Se non è combinato, poco ci manca. Si tratta del dispositivo che si viene a creare nella saldatura tra il metodo di gestione dell’aumento dell’inflazione nel Vecchio continente e il modo in cui il governo Meloni affronta le stesse concause di crisi economica locale e globale. Lagarde aumenta i tassi di interesse, quindi il costo del denaro, mentre l’esecutivo delle destre non muove un muscolo nella difesa del potere di acquisto dei salari, nella preservazione delle pensioni, nell’aumento dei diritti del mondo del lavoro.
Struttura economico-bancaria e sovrastruttura politico-amministrativa vanno di perfetto accordo, anche se Meloni deve mostrarsi indignata nei confronti del MES (il cosiddetto “Fondo salva-Stati“, ossia il “Meccanismo europeo di stabilità“), recuperando un po’ di foga sovranista e populista, tipica dei comizi elettorali, nel riferire al Parlamento che quell’accordo, quella struttura operativa lei non la condivide e il governo tanto meno.
Quindi, almeno per ora, niente ratifica da parte dell’Italia. Ma l’autunno che si avvicina porterà Palazzo Chigi a più miti consigli… Rimane il nodo, a dire il vero molto poco gordiano, della Lega che punta i piedi per fare salva una specie di rara coerenza nelle questioni che concernono i rapporti economico-finanziari e quelli con un elettorato di riferimento, quel ceto medio da tutelare nel nome – più che dell’interesse nazionale – di una specificità tutta regionalista e nordica.
Quello che il governo non dice, perché, molto semplicemente, non può affermarlo, è che ancora una volta la crisi viene affrontata dal punto di vista dei profitti e delle imprese e non certo seguendo la linea che Landini vorrebbe e che, giustamente, richiede a gran voce ad ogni manifestazione: proteggere il lavoro, i diritti sociali, le tasche e le vite di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori; unitamente a ciò, tassare gli extraprofitti cumulati a far data dalla crisi della Covid19, imponendo un regime fiscale progressivo, sostenendo così una ripresa dei consumi molto più virtuosa di quella attuale.
Invece, la favoletta che il governo delle destre tenta di propinarci è, pari pari, simile a quella che la governatrice della BCE espone a Sintra, al forum dei rappresentanti delle banche centrali di mezzo mondo: non sono i profitti eccessivi ad innescare l’esponenziale aumento dell’inflazione a livello globale e nell’Europa sempre più preda della recessione (e della stagnazione). Sono i salari. La colpa è di chi lavora e non di chi sfrutta il lavoro altrui per arricchirsi.
E’ un copione logico, perfettamente aderente ai dettami del liberismo moderno: cosa c’è di più rassicurante per banche, finanziarie e medio/grandi imprese se non attribuire le responsabilità dell’aumento dei prezzi ad un collegamento diretto, da causa-effetto, tra salari e prezzi delle merci?
La faccia tosta dei padroni, dei grandi banchieri e, quindi, del governo della Repubblica, arriva al punto da negare, per lo meno in Italia, che i salari siano fermi da una decina di anni e che, nonostante l’aumento di 123 euro al mese per i metalmeccanici, neppure quel settore produttivo abbia conosciuto una inversione di tendenza tale da trascinarsi dietro, virtuosamente, altri indotti, altri ambiti industriali.
Meloni prova a rinverdire gli slogan del settembre scorso, quando la campagna elettorale era in pieno svolgimento: si scaglia contro Draghi, contro Gentiloni, contro la BCE.
Fa la nazionalista dai tratti politicamente autarchici; pronuncia frasi altisonanti per mostrare tutta la sua dedizione ad una causa nazionale che nega nei fatti con politiche che contrastano non l’evasione fiscale, l’accumulazione indiscriminata dei profitti o lo sfruttamento del lavoro sempre più parcellizzato, precario e insostenibile (il caso dello sciopero dei lavoratori di “Mondo Convenienza” dovrebbe dirci qualcosa in merito…), ma che, invece, sostengono l’esatto contrario.
La destra fintamente dedita all’interesse popolare e nazionale, del resto, fa la destra liberista quando deve gestire i tratti economici del Paese. Se il discorso pronunciato in Parlamento aveva i toni muscolari e la rigidità mandibolare di quelli che si tenevano dal balcone di Palazzo Venezia, arrivando persino a citare le “dittature comuniste” e altro armamentario retorico trito e ritrito nei tentativi di screditamento della storia della sinistra in Italia da parte dei fascisti e dei postfascisti del nuovo millennio, la remissività del governo si è già ampiamente mostrata nella incapacità di applicazione del PNRR.
Un tasto dolente, una ferita aperta a cui Meloni e ministri competenti non sanno rispondere se non scaricandosi temporalmente le responsabilità sulle gestioni precedenti. Il governo, all’inizio di questa caldissima estate, si trova ad affrontare una crisi economica che è crisi sociale e sembra non aver bene inteso che non esistono grandi margini di manovra per contentare sia i padroni sia i lavoratori, sia i ricchi sia i poveri.
E’ prima di tutto il partito di maggioranza relativa ad essere il bersaglio dei propri alleati: Forza Italia lo ha fatto capire in sede di commissione, sul DL lavoro; la Lega rintuzza la Presidente del Consiglio quando si tratta di MES e di accordi europei; ma pure sul dibattito che riguarda la guerra alcune scintille si percepiscono quando, da parte dei senatori salviniani, si fa riferimento ad una sindacabilità di una ricerca diplomatica della fine del conflitto in Ucraina, mentre il governo meloniano è allineato senza alcun tentennamento ai diktat della NATO.
