L’arcipelago dell’Oceano Pacifico, come altri Stati della regione rischia di scomparire a causa dell’innalzamento del livello degli oceani. Intanto, lo scorso 13 ottobre, si sono tenute le elezioni legislative.
La questione climatica è particolarmente sentita negli Stati arcipelagici dell’Oceano Pacifico, molti dei quali rischiano di scomparire nei prossimi anni a causa dell’innalzamento del livello degli oceani causato dallo scioglimento delle calotte polari. Secondo le stime degli esperti, il primo Stato a scomparire dalla faccia della Terra sarà Kiribati, arcipelago abitato da circa 110.000 abitanti, che ha un’altitudine media di appena 1,8 metri sul livello del mare, con un picco massimo posto ad 87 metri sull’isola occidentale di Banaba.
Ma a seguire le sorti di Kiribati – che potrebbe scomparire nei già entro il 2050 e non oltre il 2100 – sarebbero molti altri arcipelaghi, come Tuvalu, Isole Marshall, Isole Salomone, Tokelau (arcipelago autonomo sotto l’amministrazione della Nuova Zelanda), Samoa, Figi e Vanuatu, per limitarci all’Oceano Pacifico. Tra gli altri Paesi a rischio, infatti, troviamo le Maldive e le Seychelles nell’Oceano Indiano, ma anche l’arcipelago caraibico delle Bahamas.
Proprio per queste ragioni, Vanuatu ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la proposta per un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, prendendo spunto dal trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, stipulato nel 1968. La voce di Vanuatu e degli altri Paesi citati finora è stata quasi completamente ignorata dal resto del mondo, considerando anche lo scarso peso demografico ed economico sul quale questi Paesi possono contare per farsi sentire. Tuttavia, proprio questi Paesi, che incidono così poco sulle dinamiche planetarie, rischiano di essere i primi a pagare lo scotto del capitalismo sfrenato.
Se prendiamo in considerazione tutte le isole dell’Oceano Pacifico, queste contribuiscono appena allo 0,03% delle emissioni globali di gas serra. Se poi mettiamo sotto la lente d’ingrandimento il solo arcipelago di Vanuatu, questo assorbe più carbonio di quanto non ne produca, grazie all’apporto delle foreste e dell’oceano. Inoltre, il governo di Port Vila, attualmente guidato dal primo ministro Bob Loughman, in carica dall’aprile del 2020, ha già annunciato un piano per la conversione al 100% di elettricità rinnovabile entro il 2030, con l’obiettivo finale di eliminare gradualmente quasi tutti i combustibili fossili sulle isole.
“Chiediamo lo sviluppo di un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili per ridurre gradualmente la produzione di carbone, petrolio e gas in linea con l’obiettivo degli 1,5°C e consentire una transizione equa globale per ogni lavoratore, comunità e nazione con dipendenza dai combustibili fossili”, sono le parole con le quali Nikenike Vurobaravu, presidente di Vanuatu dallo scorso luglio, ha presentato il progetto alle Nazioni Unite, lo scorso settembre. Vurobaravu ha anche chiesto alla Corte internazionale di giustizia di esprimere un parere sull’esistenza di un obbligo legale di salvaguardare le generazioni attuali e future dalla crisi climatica.
Nel frattempo, l’arcipelago di Vanuatu è andato alle elezioni anticipate su richiesta del primo ministro Loughman – richiesta accettata dal presidente Vurobaravu, che ha provveduto alla scioglimento del parlamento -, e gli elettori sono stati chiamati alle urne lo scorso 13 ottobre. La tornata elettorale ha restituito un quadro molto frammentato della politica locale, con ben diciotto partiti e un deputato indipendente che andranno a distribuirsi i 52 seggi a disposizione.
Secondo la stampa locale, Loughman dovrebbe comunque essere in grado di mantenere le redini del governo, visto che il suo partito, Vanua’aku Pati (“Il Partito della mia Terra”) ha ottenuto sette seggi, ai quali vanno aggiunti gli altrettanti scranni conquistati dall’Unione dei partiti moderati (Union des partis moderés), che sostiene il governo uscente di Loughman. Partendo da questi quattordici deputati, il primo ministro in carica dovrebbe riuscire a trovare altri tredici parlamentari pronti a sostenerlo per ottenere la maggioranza. Tra le fila dell’Unione dei partiti moderati figura anche l’unica donna eletta, Gloria Julia Kings, che riporta la presenza femminile nel parlamento di Port Vila dopo quattordici anni.
Nonostante questo, il leader dell’opposizione, Ralph Regenvanu, ha detto di essere in grado di formare una maggioranza. Sebbene il suo partito, denominato Partito Terra e Giustizia (Graon mo Jastis Pati), abbia ottenuto solo quattro scranni, Regenvanu, che in passato ha ricoperto anche l’incarico di ministro degli Esteri, ha dichiarato di poter ottenere i voti di ben 31 deputati. Tuttavia, alcuni parlamentari figurano sia nella lista di Loughman che in quella presentata da Regenvanu, il che lascia forti dubbi sulla composizione del prossimo esecutivo
Chiunque riuscirà a formare la nuova maggioranza dovrà comunque mantenere alto l’impegno per sensibilizzare il mondo sulla questione climatica, che per Vanuatu, come per molti altri Stati arcipelagici, è una vera e propria questione di vita o di morte.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog