Occorrerebbe mettersi d’accordo: sono decenni che, a un certo momento, a certi ministri del governo della Repubblica l’opposizione si trova (puntualmente) a chiedere le dimissioni. Quanto tempo si è speso nel postulare che Berlusconi facesse un passo indietro? E, dall’altra parte, la maggioranza che puntualmente fa quadrato a dire che no, che non basta un avviso di garanzia, che non basta una condanna di primo grado, che la Costituzione proclama innocente chiunque fino a che non sopraggiunga una sentenza (penale) definitiva.
Grosso modo, i termini della discussione sono sempre e solo questi. Ma il tema è ben più ampio e allora proviamo a fare un po’ di chiarezza; e magari ci convinceremo che manca, o ci manca, qualcosa.
Con la modernità la relazione tra diritto, etica e morale è progressivamente mutata per varie ragioni; e già un filosofo come Fichte registrava l’inizio della mutazione scrivendo che, al tempo suo, «ciascuno può pretendere soltanto la legalità dell’altro, non la sua moralità». Con ciò la strada era aperta per il riconoscimento, sempre più diffuso, sempre più generalizzato, della primazia del diritto sulla morale (privata) e l’etica (pubblica).
Ai giorni nostri, l’invito non è forse al rispetto della legalità? C’è forse un festival dell’etica pubblica? Assolutamente no: i festival – parecchi – sono tutti festival della legalità; e nelle scuole si insiste nel sostenere progetti di educazione alla legalità. Si capisce che in questo non c’è proprio nulla di male; ma si capisce anche che altri codici normativi, di natura diversa, sono quasi dimenticati, nonostante che noi siamo una Repubblica e questa forma di stato postula una notevole integrità etica e morale in tutti e, particolarmente, nei dirigenti politici; altrimenti, ci insegnano i classici, il rischio è che la repubblica si corrompa e si perda.
La questione è antica. Nella Politica Aristotele si domanda se l’essere un buon cittadino postuli l’essere un uomo dabbene e prudente; ma egli esige inderogabilmente la presenza di queste qualità in chi governi o ambisca a governare. Poi, nel nostro tempo, un eticista come Agnes Heller lo esclude in generale, negando che il buon cittadino debba essere anche una persona retta.
Ovviamente la questione è parecchio più complessa; ma noi ora siamo qua e l’impero della privacy, il divieto di qualunque discriminazione, il diritto di autodeterminazione ecc. escludono in confronto di chiunque qualsiasi scrutinio che non sia quello imposto dalla legge, in specie da quella penale. Qualcuno ci ha anche lodevolmente provato a invertire il trend, invitando la Repubblica – i gestori del potere particolarmente – a separare il giudizio etico da quello penale: può anche essere che una condanna non esprima un disvalore etico e viceversa può ben essere che, nonostante l’assoluzione, il disvalore etico permanga e sia indifferente all’esito dell’agone giudiziario.
Insomma c’è confusione; e anche strumentalizzazione di quest’ambiguità, sfruttata ora da una parte, ora dall’altra, a seconda di chi sia al momento all’opposizione o al governo. Semplicemente non si può volere e non volere: volere la primazia dell’individuo e dei suoi diritti e poi non volerla invocando la superiorità dello Stato e dell’interesse generale. In questo senso occorrerebbe mettersi d’accordo e instaurare una qualche valutazione, a garanzia della Repubblica e dei cittadini, quando venga il momento di formare le liste elettorali e, ancor più, la lista dei ministri.
Su La Fionda avevo rilevato, nell’autunno scorso, che molti ministri di questo governo apparivano con un prospetto non all’altezza da più punti di vista. Ora il ministro Santanchè ha dichiarato in Parlamento di essere andata a riferire per difendere l’onore suo e del figlio. Anche il termine onore, oggi più che mai, è ambiguo; ma credo che il ministro si sia appellata al diritto all’onore, cioè, al valore e alla buona reputazione che ella assume di godere nel contesto in cui vive ed opera. Un diritto soggettivo, individuale, allora. Ma l’onore è altro dalla fama: è una distinzione categoriale ben colta da Schopenhauer che aveva sottolineato che la fama, a differenza dall’onore, non è dotazione di qualunque persona, ma deve essere acquisita con le azioni, massimamente con le azioni vantaggiose per la collettività generale. Il che implica una valutazione etica.
Al ministro una distinzione di questo genere credo sfugga; ed è più comodo per lei, e i legali che le avranno redatto il testo letto alla Camera, appellarsi al diritto soggettivo, cioè alla legalità. Più comodo, ma non scorretto. La perdita della dimensione etica, diciamo del valore dell’individuo per la generalità dei cittadini e per la funzione pubblica, la perdita della fama bene intesa, determina una lacuna che non è colmabile né dalla legge né dai magistrati.
Quest’etica pubblica dobbiamo cominciare a seminarla nelle scuole; è qualcosa di più della lettura e ripetizione rituale del testo della Costituzione. L’abbiamo perduta e la ignoriamo; e la ignorano i dirigenti politici. Ora la ignorano anche i partiti che hanno abdicato a qualunque selezione al loro interno; e questi sono i risultati. Recuperarla non sarà facile; ma è un’erta da ascendere, inderogabilmente