Alessandra Algostino

1. Il fascino del Capo e la limitazione del potere

Il rafforzamento dell’esecutivo è il mantra (bipartisan) dei riformatori che hanno attraversato la storia repubblicana e dei tentativi di modifica della Costituzione – dai più “blandi” della Commissione Bozzi (1983-1985) al crescendo di verticalizzazione in senso semipresidenziale della Commissione D’Alema, 1997-1998) – come delle riforme Berlusconi (2006), nel segno del “premierato assoluto”, e Renzi-Boschi, in connubio con l’Italicum (2016).
Il premierato è una modalità di scelta del Capo meno appariscente di quelle del presidenzialismo o del semipresidenzialismo, ma non per questo meno pericolosa per gli equilibri e la limitazione del potere propri di una democrazia costituzionale. Non necessariamente il premierato è il “male minore” rispetto a declinazioni presidenzialiste e semi-presidenzialiste. Tutt’altro. Dipende da quale premierato. In prospettiva comparata, esso evoca la forma di governo inglese, ovvero la centralità del Primo ministro; nella vulgata politica odierna rinvia a una eterogeneità di forme: modello Westminster, breve (e fallimentare) esperienza neoparlamentare israeliana (1996-2001), Cancellierato tedesco o, per restare in Italia, “governatorato” regionale e “sindaco d’Italia”. Le sue sembianze al momento sono sfuggenti e cangianti, a seconda dei tratti che il riformatore sceglierà per comporre il puzzle del suo volto: elezione diretta del premier, con o senza la formula simul stabunt, simul cadent (sul modello regionale e comunale), indicazione del futuro Primo ministro sulla scheda elettorale, previsione di premi di maggioranza, attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di scioglimento delle Camere, introduzione di variazioni sul tema della sfiducia costruttiva, istituzione di canali legislativi privilegiati per il Governo, potere del Primo ministro di nomina e di revoca dei ministri. In sintesi, i contorni della riforma sono ancora nebulosi, ma l’obiettivo, dichiarato e perseguito, è chiaro: rafforzare e concentrare poteri nel vertice dell’esecutivo.
La forza del Primo ministro è costruita erodendo l’equilibrio dei poteri e le competenze proprie degli altri organi costituzionali, senza considerare checks and balances. Qualche breve osservazione sul punto. La marginalizzazione dei consigli comunali e regionali correlata all’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Regione rende facile il pronostico su quanto accadrà, con l’eventuale elezione diretta, a un Parlamento già agonico. Non resterebbe indenne nemmeno il Presidente della Repubblica: se pur non vestito di altri abiti, come nelle ipotesi presidenzialiste e semipresidenzialiste, verrebbe spogliato di competenze, a partire dalle più incisive: il potere di nomina del Governo e il potere di scioglimento delle Camere. Preciso: si ragiona di rafforzare e concentrare ulteriormente poteri nel Governo e nel suo vertice. Esiste già un “premierato di fatto”. La gramsciana rivoluzione passiva verso il premierato è iniziata surrettiziamente attraverso le leggi elettorali (il primo passo è stata la svolta in senso maggioritario del 1993) e l’abuso dei poteri del Governo (dal ricorso ai decreti legge all’utilizzo sistematico della questione di fiducia, dalla prassi dei maxiemedamenti governativi al monocameralismo “di fatto” etc.), con l’acquiescenza del Parlamento e troppo rari e troppo “leggeri” interventi del Presidente della Repubblica, sino a invertire il rapporto di responsabilità politica: è il Parlamento ad essere responsabile nei confronti del Governo nel ratificare in modo rapido ed efficiente le sue decisioni.

