Il paradosso in un partito post-ideologico come il PD, privo di una propria teologia politica, è che solo le correnti possono agire come principio regolativo garantendone la coesione nella diversità.
Stato e regione, il PD e le correnti
Di Fausto Anderlini*
Ma quali correnti! Non sono molto esperto in materia, ma la mia impressione è che nel Pd le correnti vadano sfarinandosi. Ne ho avuto la plastica contezza osservando Franceschini alla presentazione del libro di Bettini a Napoli.
Esangue, intirizzito, come incartapecorito, dove peraltro ha sbiascicato una difesa d’ufficio delle correnti. Un uomo vecchio e stanco. Tutt’altro che un coniglio mannaro, un verace capobastone o un abile stratega doroteo. Base riformista è una ritirata di orfani, nè mi pare che miglior vita godano correnti e correntine di sinistra, da Orlando a Provenzano, passando per Zingaretti, Cuperlo e altri eminenti esponenti senza eserciti.
Per non parlare delle new entry, da Speranza a Schlein. Tutte unite nella rivendicazione dell’identità come priorità, sorta di neo-idealismo come contrappasso a una intera epoca di mero pragmatismo governista, ma incapaci di produrre un proprio documento a tesi con cui reggere il confronto nel seggio della carta dei valori. E men che meno di selezionare una candidatura unitaria in vista della inscalfibile peronospera delle primarie.
Sono portato a pensare, in direzione contraria ai detti retorici, che la crisi del Pd non sia generata dal prepotere delle correnti, e che sia piuttosto il loro sfarinamento a segnarne l’inviluppo.
In un partito post-ideologico, privo di una propria teologia politica, non è data la possibilità di alcun ‘centralismo democratico‘, né è immaginabile un regime assembleare.
Solo le correnti possono agire come principio regolativo efficace del partito, garantendone la coesione nella diversità. Ho presente l’esperienza del Pds, in uscita dal modello centralistico del Pci basato sulla convergenza delle ‘tendenze’.
Furono le correnti (la sinistra post-ingraiana e la destra ‘migliorista’) ad agire da argine mentre le tensioni più forti vennero dalla coalizione ‘centrale’ che esprimeva il Segretario e che si identificava con l’apparato. Proprio perchè non essendo una corrente il ‘centro’ era inesorabilmente piagato dalle lotte di potere correlate a cordate personali.
In effetti ciò che mi sembra di intravedere nella dinamica evolutiva del Pd è la sostituzione delle correnti con basi nazionali, con conglomerati territoriali. Una sorta di federalismo surrettizio e di fatto che potrebbe segnarne la deflagrazione finale.
Le candidature, esplicite o in progress, dei vari Bonaccini, Nardella, Ricci, la stessa Schlein, questo segnalano. Non per caso tutte interne alla fu ‘zona rossa’ dell’Italia di mezzo. Nella quale ogni regione sembra voler mettersi in proprio nel voler guidare una scalata ‘nazionale’ dove il Nord e, soprattutto, il Sud non credo staranno a guardare.
In un passato remoto, vivente il Pci, le regioni rosse sono sempre state una intendenza del partito nazionale. La loro stessa forza occludeva l’accesso al centro della sua classe dirigente, se non in guisa gregaria. Nello stesso Pd Tanto Veltroni che Bersani sono stati espressione di una leadership nazionale anzichè locale, benchè romano il primo, emiliano il secondo.
Essendo romano, Veltroni era nazionale per definizione. Nella contesa con Renzi Bersani si avvalse del supporto del nord e del sud, mentre Toscana, Umbria e Marche seguirono il fiorentino. Nella stessa Emilia Bersani si tenne nella media, ben al di sotto del plebiscito.
Il baco territoriale già si era insinuato allora e non per caso la rovina del Pd è stata decretata da un segretario (Renzi) che aveva nell’orto di casa il suo cerchio magico.
* grazie a Fausto Anderlini