Giorgia Meloni alla prossima riunione del G7 – che si svolgerà a partire da domani a Hiroshima – discuterà con gli alleati, tra le altre cose, della posizione dell’Italia sull’accordo della Nuova Via della Seta cinese, stipulato dal governo Conte nel marzo 2019. La Nuova Via della Seta, o Belt and Road Inititive (BRI), è il più grande progetto infrastrutturale cinese per dare via a nuove rotte commerciali terrestri e marittime che facilitino gli scambi commerciali con i Paesi dell’Eurasia e del resto del mondo. L’adesione italiana alla BRI è un tema particolarmente sensibile in quanto contribuisce a determinare la posizione internazionale dell’Italia sullo scenario globale, spostando – in caso di rinnovo del memorandum d’intesa – l’asse del partenariato commerciale di Roma verso Oriente, indisponendo così non poco la Casa Bianca che tiene strettamente sotto sorveglianza il governo della Penisola.
Le “vie della seta”, infatti, avvicinando Italia e Cina, contribuirebbero a modificare anche gli equilibri geopolitici, facilitando una maggiore indipendenza dell’Italia da Washington. Non a caso, le nuove rotte commerciali pensate da Pechino rappresentano un cambio di paradigma epocale nel quadro della globalizzazione, caratterizzato dallo spostamento a est del baricentro del mondo. Per questa ragione, all’ultimo G20 di Bali, durante il bilaterale della premier italiana con il presidente americano, Joe Biden, quest’ultimo ha dato una sorta di ultimatum a Roma: ritiratevi dalla Via della Seta. Interessante notare come, del resto, l’Italia sia l’unica nazione appartenente al G7 ad avere sottoscritto il memorandum con la Cina, a riprova del fatto che l’accordo non è un mero accordo commerciale, ma ha importanti ripercussioni geopolitiche. Ora, dunque, il governo italiano è costretto a decidere in fretta se uscire o meno dall’accordo entro il 22 dicembre di quest’anno: in caso di mancata uscita, infatti, l’intesa si rinnova automaticamente per altri cinque anni. Roma si trova quindi obbligata ad un difficile gioco di equilibrismi per non scontentare Washington e, allo stesso tempo, per mantenere buoni rapporti con il Dragone.
La questione dell’adesione italiana alla Via della Seta rientra nel più ampio contesto della gestione delle relazioni con Pechino da parte dell’Ue: l’Italia, infatti, difficilmente può muoversi da sola senza tenere conto della posizione comunitaria a riguardo. In merito, Bruxelles sta provando a ricalibrare le relazioni con il Dragone, cercando di ridurne la dipendenza e, allo stesso tempo, di evitare un duro disaccoppiamento economico-commerciale che danneggerebbe le economie occidentali. Il governo italiano, dunque, vorrebbe adottare la medesima strategia, ossia rimodulare gli accordi con la Cina di modo da non ottenere uno strappo netto con Pechino e da non irritare Washington: a tal fine, Giorgia Meloni ha cercato di rinviare la decisione a dopo l’estate prendendo tempo e, come “contropartita”, ha adottato una posizione rigidamente filo NATO per quanto riguarda la questione ucraina.
Tuttavia, con ogni probabilità, il governo non potrà tergiversare ancora a lungo sull’abbandono dell’iniziativa strategica di Pechino per non creare tensioni con gli “alleati” d’oltreoceano che, come emerge da diverse questioni, dettano integralmente la linea di politica estera di Roma, spesso a scapito degli interessi di quest’ultima. A riguardo, il sottosegretario del ministero degli Esteri, Giorgio Silli, durante un’audizione parlamentare a Roma mercoledì, ha dichiarato che «sebbene una decisione finale non sia stata ancora presa, non ci sono dubbi che l’Italia appartenga strategicamente all’Occidente».
Se da un lato, i critici dell’iniziativa vedono nella Nuova via della seta uno strumento di conquista o di “soft power” da parte di Pechino, dall’altra i sostenitori ritengono che l’eventuale “approccio predatorio” cinese non possa essere superiore a quello di altre potenze, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Del resto, è difficile pensare che l’adesione alle nuove rotte commerciali del Dragone non porti alcun vantaggio alla Penisola, specialmente se si considera la sua posizione strategica nel Mediterraneo, a metà strada tra Africa e nord Europa: già fortemente presente in Africa, Pechino cerca, infatti, un Paese europeo di riferimento prospicente al Continente nero con cui collaborare dal punto di vista della logistica commerciale. Ovviamente, l’Italia dovrebbe essere selettiva nello scegliere gli investimenti, «accettando solo quelli che producono aumento del Pil, dell’occupazione e la possibile apertura del mercato cinese ai prodotti italiani», per non dare spazio ad eventuali atteggiamenti predatori di Pechino, come aveva spiegato a suo tempo il sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico del governo Conte I, Michele Geraci. D’altro canto, non vi è il rischio che Roma cada nella “trappola del debito” alimentata dagli investimenti cinesi, in quanto il 32% del debito pubblico italiano è in mano straniera, soprattutto francese e tedesca, mentre Pechino non investirà 700 miliardi nel debito nostrano, evitando così che si crei un legame di dipendenza.
Resta il fatto che gli eventuali svantaggi o benefici dell’adesione italiana alla Nuova Via della Seta andrebbero stabiliti a Roma e non a Washington (né a Bruxelles). Sembra, invece, che il governo nostrano sia già pronto a obbedire agli USA, sebbene stia prendendo tempo per capire come gestire le relazioni con Pechino. Anche per questo, la visita alla Casa Bianca della premier italiana è stata rimandata più volte, prima dalla primavera a giugno e ora, ancora, a inizio luglio. Palazzo Chigi sarà costretto, dunque, a trovare un compromesso tra le pretese di Washington e le ambizioni di Pechino, con il serio rischio però di mettere in secondo piano gli interessi nazionali per non scontentare la potenza a stelle e strisce.
[di Giorgia Audiello]