantaggio di giovani e donne.
Non lo è, in altre parole, perché è una riforma che ammazza la mobilità sociale e che consolida le rendite di posizione. Piuttosto, confidiamo che non lo sia anche per una buona percentuale di parlamentari che si definiscono progressisti. E che per una volta dovrebbero smettere i panni dei responsabili portatori d’acqua di un governo di larghe intese che a volte, troppe volte, fatica a convincerci di non essere di destra. Questa volta, in particolare
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