2. L’ambiguità della stabilità e il pluralismo

La giustificazione per una ulteriore verticalizzazione del potere è la stabilità di governo, fine apparentemente neutro. Difficile negare che la stabilità possa essere “un bene”, sempre che non conduca all’ossimoro della democrazia senza conflitto; tuttavia, certamente non è un “bene in sé”, un fine ultimo; come per il concetto di “governabilità”, alcune domande sono d’obbligo: stabilità per chi, per che cosa come?
Un Governo stabile, in presenza di un pluralismo partitico adeguatamente rappresentato in un Parlamento forte, il cui indirizzo politico si rifà all’attuazione della Costituzione, è molto diverso da un Governo stabile a scapito del pluralismo e della rappresentanza, nonché fedele in primo luogo all’agenda neoliberista. Come ricorda la Corte costituzionale, ragionando di sistema elettorale, costituisce «senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo […] lo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale» ma, se ciò consente «una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare», diviene «incompatibile con i principi costituzionali» (sentenza n. 1 del 2014).
Aggiungo un dato di fatto. Consideriamo la stagione del disgelo costituzionale, gli anni Settanta, con lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), la disciplina del referendum (legge n. 352 del 1970,), i provvedimenti relativi all’istituzione delle Regioni (1968-1970), la legge sul divorzio (legge n. 898 del 1970), la riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975), la legalizzazione dell’aborto (legge n. 194 del 1978), la legge “Basaglia” e la chiusura dei manicomi (legge n. 180 del 1978), l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1970). Sono leggi adottate in un arco temporale nel quale si susseguono la V Legislatura (1968-1972), con sei Governi (Leone II, Rumor, Rumor II, Rumor III, Colombo, Andreotti); la VI Legislatura (1972 -1976), con cinque Governi (Andreotti II, Rumor IV, Rumor V, Moro IV, Moro V); la VII Legislatura (1976-1979), con tre governi Andreotti (III, IV e V). A contrario, pensiamo al secondo Governo Berlusconi, in carica dal 2001 al 2005, o al quarto Governo Berlusconi, stabile per tre anni, dal 2008 al 2011: a prescindere dai potenziali contenuti dei provvedimenti legati ai colori dei governi e al radicale mutamento del contesto sociale (e internazionale), non mi pare siano anni segnati da intensa e incisiva attività normativa. Certo, le variabili da considerare sono molte, ma non affiora come forse non sia il numero dei governi a frenare le attività politiche e normative? come non sia il pluripartitismo a bloccare la vita politica? Emerge, invece, come la vitalità della democrazia stia nel pluralismo e nel conflitto, e come tale vitalità ben possa trovare espressione nel Parlamento e in una sovranità popolare conflittuale.

3. Il contesto: la verticalizzazione del potere come tendenza globale e il populismo identitario

Ogni valutazione del premierato, come di qualsiasi riforma, non può, quindi, prescindere dal contesto. Il diritto, le Costituzioni, vivono nella materialità della storia.
La verticalizzazione del potere è una tendenza globale, che accompagna l’ascesa del neoliberismo; basti ricordare l’«eccesso di democrazia» lamentato dalla Commissione Trilaterale (1975) e gli «esecutivi deboli» oggetto delle critiche della J. P. Morgan (Report del 2013). La fascinazione politica della destra per “il Capo” si incontra con l’efficientismo richiesto dal finanzcapitalismo nella sua corsa alla massimizzazione del profitto e il nazionalismo identitario converge con l’egemonia del neoliberismo nell’opera di neutralizzazione del conflitto sociale. La concentrazione del potere segna – insieme alla repressione del dissenso, alla sterilizzazione del pluralismo, all’abbandono dell’orizzonte della emancipazione sociale (sostituito dalla logica meritocratica e dalla colpevolizzazione della povertà) – la «lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere» (Gallino), la degradazione della democrazia in postdemocrazia, il suo scivolamento nell’“autocrazia elettiva”.
In Italia, l’affidamento all’uomo forte al comando si innesta su squilibri nell’assetto istituzionale (la riduzione del Parlamento a organo di ratifica delle decisioni dell’esecutivo), un sistema partitico nettamente sbilanciato a destra (non solo per gli esiti delle urne, ma per la mancanza di una sinistra vera e forte), un terreno sociale acquiescente rispetto a una deriva autoritaria, una conflittualità sociale frammentata (vi sono interessanti esperienze di convergenze, ma al momento sono isole in un mare di passività). Il terreno sul quale si vorrebbe innestare il premierato è politicamente arido. Non è solo questione delle drammatiche percentuali di astensione dal voto o della disaffezione politica. L’aridità ha seccato le radici della società. L’humus sociale è saturato dal populismo, con la sua passività, il suo acritico affidamento, la sua propensione al decisionismo. È un populismo identitario (quell’identità che Remotti riconduce in ultima istanza a una logica di sopraffazione), intriso di un nazionalismo conservatore all’insegna del “Dio, patria e famiglia”, e pervaso dalla logica schmittiana “amico-nemico”, che compatta in chiave escludente e contrappositiva la moltitudine disgregata e autoreferenziale dell’homo oeconomicus. È una società destrutturata nel legame sociale e nei suoi corpi intermedi dall’individualizzazione sfrenata; una società dove dilaga il dominio della tecnica, con la sua spoliticizzazione. È un terreno fertile per la sostituzione della dialettica e della mediazione proprie di una forma di governo parlamentare con la decisione di un organo monocratico, il quale raffigura – citando Carl Schmitt – «l’uomo di fiducia di tutto il popolo». La rappresentanza da politica e plurale diviene simbolica e unitaria. Si coniugano la verticalizzazione istituzionale del potere e la personalizzazione propria del potere carismatico; un potere carismatico che è transitato in «potere plebiscitario» (Weber).

