Uno dei dilemmi più antichi dell’umanità recita: «E’ nato prima l’uovo o la gallina?». Uno dei più attuali dilemmi della politica italiana potrebbe recitare: «E’ nato prima Renzi o il PD?», chiaramente non in chiave strettamente cronologica, ma di reciproco condizionamento, così da intendere la proposizione in questo senso: è Renzi ad essere emerso a prescindere dal PD o è quest’ultimo ad averlo in qualche modo aiutato a prodursi e ad essere ciò che è stato per il centrosinistra e per il governo italiano?
Se storicamente il PD ha una discendenza che – per fortuna – non deriva dal renzismo, è pur vero che questo fenomeno diventa possibile solo dentro ad un partito che eredita culture e partecipazione di massa e che, ad un certo punto della sua involuzione, le mette al servizio di una idea di politica che intende proprio tagliare sia con l’impianto post-ideologico del 1989, sia con la crasi tra socialdemocrazia e cattolicesimo di base e sociale che è alla base del passaggio dai DS – Margherita al Partito democratico veltroniano.
In questa concatenazione di trasformazioni, è evidente che senza Renzi non vi sarebbe nemmeno stato il renzismo. Questo è almeno un punto certo, che non può dare adito ad interpretazioni. Ma il PD di Renzi è possibile solo nella misura in cui il vecchio (si fa per dire…) PD lascia spazio ad un adattamento di sé stesso ad una serie di rapporti di forza esterni che condizionano, vellicandoli, i sogni di gloria di esponenti democratici che nulla hanno a che fare con la radice ex-comunista ed ex-popolare.
La nuova classe dirigente che Renzi costruisce intorno a sé è figlia dei tempi, di una economia liberista che ha soppiantato il liberalismo moderato e condiscendente, che si propone come espressione local-nazionale di una globalizzazione dei mercati aperti alle sfide di una concorrenzialità tra poli capitalisti che innova tanto il mondo delle imprese italiane quanto quello del Vecchio continente.
Il PD di Renzi è una forza di centro maiuscolo cui si tengono abbarbicati scientemente impressioni, valori e concetti che fanno ancora riferimento ad una sinistra moderata, creando così il perfetto sincretismo tra socialità subordinata all’idea economica privata e civilismo messo sotto l’ala protettrice di un residuo progressismo molto poco distinguibile dal resto della disarmante incuria di cultura politica delle forze parlamentari.
Renzi si fa creare dal PD di allora nel nome della “rottamazione” proprio della parte più sociale di un partito che è già molto difficile riconoscere come tale rispetto agli altri partiti che stanno venendo alla ribalta: da un lato c’è la caduta dell’impero berlusconiano e la riorganizzazione del campo delle destre; dall’altro l’emergente impeto del grillismo che si proclama alternativo a tutto e in tutto.
Appena dieci anni dopo questo schema sarà completamente saltato e, pandemia o no, saranno ridefiniti i confini, i perimetri delle coalizioni, smentendo previsioni, scommesse e supposizioni anche molto prudenti sul futuro politico di una Italia che conosce – lo voglia o meno – una nuova rivoluzione del proprio rapporto tra istituzioni e popolazione.
D’Alema, Bersani e gli altri ex-comunisti del PD sono, oggettivamente, l’obiettivo primario della rottamazione renziana. Una operazione che riesce e che, di Leopolda in Leopolda, scalza la vecchia guardia socialdemocratica, marginalizza quella popolare e impone il nuovo “giglio magico“: le parole d’ordine sono, oltre a “rottamazione“, “giovani“, “nuovo“, “modernità“, “compatibilità” e “governo“.
Se con la nascita del PDS si è passati dal comunismo riformatore alla socialdemocrazia riformista, con i Democratici di Sinistra ci si avvicina sempre più ad una idea liberalsocialista per una forza di sinistra moderata che dialoghi con quel centro con cui si stabilirà l’asse portante per la fondazione del PD. E proprio con quest’ultima mutazione genetica si decreta l’ultimo colpo ferale ai residui progressisti ancora illusoriamente legati ad una visione alternativa della società, ad un anticapitalismo sempre più anomalo in seno ai nuovi contenitori che pretendono di essere al passo coi tempi.
E’ evidente che proprio i tempi del renzismo maturano per Renzi stesso grazie alla presenza in Italia di una anomalia politica come quella rappresentata dal PD che non somiglia più a nessuna delle sue due teste originarie e che ancora non sa bene quale ruolo ricoprire nella complessità nazionale e continentale: socialdemocrazia e liberalismo europeo sono le due case dove oscilla l’appartenenza dei democratici per lungo tempo.
