Le politiche dell’Unione Europea su deficit, indebitamento, spesa pubblica ecc. da alcuni anni sono uscite dal centro del dibattito pubblico, visto che con l’avvento del Covid-19 i mitici parametri di Maastricht sono stati sospesi e la BCE ha massicciamente finanziato gli Stati comprandone i titoli.
Pare che a breve tali temi rientreranno di prepotenza nell’agenda pubblica, visto che la BCE si appresta a fare marcia indietro con un violento rialzo dei tassi d’interesse, ritornando così a politiche meno espansive; ciò significa un probabile rallentamento dell’economia e un minore sostegno all’indebitamento degli Stati. O meglio, un sostegno condizionato alla adesione ad una linea euroriformista dettata dalla BCE e dalla Commissione. In sunto: o strisci come un verme ai piedi di autorità che rispondono al mercato anziché ai cittadini o vieni lasciato al tuo destino.
In questo quadro è naturale che si riaffaccino i più zelanti difensori di quell’insieme di rozzi e infingardi luoghi comuni in merito a debito e spesa pubblica che hanno saturato il dibattito nel decennio scorso.
Travolta dalla improvvisa rottura di Calenda con il suo partito (col PD), Emma Bonino a caldo aveva stizzosamente risposto in diretta televisiva di non sapere cosa fosse successo, ma nonostante la memorabile tranvata non si era trattenuta dall’impartire la solita logora lezioncina pseudomoralistica della necessità di non fare troppo debito pubblico per non farlo ricadere sulle prossime generazioni.
In un articoletto tanto ridotto nelle dimensioni quanto nel costrutto, il vicedirettore di quella robaccia che è diventata la Repubblica di Molinari va alla carica dicendoci che quello che vuole fare la nuova premier britannica – lanciare un pacchetto di aiuti per aiutare famiglie e imprese contro il caro-bollette – noi non lo possiamo fare. Perché? Costerebbe troppo, e “nuove misure di spesa adesso graverebbero sul giogo fiscale di generazioni future”.
Le generazioni saranno quelle che passeranno prima che dalle parti di Repubblica mandino in soffitta queste asinine stupidaggini. Il livello è tale che forse si potrebbe quasi ignorare – che dire della perla per cui il rapporto debito/pil sarebbe “il dato-chiave per misurare la salute economica di una nazione”? Niger, Nigeria, Mali e R. D. Congo hanno una percentuale nettamente più bassa di paesi come Germania, UK, Francia, Usa, e di certo nessuno sano di mente li giudicherebbe più in salute di questi ultimi. Ma forse è meglio rimettere in riga pochi concetti per ricominciare a ragionare in merito.
Il debito pubblico consiste di titoli comprati da privati che prestano soldi allo Stato. Perciò, prima di tutto non è il debito della nazione (intesa come la totalità dei cittadini) come suggerisce l’abusata metafora del “debito della famiglia”, ma quello dell’apparato statuale verso una parte di essa. Infatti è calcolata come una componente dalla ricchezza del settore privato (specificamente di quei cittadini che hanno potuto permettersi di prestare soldi allo Stato, ma la nozione di “settore privato comprende tutti). Ma le famiglie che hanno tale ricchezza e che incassano in più gli interessi (tanti o pochi che siano) la trasmetteranno ai loro discendenti. Quindi nelle generazioni future ci sarà chi eredita il credito (o il suo rendimento) e chi no. Già a questo punto risulta chiaro che la distinzione cruciale sia non fra vecchie e nuove generazioni, ma fra ceti e classi diverse nella stessa fase temporale.
Ma, si dirà, il debito va ridotto. Davvero? E di quanto? Non esiste nessuna base concettuale che indichi persuasivamente una soglia che non sia partorita dalle ottenebrate menti degli eurofanatici dei ridicoli “parametri” (60% debito/pil, 3% deficit). Ma anche se si volesse ridurlo, ci sono molti modi di farlo. Una fonte così eterodossa e anticapitalista come il Congressional Research Servicedel Congresso statunitense (che vuole informazione rigorose, e non le supercazzole di un Fubini qualsiasi) elenca le possibili: consolidamento fiscale (cioè aumentare le tasse e tagliare le spese come Repubblica, Corriere e gran parte di piddinia vogliono); ristrutturazione del debito (pagare di meno o con tempi più lunghi del dovuto); inflazione; crescita (all’aumento del pil il rapporto scende, ed inoltre con maggiore crescita aumenta anche il prelievo fiscale e la necessità di indebitarsi); repressione finanziaria (imporre la mordacchia ai mercati in modo da tenere i tassi bassi, e se ti sei indebitato a tassi più alti ma poi li abbassi ottieni denaro fresco più facilmente).
Ora, per caso, ma proprio per caso, i vari “austeri” fra le opzioni scelgono come l’unica quella che si configura come più dolorosa e nociva per i ceti popolari ed i cittadini, senza quasi nominare le altre nemmeno come elementi di alleggerimento di tagli e maggior pressione fiscale. Ma anche in questo caso, bisogna vedere come viene redistribuito il relativo carico. Se il suo peso gravasse principalmente sui ceti più abbienti come prelievo sul reddito o sul patrimonio (la cui sola ipotesi viene molto avversata) sarebbe un caso molto differente dall’imporre maggiormente imposte come l’IVA (che colpisce indiscriminatamente tutti, pesando relativamente di più sui meno abbienti) o tagli a trasferimenti come assegni di disoccupazione, pensioni, e simili
Ognuno valuterà le opzioni e le strategie in modo diverso, ma il fatto di fare debito da parte dello Stato non è di per sé penalizzante per qualcuno in particolare, ma lo è il modo in cui si spende e quello in cui si rientra in un momento successivo. Si tratta di un problema politico che va deciso con una dialettica democratica fra gli opposti interessi dei i vari gruppi, fra coloro che vengono (o verranno) chiamati a pagare più tasse e coloro la cui ricchezza comprende i titoli del debito pubblico. Ma la questione redistributiva non la si può mascherare subdolamente come una questione di giustizia intergenerazionale, a meno che non la si voglia utilizzare in modo retorico, per nascondere subdolamente il conflitto di interessi e di classe e ottenere un facile consenso a favore di una opzione già decisa, sfruttando in maniera veramente bieca l’empatia per i nostri successori.
