A partire dalla situazione salariale italiana illustrata nella prima parte del nostro contributo, in questo secondo contributo forniamo una ricostruzione e discussione delle diverse proposte di legge in campo per quanto riguarda il salario minimo legale.

Le diverse versioni del salario minimo nel dibattito italiano

Nel desolante scenario italiano il salario minimo potrebbe esercitare la funzione di un pavimento inferiore per la struttura dei salari, una soglia retributiva oraria minima sotto la quale nessun lavoratore sarebbe più costretto a lavorare, una soglia essenziale in diversi comparti produttivi caratterizzati da basse, bassissime retribuzioni. L’uso del condizionale è tuttavia d’obbligo, perché non è scontato che il salario minimo svolga tale funzione, dato che le diverse proposte di legge in tal senso nascondono approcci e obiettivi completamente diversi tra loro: non tutte prevedono infatti l’introduzione di una soglia minima vera e propria. Proviamo dunque a ricostruire il dibattito e la natura delle diverse proposte. Nella prima fase del dibattito politico italiano sull’introduzione del salario minimo legale (biennio 2018-2019) emergono infatti diverse proposte nel merito:

  1. Il Ddl Catalfo (1) avanzato dal M5S (Ddl 658) stabiliva che ciascun lavoratore avesse diritto al Trattamento Economico Complessivo (TEC) – la somma tra paga base e altri elementi della retribuzione quali 13esima, 14esima, ferie, etc. – previsto dal CCNL in vigore per il settore di riferimento, stipulato dalle associazioni dei datori e dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale e in ogni caso a una retribuzione “non inferiore a 9 euro lordi all’ora”.
  2. Il Ddl Laus – PD (Ddl 310) – prevedeva anch’esso l’introduzione di uno specifico livello per il salario minimo, persino più alto di quello previsto dal Ddl Catalfo e pari a 9 euro netti l’ora. Peccato che questa proposta non sia mai stata realmente sostenuta dal PD e sia stata presto sostituita dal Ddl Nannicini (Ddl 1132), il quale non faceva altro che estendere a tutti i lavoratori del settore il Trattamento Economico Minimo (TEM) – la sola paga base, detta anche minimi tabellari – stabilito dai CCNL stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative a livello nazionale.

All’epoca, evidenziammo in particolare i principali punti di debolezza della proposta Catalfo, a partire dall’ancoraggio del salario minimo al Trattamento Economico Complessivo e dall’assenza di un meccanismo automatico di indicizzazione all’inflazione. Nel primo caso, risulta infatti evidente che la soglia individuata – qualunque essa sia – debba far riferimento al TEM, non comprendendo gli altri elementi della retribuzione stabiliti dalla contrattazione collettiva, altrimenti rischia di essere completamente inutile e di non avere alcun impatto sulle retribuzioni dei lavoratori poveri. Il punto è rilevante in quanto una lettura superficiale potrebbe far pensare che qualora il TEC fosse più alto del TEM sarebbe preferibile far riferimento al primo, mentre invece il parametro di riferimento dovrebbe sempre restare il TEM.

Nel secondo caso, la necessità di un ancoraggio del salario minimo all’inflazione risulta ancora più evidente oggi, nel mutato quadro economico caratterizzato da una dinamica dei prezzi esplosiva, la quale minaccia le condizioni di vita di decine di milioni di persone nel nostro paese.

Nonostante la proposta Catalfo non sia affatto sufficiente, lo scettro della proposta più ipocrita di quel periodo va senza alcun dubbio al PD, capace di fare una proposta di salario minimo che non prevede il salario minimo. Proviamo a chiarire la differenza tra le due proposte, analizzando il relativo impatto sul mercato del lavoro italiano e sulle retribuzioni di lavoratrici e lavoratori, in modo da non lasciare dubbi al lettore.

