Poveri o operai? Classi sociali e teoria politica
La guerra civile è la porta stretta attraverso la quale dovrà passare chiunque intenda sbloccare questa situazione. ( Senza tregua, giornale degli operai e dei proletari comunisti)
Parole come povero, povertà, emarginazione, disagio sociale ecc., conoscono oggi una fortuna pressoché inaspettata. Classicamente questi aspetti della vita sociale erano deputati a occupare ristretti ambiti della teoria sociale, come per esempio la “sociologia della devianza”, rimanendo sostanzialmente poco più che una nuance della medesima, ma non solo. Nel mondo che ormai da tempo ci siamo lasciati alle spalle, quello che per convenzione siamo soliti chiamare “il Novecento”, tutto ciò che in qualche modo si riferiva al mondo della “devianza” e della “marginalità” veniva ricondotto, in senso ampio, alle classi sociali e al riconosciuto e legittimo conflitto tra queste. Al proposito basti pensare ai cospicui lavori, di cui soprattutto la teoria sociale anglosassone abbonda, sulle gang giovanili o a un caposaldo della ricerca sociologica come Hobo di Anderson dove, sullo sfondo della vita dei “vagabondi” aleggia prepotentemente l’ombra degli IWW poiché, in realtà, gran parte degli hobo altro non erano se non quel corposo segmento di classe operaia precaria e di recente immigrazione che non pochi problemi stava arrecando ai piani di accumulazione del capitalismo a stelle strisce. Questa sintetico excursus su povertà, marginalità e devianza semplicemente per dire che questi temi rimandavano immancabilmente a un’idea, da tutti condivisa, di una società strutturata in classi la cui esistenza rimandava a una particolare, e legittima, “visione del mondo”.
Nonostante siano stati gli ambiti sociologici a interessarsi maggiormente di questi mondi è indubbio che sempre, sullo sfondo della teoria sociologica, si stagliava una dimensione politica della questione. Ciò valeva sia tra gli autori che facevano proprie le teorie del conflitto, come i marxisti, i weberiani o gli simmeliani, sia tra i fautori del funzionalismo come i parsoniani. Indipendentemente dai “giudizi di valore” che potevano essere espressi in merito a determinati fenomeni a diventare centrale erano sempre le ricadute di questi dentro la società e, in particolare, nelle società urbane. L’industrializzazione e lo sviluppo capitalistico, con tutte le aporie e contraddizioni che queste si portavano appresso, erano il tratto comune di ogni tipologia sociologica. Questo è facilmente spiegabile poiché, per tutta una e lunga arcata storica, il riferimento alla dimensione di classe rimandava sempre a questa in senso storico – politico e non a semplice descrizione economica e sociale per questo, i conflitti che caratterizzano ogni società, sono percepiti e riconosciuti come conflitti di classe all’interno dei quali la dimensione individuale è costantemente ricondotta.
Se c’è una cosa che caratterizza le società passate è la permanente ascrizione degli individui all’interno di una dimensione collettiva. La stessa società americana, in apparenza la più individualista, in realtà costruisce un suo modello di collettività, il cosiddetto american style way, all’interno del quale ascrivere e confinare le vite degli individui. Tutti gli stereotipi sulla “famiglia americana”, per esempio, soggiaciono esattamente alla costruzione di un immaginario collettivo a cui è necessario aspirare e conformarsi. Per altro verso, pensiamo alle società europee, costruire un collante collettivo per le masse subalterne è stato un imperativo costante delle classi dominanti. Intorno alla Chiesa, la Patria e la Nazione le classi dominanti hanno costruito e foraggiato contenitori collettivi finalizzati a concorrere con i movimenti operai e proletari di natura anarchica, comunista e socialista. Anche tutto questo non fa che confermare come la dimensione storico – politica delle classi abbia governato più di una epopea storica e, aspetto decisivo, come in tutte queste epoche le masse siano state oggetto di un costante interesse per il potere politico. Governare e controllare le masse non è un problema di ordine pubblico ma un problema politico strategico poiché proprio sulle masse e la loro cooptazione nei progetti imperialisti dei rispettivi stati, poggia per intero la “volontà di potenza” del capitalismo giunto nella sua fase imperialista. Paradigmatica, al proposito, la “battaglia politica” condotta da Weber, non per caso considerato il Marx della borghesia, al fine di condurre la classe operaia e il proletariato all’interno dei perimetri statuali.