Un caso particolarmente spiacevole in tal senso – che ci è profondamente familiare – è il tentativo di riduzione del debito pagando gli interessi non già emettendo altro debito, bensì ricorrendo alle tasse. Il che rappresenta iconicamente la storia dell’Italia dal 1992 ad oggi.
Invece che usare altro denaro a debito magari usufruendo di tassi inferiori in ragione di una congiuntura favorevole o facendo un largo uso della repressione finanziaria sopra citata si è preferito l’ostinato tentativo degno di Sisifo di abbassare il debito spremendo sempre più i cittadini con le tasse, per realizzare una spesa pubblica che peraltro non ha alcuna finalità sociale, se non distribuire una rendita finanziaria ai fortunati sottoscrittori dei titoli. Un effetto assai negativo, che però non va ascritto all’indebitamento in sé ma al modo con cui lo si gestisce. Ed infatti dopo una sfilza di imponenti avanzi primari il debito italiano dal 1992 non c’è stata alcuna riduzione significativa. Anzi.
Ma si dirà che il debito estero è un’altra cosa. Bene, ragioniamo del debito pubblico detenuto da soggetti esteri. In tal caso che succede?
Collocando un titolo all’estero lo Stato fa uscire carta e fa entrare valuta estera. Ma non la spende: per farlo (per esempio negli stipendi del pubblico impiego, per comprare scrivanie o simili) li cede alla propria banche centrale, che emette dal nulla la valuta nazionale e la cede al Tesoro, il quale può spenderla internamente. La banca centrale con la valuta ottenuta, può farci quel che vuole, anche investendola in attività fruttifere. Ovviamente alla fine lo Stato dovrà far uscire la cifra del debito contratto più gli interessi maturati per la restituzione. Ma la banca centrale avrà ottenuto un rendimento; a seconda delle circostanze l’interesse da pagare all’estero può essere in parte assorbito o persino sopravanzato da tale rendimento. Insomma anche indebitarsi col settore estero non è disfunzionale in sé, ma è il contesto a determinarlo.
Riassumendo, tanto l’argomento per cui il debito pubblico in sé è negativo e che una entità eccessiva (ma quanta?) di esso ricadrebbe sulle generazioni future sono delle pietose bugie. Naturalmente tale forma di indebitamento può essere problematica, e per molto paesi lo è stata. Ma per molti altri non è andata affatto così, e non c’è nessun destino che lo determini in automatico. Ma quindi da cosa deriva il fatto che sia positivo o meno? Risposta: da un assetto globale di dinamiche macroeconomiche che lo include ma in cui ci sono anche altri fattori.
Ma se invece di scrivanie lo Stato dovesse comprare degli aerei da guerra prodotti all’estero? In tal caso la musica cambierebbe, perché una volta procuratasi la valuta estera corrispondente a quella richiesta per quel bene (per esempi dollari australiani per merci australiane) a fronte di una entrata di un bene vi sarebbe l’uscita di denaro. Questo è un qualcosa del tutto diverso: il deficit commerciale che porta a debito estero. Posto che vi sono merci che entrano e escono, il saldo di flussi in uscita e in entrata alla fine indica veramente se il paese nel suo complesso è in deficit o in surplus. Un deficit sostanzioso o protratto è problematico. Per questa situazione è senz’altro più indicato il giudizio di “vivere al di sopra dei propri mezzi”. Il che non è sempre vero, dato che il deficit commerciale può essere compensato, per esempio, col rendimento di investimenti esteri; ma chi non abbia un settore finanziario così attrezzato può trovarsi in difficoltà (e un abnorme sviluppo del settore finanziario non è una situazione ideale per l’economia e per la società, ma basti considerare il numero di variabili in gioco)
Ma attenzione: una difficoltà di tal genere può esperirsi col bilancio (pubblico) in perfetto pareggio; anzi normalmente è scarsa l’incisività del settore pubblico sul debito estero. Ed in tal caso chi si è indebitato? Il settore privato.
Non può non colpire il fatto che vari Soloni del zero-debito-pubblico insistono sempre in una limitazione del debito dello Stato senza mai parlare di quello aziendale e familiare, che normalmente sono più incisivi sul debito estero. Isolare il debito pubblico da tutto il contesto macroeconomico è una operazione intellettualmente disonesta se non pelosa, atta a nascondere al dibattito pubblico obiettivi difficilmente difendibili: primo, giustificare un programma di privatizzazioni, cioè la svendita dei beni dello Stato ai privati; secondo, restringere il perimetro della mano pubblica (meno sanità, meno formazione) per aprire le opportunità per lucrosi mercati privatistici (si pensi alla espansione della previdenza complementare o alle cure nel privato); terzo, assicurare un permanente trasferimento di fondi dai ceti più tartassati dal fisco a quelli che si possono permettere i titoli di Stato.
Occorrerebbe approfondire altri temi, per esempio l’importanza di avere una banca centrale ancillare alle politiche di bilancio (anziché impegnata a scrivere letterine al governo in carica), e sugli effetti del debito sull’economia generale. Ma sarà sufficiente per ora la demistificazione dei più inveterati luoghi comuni quali autentici rigurgiti di disinformazione residuati dai dibattiti del decennio scorso