4. Quale democrazia?

In questo contesto, l’unica vera riforma necessaria sarebbe rafforzare il Parlamento (… ovvero, attuare la Costituzione), favorendo un circuito virtuoso con la costruzione di una rappresentanza radicalmente plurale e conflittuale (muovendo da una legge proporzionale pura): un Parlamento come luogo di scontro e mediazione politica fra visioni del mondo, titolare dei propri lavori, soggetto attivo nel rapporto di responsabilità politica con il Governo. Ingenuità da costituzionalista nell’era in cui sfuma vieppiù la distinzione fra democrazia e autocrazia? Forse, ma, per l’appunto, è questione di sopravvivenza della democrazia. La democrazia, se vuole essere effettiva, vive di partecipazione e di conflitto, altrimenti è maschera, mero strumento di gestione del potere e controllo sociale. Intendiamoci: in questo senso un rafforzamento del Parlamento è necessario, ma non sufficiente. Ineliminabile è la forza dei conflitti sociali, come necessario è il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale: è il disegno della democrazia conflittuale e sociale, che lo scellerato connubio fra autonomia differenziata e “presidenzialismo” si appresta a cancellare.
Agire controcorrente rispetto alla deriva autoritaria in arrivo e al “premierato di fatto” esistente per rafforzare il Parlamento non è un vezzo anacronistico. La Costituzione del 1948, radicata nella Resistenza e nella storia del costituzionalismo (della limitazione del potere, della garanzia dei diritti, dell’emancipazione) è un modo di intendere la democrazia, i rapporti sociali, il conflitto, il potere. In questione è, se non l’esistenza stessa della democrazia, quale democrazia.
La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma vi sono delle ricorrenze. La limitazione del potere, quale nucleo fondante del costituzionalismo, nasce dal conflitto che attraversa la storia intorno al potere e all’eguaglianza. La contenzione del potere è sempre precaria: la Costituzione è scritta nei momenti di lucidità per i giorni di follia e «gli occhi spalancati» dell’«angelo della storia» ci ricordano che la follia è il quotidiano dell’esistenza che «accumula senza tregua rovine su rovine» (Benjamin). Occorre alimentare gli anticorpi della democrazia anche quando – forse soprattutto quando – è un’azione controcorrente: contrapponendo a un realismo passivo un realismo trasformativo. Non si vuole chiudere l’orizzonte alle riforme, arroccandosi nelle trincee del Novecento, anzi: occorre uno sforzo di immaginazione per costruire forme di organizzazione sociale che limitino tutte le manifestazioni di potere e garantiscano una effettiva emancipazione, ma intanto occorre fermare la corsa alla scelta del Capo, evitare i gradini che scendono la china scivolosa del male minore “perché non c’è alternativa”, costruire barricate di cultura contro-egemonica

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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