Il Ddl Catalfo (1) avrebbe consentito ai lavoratori che hanno una retribuzione oraria complessiva inferiore ai 9 lordi di beneficiare di un incremento fino al livello soglia stabilito, specialmente nei comparti dove sono stati firmati contratti poveri (come il CCNL di multiservizi, vigilanza, spettacolo, commercio, cooperative sociali, eccetera). L’ISTAT (2019c) ha stimato che il salario minimo a 9 euro lordi avrebbe riguardato (nel 2016) 2,9 milioni di lavoratori (il 20% del totale) e comportato un aumento complessivo del monte salari di 3,2 miliardi. Niente di trascendentale, ma neanche da buttar via.

Il Ddl Nannicini avrebbe avuto un impatto inesistente. Oggi, un lavoratore cui non vengono applicati i minimi tabellari (TEM) stabiliti dal CCNL di settore stipulato dalle organizzazioni più rappresentative può fare ricorso davanti al giudice sulla base dell’Articolo 36 della Costituzione, che stabilisce il principio di una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Il giudice tende a dargli ragione. Il Ddl in questione avrebbe semplicemente cristallizzato questa tendenza giurisprudenziale per via legislativa, con l’unica conseguenza di scoraggiare i cosiddetti contratti pirata. Un fatto positivo, senza dubbio, ma con impatto nullo sui salari più bassi.

Gli ultimi sviluppi

Una seconda fase del dibattito italiano sul salario minimo si è innescata, dopo una fase di fiacca, in risposta alla direttiva sul tema della Commissione europea, che abbiamo già inquadrato come una vera e propria farsa priva di conseguenze concrete. Prima della caduta del Governo Draghi, si stava cercando una mediazione sul salario minimo, tanto che molti dei nostri arguti commentatori televisivi hanno persino affermato che il Governo dei “migliori” avrebbe introdotto la misura, se non fosse stato incautamente fatto cadere. Peccato che, anche fosse vero, la versione Draghi avrebbe svuotato la misura di qualsiasi effetto benefico sulla struttura dei salari, cerchiamo di capire perché.

Le difficoltà legate all’introduzione del salario minimo sono molteplici e legate, in primo luogo, alla contrarietà delle imprese, per le quali la misura rappresenterebbe un aggravio dei costi di produzione e una riduzione dei margini di profitto.

Ma perché è così difficile in Italia? Gli ostacoli all’introduzione del salario minimo in Italia sono maggiori anche perché i sindacati confederali si sono opposti all’introduzione della misura. Le relazioni industriali nel nostro paese sono strutturate intorno alla contrattazione collettiva, che ha un’importanza maggiore e una copertura molto più elevata che in altri Stati europei. I sindacati confederali temono, in sostanza, che l’introduzione di un salario minimo per legge intacchi la rispettiva autorità salariale, compromettendo la contrattazione, che è la principale ragion d’essere delle organizzazioni sindacali. Non a caso hanno a lungo insistito per trasformare la proposta del salario minimo nell’estensione erga omnes dei minimi tabellari stabiliti all’interno dei CCNL nei diversi comparti.

Se la preoccupazione è comprensibile, nel senso che il rischio di svuotare la contrattazione esiste e lo dimostra la significativa riduzione della copertura contrattuale nel caso tedesco dopo l’introduzione del salario minimo, molto dipende da come l’eventuale legge sul salario minimo viene redatta. Va riconosciuto che, dopo la reazione avversa al primo DdL Catalfo, i sindacati (CGIL e UIL in particolare) hanno intavolato un negoziato che ha portato a una seconda versione della proposta Catalfo, che metteva al centro i minimi tabellari stabiliti dai CCNL stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, mantenendo allo stesso tempo la soglia minima oraria pari a 9 euro lordi.

In poche parole, i CCNL firmati dai confederali sarebbero rimasti al centro del sistema, a patto di fare il proprio mestiere, nel senso che, sotto la soglia dei 9 euro lordi orari, il salario minimo avrebbe svolto una funzione di supplenza e anche di incentivo per i sindacati confederali a contrattare retribuzioni più elevate. Troppo bello per essere vero. Visto che la contrattazione non è stata in grado negli ultimi 30 anni di difendere il potere d’acquisto dei lavoratori, l’introduzione del salario minimo avrebbe potuto alzare le retribuzioni inferiori alla soglia e al contempo innescare una maggiore efficacia sistemica nella contrattazione delle retribuzioni.