Per essere sinteticamente espliciti: il governo rappresenta oggi che di più regressivo vi possa essere sulla scena politica italiana. Sul piano sociale, fiscale, economico, culturale, tanto di politica interna quanto di politica estera.
Mentre la recessione tedesca e francese si fa sentire e bussa alle porte di un’Europa che cumula tutti questi tratti delle economie nazionali e li sopporta sempre meno, l’Italia è parsa fino ad oggi in controtendenza. Le stime sul percorso dell’inflazione, seppure leggermente ottimistiche nel raffronto mensile diffuso dalle televisioni e magnificato come risultato dell’operato del governo, in realtà consegnano uno scenario tutt’altro che rassicurante.
Alcuni indici produttivi notano come vi sia una contrazione dei consumi, nonostante l’alleggerimento del costo di una serie di beni di consumo primari. Il tutto è determinato dall’orientamento dato dal costo dei carburanti e delle fonti energetiche. A traino del grande traffico commerciale che insiste, grazie anche all’economia di guerra, su queste materie prime, va oggi tutto un comparto di sviluppo che risente quindi delle oscillazioni che subiscono i prezzi della benzina, del gas, del petrolio in generale.
Il nostro governo non ha messo in essere una politica di tutela del consumo medio-piccolo: non ha pensato ad altro, nei confronti dei risparmiatori e del mondo del lavoro, se non ad interventi una tantum, a bonus in funzione di rattoppi dimostrativi di una buona volontà che finisce già laddove comincia. Una vera lotta contro le speculazioni finanziarie in questi settori, contro l’accumulazione di ingenti capitali a scapito del lavoro e di quel vasto mondo della precarietà e dell’instabilità sociale, non è mai nemmeno stata ipotizzata.
Diventa sempre più importante una ricerca sì di un campo largo ma decisamente su un piano nettamente progressista, di alternativa: non è immaginabile che si possa lasciare alle destre di governo (e in generale a queste forze conservatrici e reazionarie) la bandiera della rivendicazione dell’interesse nazionale come fenomeno evidente dell’interesse popolare, sociale, magari pure di classe.
Occorre unire le lotte: dal lavoro alla sanità, dall’ambiente alla scuola, dal salario alle pensioni, dai diritti sociali a quelli civili ed umani. Ed occorre farlo pensando ad una sinistra radicalmente tale che dialoghi con il resto delle opposizioni senza per forza impiccarsi all’asfittico tema delle alleanze come discriminante della condivisione o meno di singole lotte comuni, di singoli percorsi di opposizione al melonismo che, tuttavia, possono anche essere un inizio di collaborazione più generale.
Se si riuscisse a fare una “unità nazionale” delle opposizioni progressiste e di sinistra di questo Paese, si darebbe fiato ad una domanda di alternativa che non può essere nuovamente però delusa da un tentennamento sui temi economici. Se i diritti sono tutti importanti, allora è compito di socialisti, comunisti, verdi e altre anime del progressismo italiano cercare un comune denominatore nel rispetto delle singole opinioni, dei singoli percorsi, degli specifici orientamenti.
Non si tratta di fare un nuovo “Ulivo” o, forse peggio ancora, una nuova “Unione” prodiana. Bisogna accantonare il liberismo come elemento strutturale di costruzione di una politica progressista che, per tutti questi anni, è stata distorta esattamente da questa incompatibilità: valori di sinistra e politiche di destra.
Unione Popolare ha il diritto, ma pure il dovere, di interfacciarsi con le altre opposizioni e di cercare per le proprie lotte un sostegno più ampio di quello che le potremmo darle noi che ne facciamo parte, che la sosteniamo e la promuoviamo. Così, allo stesso tempo, la sinistra moderata deve dismettere la presunzione di essere l’unica interprete possibile del mondo del lavoro, visto che le anime di una società atomizzata non sono tutte quante incasellabili nello “schleynismo” così come in altri “ismi“.
Se vogliamo archiviare quanto prima l’esperienza del governo nero di Giorgia Meloni, dobbiamo prima di tutto battere quella connessione empatica, ideale e morale che le destre hanno stabilito con le parti più indigenti, deboli, fratturate e scomposte di un Paese più povero e disagiato rispetto all’inizio del nuovo millennio.
Dobbiamo ritrovare un internazionalismo a cui affiancare un popolarismo sociale qui, nell’Italia del finto sovranismo e del finto nazionalismo. Per fare questo, però, non si può prescindere da una condivisione chiara sulla pace, contro ogni guerra e ogni riarmo, contro la NATO, arrivando quindi a considerare non uguali tra loro il capitale e il lavoro, ma dando a quest’ultimo tutta la dignità che gli spetta: quella di essere il vero motore della ricchezza comune, della collettività, del Paese intero.
Ed oggi, francamente, è molto, molto difficile poter pensare che il PD, i Cinquestelle, Sinistra Italiana, Verdi e Unione Popolare possano ritrovarsi sotto un programma minimo fatto di poche, importantissime questioni.
Se, però, certe lotte si possono intrecciare e rendere comuni, abbiamo il dovere di trovare i punti di incontro e di fare qualunque cosa per mandare a casa questo governo ma, prima di tutto, sconfiggere quel sentimento diffuso di capacità salvifica che gran parte della gente attribuisce ad una delle peggiori destre illiberali, antidemocratiche e conservatrici delle nazioni fondatrici dell’Unione Europea.
L’estate porti consiglio alle forze di opposizione. L’autunno che arriverà sarà, viste le premesse economiche e antisociali, molto, molto destabilizzante.
MARCO SFERINI