Se dal 2008 al 2018 il quadro politico, sociale ed economico del Paese cambia radicalmente, è altrettanto vero che in soli tre anni, quelli del tempo pandemico attuale, si possono contare stravolgimenti ben più consistenti e deflagranti: la crisi del renzismo inizia con l’affermarsi del grillismo da un lato e del sovranismo dall’altro. Populismo e neonazi-onalismo stringono nella loro morsa il tentativo di controriforma delle istituzioni: a loro modo contribuiscono a far fallire il referendum del dicembre 2016 che ha come unico obiettivo il ridimensionamento del ruolo parlamentare a tutto vantaggio di quello del governo.
E’ una idea di disequilibrio antidemocratico e di cancellazione dell’equipollenza dei poteri che nemmeno piace alle destre liberali forzitaliote e parademocristiane. Una idea di repubblica governativa dal sapore oligarchico: Renzi, pur divenendo sempre più impopolare, la porta avanti forte di un 40% di elettorato che pare sostenerlo: il PD raggiunge con lui l’apice del consenso, mentre la cosiddetta sinistra di Articolo Uno e dei fuoriusciti dalemiani deve, per sopravvivere, inventarsi alleanze minimaliste che le permettono di avere comunque – grazie alle leggi elettorali adattate alla bisogna tanto dei grandi partiti quanto dei cespugli – di avere un diritto di tribuna nelle Camere.
Se l’anticomunismo ha divorato molti dei suoi figli, il renzismo perisce più che altro colpito ai fianchi dalle destre e dal populismo che sovrasta tutto, che diventa preponderante e che sottrae al rottamatore il premio di innovatore politico e di riformatore economico (anti)sociale. A tutto questo si sommano le inchieste giudiziarie che dimezzano il potere del “giglio magico“, che ne decimano piano piano la composizione e che lasciano praticamente solo l’ex sindaco di Firenze a combattere una battaglia ormai perduta.
Il renzismo può anche morire: non è il berlusconismo che ha plasmato una nuova Italia, quella del dopo Pentapartito, della rivoluzione di Tangentopoli, del dopo-Guerra fredda. Non ha quella potenza destrutturante che può arrivare nei più sottili gangli del potere: dentro e fuori i palazzi delle istituzioni. L’inimitabilità è data non solo dalla diversa composizione della cerchia stretta di collaboratori e fedelissimi, ma ancora di più dal potere di fuoco di una struttura economico-aziendale che, obiettivamente, il PD non ha e nemmeno vuole avere.
Finita la grande controversa stagione dei partiti di massa e delle ideologie (che erano terreno di dialettica e di scontro culturale per cui si deve avere una grande nostalgia…), la politica italiana passa nelle mani di tecnici liberisti, tecnocrati prestati ad una idea ingessata di governismo fino a nuovi esperimenti un po’ improvvisati che, tuttavia, grazie all’emergenza sanitaria, trovano il loro spazio di adattamento e la loro capacità di resilienza.
Il ritorno di Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani e Roberto Speranza nell’orbita del PD e, forse, a maggio proprio dentro al PD stesso, non si può dire che rappresenti una sorpresa: è la naturale conseguenza per chi vuole evitare l’automarginalizzazione in un’area di centrosinistra in cui Italia Viva non abita più, protesa verso il centro (e la destra), e in cui, quindi, si fa fatica a distinguere le posizioni programmatiche, la tattica e persino la strategia che dovrebbero separare Articolo Uno dal PD.
Ma i democratici di oggi non sono diversi da ciò che erano un tempo: prima, durante e dopo Renzi. Sono tornati ad essere di centrosinistra, dopo la lunga esperienza del renzismo individualistico-liberista, e per questo D’Alema può riconoscervisi nuovamente.
Il progetto però non cambia, non diventa più di sinistra perché ritornano alla casa madre i figlioli prodighi che l’avevano lasciata e che si fregiano ancora del manto di una storia personale che proviene dal comunismo italiano. Il progetto rimane sempre quello, mutatis mutandis: garantire alla borghesia imprenditoriale un sicuro punto di riferimento politico per proteggerne gli interessi dentro una cornice di compatibilità con le esigenze di un mondo del lavoro cui si guarda soltanto per tutelare al meglio proprio gli avversari di classe dei lavoratori.
I pezzi del puzzle democratico si ricompongono in vista delle future elezioni politiche. Del resto, già condividevano esperienze di governo nate più che sulla spinta di un nuovo progressismo parlamentare e popolare, da un protagonismo renziano che ha fatto una negativissima differenza: nella gestazione del Conte I e, in parte, anche con la nascita del “governo dei migliori“, quello di “unità nazionale“. Il migliore governo per le imprese e per la finanza.
La cosiddetta “sinistra” rappresentata mediaticamente dal PD e dai dalemiani ne è elemento fondante. A prescindere dalla collocazione di Articolo Uno.
Dunque, il giallo vi pare risolto? E’ il PD ad aver creato Renzi o viceversa? Forse la risposta più semplice sta proprio nella constatazione di una duplice colpevole responsabilità: vicendevolmente molto gattopardesca, perfettamente nel solco del peggiore utilitarismo italico.