Tant’è che a questo punto sono intervenuti i nostri eroi. Per evitare lo scempio – un aumento delle retribuzioni più basse provocato da quella che sarebbe diventata un’altra misura simbolo del M5S (dopo il Reddito di cittadinanza) – il PD è entrato in campo, convincendo i confederali a cambiare cavallo in corsa, puntando su una nuova versione della misura.

La proposta di salario minimo avanzata dal Ministro Orlando e dunque dal governo Draghi consisteva nell’estensione erga omnes del Trattamento Economico Complessivo (TEC) (minimi tabellari, ferie, 13esima, 14esima, etc.) stabilito dai CCNL stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a tutti i lavoratori del settore. Si era dunque tornati a discutere di una proposta che spostava positivamente il baricentro dell’erga omnes sul TEC, ma togliendo nuovamente dal tavolo l’introduzione di una soglia minima legale. Ancora una volta una proposta di salario minimo senza il salario minimo, con zero impatto in tutti quei settori disciplinati da contratti collettivi nazionali (CCNL) che stabiliscono retribuzioni orarie vergognose (multiservizi, vigilanza, spettacolo, commercio, cooperative), e che quindi coincide nella sostanza con la proposta Nannicini.

Conclusioni politiche e problemi irrisolti

Il tema della distribuzione del reddito è più vivo che mai, nonostante tutte le forze politiche maggioritarie facciano a gara per nasconderlo. Unione Popolare è una creatura diversa. Alla luce delle ragioni elencate, sappiamo che la nostra proposta di un salario minimo di 10 euro lordi orari (1.600 euro mensili) rivalutato annualmente all’inflazione non è la soluzione di tutti i nostri problemi, ma è un buon inizio: se il mondo del lavoro ha subito una sconfitta storica negli ultimi decenni, un salario minimo così disegnato può restituire un po’ del potere d’acquisto e della dignità andati perduti. Questi obiettivi sono raggiungibili solo mediante la piena realizzazione della proposta programmatica di Unione Popolare.

La battaglia sul salario minimo deve però necessariamente accompagnarsi a una lotta feroce contro la precarietà e deve passare dall’abolizione della miriade di contratti introdotti negli ultimi decenni in Italia, da governi di tutti gli schieramenti. Il salario minimo è infatti una misura certamente positiva, ma si concentra nella fascia bassa delle retribuzioni e nei settori poveri. Per dare una scossa complessiva serve anche una significativa spinta alla spesa pubblica e alla domanda aggregata, che passa necessariamente da un massiccio piano di assunzioni nella Pubblica Amministrazione (PA), la quale fa registrare un numero di dipendenti più basso di 1,5 milioni rispetto a un’economia come quella francese, simile per dimensioni e numero di abitanti (a mo’ di esempio, basta vedere il dato sulle cattedre vacanti nelle scuole). Per questo Unione Popolare propone anche l’assunzione di almeno 1 milione di persone nella PA, a partire da sanità e scuola, due settori particolarmente colpiti dall’austerità degli ultimi decenni e dalla pandemia.

Per ridare slancio alla dinamica dei salari, risulta infine imprescindibile anche una spinta significativa nel rinnovo dei contratti, molti dei quali non vengono rinnovati da anni. Non solo si devono rinnovare i CCNL, ma si deve abbandonare definitivamente l’IPCA depurato come punto di riferimento per gli aumenti contrattuali, i quali per loro stessa natura devono garantire quantomeno la parità di potere d’acquisto per i milioni di lavoratrici e lavoratori coinvolti. Questa svolta implica evidentemente un complessivo abbandono del modello di sviluppo basato sulla moderazione salariale degli ultimi decenni.

Molto ci sarà ancora da fare: piena e buona occupazione, lotta alla precarietà, scala mobile. Intanto partiamo da una proposta forte e di rottura sul salario minimo legale. Andiamo a riprenderci tutto quello che ci hanno tolto e molto di più. Vota e fai votare Unione Popolare.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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