Se escludiamo la pur non secondaria parentesi liberale, incentrata sull’individuo proprietario, il capitalismo si è sempre operato per dare una dimensione collettiva alle masse subalterne basti pensare a come, persino nella Russia zarista, sia stato proprio l’autocrazia a dare forma a organizzazioni operaie e proletarie. Per molti versi si può asserire che, nell’era che ci siamo lasciati alle spalle, il contenitore entro cui organizzare le masse sia stato il centro del rapporto rivoluzione e contro rivoluzione. In tutto ciò il povero, il marginale, il deviante e via dicendo trovavano ben poco spazio e ancor meno una qualche legittimazione storica. Il marxismo ascriveva tutto ciò in quel lumpenproletariat il quale era tale proprio in virtù della sua assenza di storicità. Per Marx, infatti, il lumpenproletariat non è una classe storica ma l’insieme di residui di classi storicamente stritolate dai processi di modernizzazione. Nella migliore delle ipotesi questo segmento sociale incarna la storia di ieri ovvero il passato in via di archiviazione, mai il delinearsi di un passaggio storico. Nelle cornici che fanno da sfondo alle retoriche politiche del presente di tutto ciò non vi è traccia. La classe ha perso ogni connotazione storico – politica e, con ciò, ogni sua legittimazione.
A primo avviso quando, anni addietro, Margaret Thatcher coniò il suo famoso aforisma: “La società non esiste”, poteva sembrare di trovarsi di fronte a una semplice boutade ma in realtà, in quello stringato messaggio, era racchiusa tutta la sintesi dell’epoca che si stava prefigurando. Con ciò Thatcher non faceva altro che aprire le porte a quella società degli individui che sarebbe diventato ben presto il frame della teoria politica e sociale mainstream. Certo, i mondi sociali continuano a esistere, ma a abitarli non sono più classi bensì individui e a caratterizzarli non è più il conflitto tra le classi ma la competizione tra i singoli. Una cornice che, per forza di cose, non può avere un tratto universalista poiché, per essere ascritti alla condizione di individuo, occorrono determinate caratteristiche, in primis essere una persona socialmente inclusa il che, è sin banale, significa poter vantare una postazione sociale ed economica non irrisoria. Quindi la società degli individui è una società sicuramente per molti ma non per tutti e chi non è in grado di starvi dentro diventa uno scarto ovvero un povero, un marginale, un deviante e via dicendo. A fronte degli individui si stagliano le “masse senza volto” le quali sono tali poiché prive di dimensione storica. Ma essere privi di dimensione storica significa essere deprivati di esistenza politica ed è così che i conti tornano. Poveri, marginali e devianti sono soggetti impolitici continuamente ostaggi tanto della carità quanto di una qualche normativa “sicuritaria”. Tale scenario, nella vulgata comune, farebbe da sfondo alla post modernità. A uno sguardo leggermente più attento l’impoliticità nella quale sono confinate le masse subalterne rimanda a uno scenario le cui radici affondano per intero nella modernità poiché, a conti fatti, i suoi tratti sono propri del colonialismo. Così come nel colonialismo la condizione degli indigeni oscilla continuamente tra paternalismo e brutale dispotismo, nelle nostre società i non individui soggiaciono in permanenza a dispositivi di disciplinamento del tutto similari. Così come i popoli colonizzati erano popoli senza storia e senza linguaggio le masse subalterne delle metropoli imperialiste non hanno volto, hanno voce ma non parola.
