Ogni anno, il ventidue di febbraio le strade dei quartieri di Montesacro e del Tufello si riempiono per Valerio Verbano, un giovane romano di Autonomia ammazzato da un commando fascista nel 1980
A Roma, ancora una volta, migliaia di persone sfileranno per i quartieri di Montesacro e Tufello a 43 anni dall’omicidio di Valerio Verbano, ucciso in casa sua davanti agli occhi dei genitori da un commando neofascista. La storia di questo giovanissimo militante di Autonomia di 18 anni, studente del Liceo Archimede, continua a produrre oggi nuove forme di soggettivazione politica e a riprodurre nuove forme di immaginario che diventa impegno e mobilitazione.
Come è successo che al tempo della narrazione degli opposti estremisti e dei postcomunisti tutti impegnati a comprendere le ragioni dei postfascisti, al contrario la storia di Verbano si sottraesse alla melassa indistinta della pacificazione nazionale per diventare un punto di riferimento simbolico e sentimentale per chi non rinunciava a un punto di vista partigiano? “Merito” di un lavoro che dura ormai da vent’anni di due nuove generazioni, quella che ha vissuto la stagione del G8 di Genova e quella immediatamente successiva, che è stata in grado di produrre un discorso ostile a ogni reducismo di innescare una storia che arrivava dritta dalla fine dei lunghi anni Settanta italiani per farla deflagrare nel presente.
Oggi la sfida che ci si presenta davanti è ancora nuova. Silvio Berlusconi ha sdoganato negli anni Novanta i postfascisti facendoli accomodare nelle stanze del potere. Se con Tangentopoli e la “fine della storia” il cordone politico attorno agli eredi dell’Msi è collassato, oggi ci troviamo di fronte all’assalto ai gangli stessi delle strutture di potere da parte dei postfascisti. Basta vedere biografie e dichiarazioni del presidente della Camera Lorenzo Fontana – espressione teocon della destra italiana – e del presidente del Senato Ignazio La Russa – uno che è stato fascista e che si vanta della sua collezioni di cimeli del Ventennio, per cogliere appieno il cambiamento.
Cosa succede quando le idee e i valori che provengono direttamente dai fascismi del Novecento si innestano nel governo della ormai perpetua crisi neoliberale?
La destra- destra italiana che ha vinto le elezioni dello scorso settembre ha già lanciato tre offensive in contemporanea: da una parte quella alle condizioni di vita materiale dei ceti popolari a partire dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, dall’altra alle libertà individuali e collettive (tra uno stop sostanziale all’allargamento dei diritti civili e l’utilizzo della decretazione d’urgenza per restringere gli spazi del dissenso) e infine l’investimento nelle forme di energia fossile sabotando la riconversione ecologica. Infine c’è l’assalto alle istituzioni culturali, alla scuola e agli spazi dell’informazione e alla Rai per raggiungere l’obiettivo che la destra-destra insegue da anni: l’egemonia nelle istituzioni culturali e deputate all’educazione e alla formazione del senso comune.
In questo contesto dobbiamo riscrivere ancora una volta la grammatica del nostro antifascismo, che deve essere allo stesso conflittuale e antagonista, innervarsi di pratiche che trovino consenso sui territori dove agiamo e ambiscano a essere maggioritarie, parlare la lingua dei femminismi e dei movimenti per la giustizia climatica. Il nostro antifascismo crediamo quindi non debba essere né una petizione di principio senza pratica antifascista, né una postura identitaria e minoritaria, tantomeno un’astratta difesa della democrazia e dell’esistente.
Il 22 febbraio sarà ancora una volta l’occasione per costruirlo insieme questo linguaggio. Noi già stiamo provando a misurarlo in questi mesi negli spazi dove agiamo tra centri sociali, collettivi delle scuole, comitati di quartiere e anche dentro il governo di prossimità.
La stabilita’ democratica e governativa non si ottiene senza la legittimazione dal basso, con i nominati dai nominati, il caos parlamentaristico, le mere alchimie elettorali o con i colpi di spalla. Non sono i poteri in se’ a disposizione di chi governa che devono fare paura, ma le leve del comando ottenute senza la delega o il mandato diretto dei cittadini. Questo deve incutere timore e preoccupazione, non la retorica vuota dell’ ‘Uomo solo al comando’. Il sistema Presidenziale e’ la forma di governo piu’ stabile poiche’ implica una separazione chiara ed imprescindibile dei poteri tra l’esecutivo che dirige ed amministra ed il legislativo che promulga le leggi che definiscono le fondamenta di una nazione libera. Le dittature nascono e prosperano nei sistemi deboli, non i quelli stabili. Leggi i posts sulla nostra pagina e partecipa alla discussione, sei il benevenuto.
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