L’insieme di questo ordine discorsivo ha non poche ricadute sul presente poiché le retoriche proprie della teoria politica delle classi dominanti hanno finito con il contaminare e influenzare anche il dibattito teorico, politico e organizzativo di ciò che, in senso ampio, si percepisce come movimento antagonista. Poveri, marginali, devianti, “anormali” e così via sono diventati, volta per volta, i soggetti sociali sui quali è calata l’attenzione degli antagonismi vari e, con ciò, si è compiuto il sostanziale abbandono della teoria marxiana insieme al totale disinteresse per la classe operaia, le sue lotte e la sua prassi. Non solo la “centralità operaia” ha perso ogni valore per gran parte dei movimenti ma l’idea stessa di classe, per gli stessi, sembra essere venuta meno.
Certo, per molti versi, l’accantonamento della “centralità operaia” può vantare una lunga e triste storia retrodatabile, almeno, sino alla metà degli anni Settanta quando in non poche aree della sinistra radicale l’attenzione si spostò su altri soggetti sociali. Per molti versi, per quanto paradossale possa sembrare, fu proprio una componente non irrilevante dell’Autonomia operaia, quella legata alla rivista Rosso, a abbandonare la “centralità operaia” e a declinare le sue analisi e il suo intervento intorno ai “nuovi soggetti sociali” facendo proprie le suggestioni sociologiche di matrice anglosassone, le quali consideravano la classe operaia del tutto integrata dentro il sistema capitalista e non più capace di essere il fulcro della rottura rivoluzionaria. Ipotesi che trovarono una sponda non secondaria tra la socialdemocrazia, basti pensare al più che noto Le due società di Asor Rosa, che tradusse la compatibilità operaia in quel “la classe operaia che si fa stato” di berlingueriana memoria . Sulla scia di ciò iniziò una forsennata e perenne ricerca del “nuovo soggetto” rivoluzionario.
Queste ipotesi, tuttavia, non rifiutavano l’ipotesi della rottura ma la articolavano al di fuori del conflitto operaio il quale, nella migliore delle ipotesi, diventava un possibile elemento di supporto alle pratiche di ciò che, volta per volta, veniva individuato come il soggetto rivoluzionario. Oggi, però, ci troviamo di fronte a qualcosa di assai diverso poiché a venire meno è l’idea stessa della rottura rivoluzionaria.
Sulla falsariga della teoria politica mainstream anche ciò che passa per antagonismo non ipotizza l’abolizione dello stato presente di cose ma, molto più modestamente, il supporto a tutti quei soggetti poveri e marginali posti al bando dai meccanismi sociali e politici del presente. Di fatto, se pur di segno rovesciato, a essere fatto proprio è il discorso del potere. Ma è proprio così? Veramente le nostre società sono ciò che l’ordine discorsivo dominante ci racconta? Molti indicatori sembrano raccontare altre cose e, per comprenderlo, basterebbe fare proprio un noto assioma: “I fatti hanno la testa dura”, per vedere come la realtà dei nostri mondi sia ben lontana dalla narrazione dominante. Ogni giorno, infatti, assistiamo al proliferare di lotte operaie, quelle della logistica ne rappresentano sicuramente la punta più avanzata, che rimettono al centro delle nostre società il conflitto tra capitale e lavoro salariato. Allo stesso tempo assistiamo alla radicalizzazione e all’auto – organizzazione, in particolare al Sud, del movimento dei disoccupati e al proliferare di lotte sul salario indiretto, come la lotta per la casa, o il nascente movimento contro il caro bollette che ripropongono in maniera forte in termini di classe il conflitto sociale. Per molti versi si può asserire che la sconfitta operaia non c’è e che, pur tra mille difficoltà, la lotta proletaria spinge verso forme di conflitto sempre più dure. In tutto ciò a essere realmente assente è una soggettività politica in grado di essere sintesi e tattica di partito. La battaglia politica per il ripristino della “centralità operaia”pertanto diventa il passaggio obbligato e non più rimandabile per trasformare in soggettività politica la soggettività della classe.
Per la “centralità operaia”
Per il potere operaio!
EMILIO QUADRELLI
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