Forse i termini tecnici stanno lì, in un sms, perché prassi vuole che ci stiano ma ciò non toglie che siano fuorvianti. Anche se tutti ormai sanno che il governo Meloni non ha “sospeso” il reddito di cittadinanza. Lo ha proprio, definitivamente abolito.

La burocrazia esige che si adoperino parole che fraintendono involontariamente il significato politico del provvedimento, ma, tutto sommato, lascia intravedere tutta l’ipocrisia di chi introduce nuove carte sociali e abolisce dei sussidi che per milioni di famiglie povere erano un appiglio cui aggrapparsi per sfuggire alla progressività certa dell’indigenza.

C’è chi considera tutto questo frutto di una modernità che deve essere gestita tramite un dialogo migliore tra governi, imprese, grande mercato neoliberista e ritiene, quindi, che ci si debba uniformare alla logica del profitto e del privato, dello stragrande benessere per pochi e dell’altrettanto stragrande miseria per molti.

E c’è chi, invece, pensa che questa società sia ormai arrivata al limite, all’insostenibilità, all’impossibile equipollenza tra ricchissimi e poverissimi in un capitalismo magnificato come il punto di approdo della Storia umana, l’ultima grande conquista di una civiltà occidentale che vede, oggi, con lo scoppio delle pandemie, delle guerre nel cuore dell’Europa, dell’ipersfruttamento della natura, l’inizio della decadenza, il principio della fine.

L’occidentalizzazione del pianeta, che possiamo – con qualche forzatura – datare già ai tempi di un imperialismo del tutto differente da quelli ottocenteschi e novecenteschi, quello di Roma, è quindi entrata in crisi? L’Europa ha conquistato il mondo intero: ha scoperto le Americhe e le ha conquistate, ha colonizzato l’Africa, si è intromessa negli affari asiatici ed è arrivata fino agli estremi poli del pianeta.

Oggi la globalizzazione può dunque dirsi completata, sebbene questa estensione totalizzante sulla Terra coincida col suo massimo punto di crisi? Oppure dobbiamo attenderci ancora nuovi sviluppi in merito?

Non si tratta tanto di una questione geopolitica; semmai ad essere in discussione è proprio il concetto di “Occidente”, inteso come dualità espressa dall’alleanza tra Vecchio e Nuovo mondo.

Dai primi anni del secolo scorso l’Europa ha lasciato il predominio del mondo all’emergente potenza statunitense. La Rivoluzione russa ha creato, alla fine, un prodotto antagonistico nei confronti del modello economico, sociale e politico che la Repubblica stellata aveva acquisito come particolare espressione di una ricerca simbiotica tra princìpi liberali e democrazia e tra questa e la successiva fase globale del capitale.

Nell’odiernità, nella strettissima attualità del post pandemia e della guerra in Ucraina, anche gli Stati Uniti sembrano entrati in una fase tutt’altro che stabile, incapaci di reggere l’urto, più che con i movimenti sociali e anticapitalisti che a diverse latitudini e longitudini si contano in giro per i continenti, con una configurazione alternativa non tanto al capitalismo quanto al costrutto egemonico della sola potenza americana.

Siccome noi siamo oggettivamente parte del mondo occidentale, forse subiamo una sorta di empatia indirettamente indotta che, pur attenuata da una critica nei confronti dell’economia di mercato e da una necessaria rivendicazione di un differente punto di vista e di azione sociale, ci rende in un certo qual modo compatibili (e compatibilisti) tanto con l’antietica del liberismo, quanto con la demoralizzazione della democrazia che se ne riscontra.

Perché non pensiamo mai che, probabilmente, siamo noi dalla parte del torto? Che siamo noi ad avere una considerazione sbagliata del mondo e di come dovrebbe essere oggi?

Forse perché siamo abituati a reputare la democrazia come la forma di organizzazione socio-politico-statale di un popolo più avanzata: quella che, pur tra mille contraddizioni, permette ai diritti sociali di progredire senza mettere in discussione i diritti civili. Tra cui quello di critica e di opposizione alle politiche governative.

La democrazia garantisce una libertà di espressione e quella possibilità di ottenere il massimo di agibilità dei propri e degli altrui diritti che altre forme di Stato non riescono a far convivere.

Ma è oltremodo vero che, in quanto parte di una sovrastruttura politica, ideale, civile e morale, l’ordinamento democratico è, paradossalmente, ancora più eterodiretto e condizionato dalla struttura economica, dalla grande finanza, dagli studi dei suoi forum che diventano vere e proprie linee di indirizzo programmatico per chi siede negli esecutivi nazionali.

Quindi, preso atto che l’Occidente è oggi in stretta competizione con la Russia, la Cina, persino l’India e l’insieme dei paesi BRICS, è ancora possibile affermare che il punto di vista della nostra società deve essere l’unico, quello che merita prevalere per la bontà di una idea di libertà che, dall’antica Grecia fino all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, si è fatta strada nei secoli e ha prodotto quella modernità di cui andiamo tanto fieri?

Si tratta, in tutta probabilità, di un fenomeno comune a tutte le civiltà, un po’ a tutti i popoli: dove si nasce e si cresce, lì si hanno non solo le radici di una autoctonia mai veramente fine a sé stessa, enunciabile come principio esclusivo e impermeabile al resto che ci circonda, ma si sperimentano tutte le induzioni che la cultura ci trasmette: dalla lingua parlata a quella scritta, dalle consuetudini alle credenze religiose.

Il neoliberismo interviene in tutti questi fattori di crescita personale e collettiva: la concezione produttivistico-consumista del mondo occidentale, di cui ogni giorni siamo fatti bersaglio dalle migliaia di pubblicità che vediamo in televisione, ed ora anche, per la maggiore, su tablet e cellulari, finisce con l’uniformarci ad una interpretazione gravemente solipsistica dell’habitat originario.

La nostra “casa“, così, non è il mondo, ma la città, la regione, la nazione in cui viviamo. Riusciamo ad estendere questo concetto, con grande difficoltà, al continente in cui il nostro Paese si trova e, molte volte, questi fattori entrano in contrasto fra loro.

E quando ciò avviene, quasi sempre è per motivi economici, per raffronti che riguardano lo stato dei debiti, la spartizione dei fondi europei, l’assegnazione di compiti a casa che i governi mal volentieri fanno se si tratta di sottrarre alla propria incertissima stabilità erariale un pezzetto nel nome dell’interesse comune.

Noi non pensiamo altrimenti se non attraverso la visione occidentale di un sistema economico che si impone economicamente su scala globale ma che, poi, a seconda delle declinazioni politiche e sociali che incontra da continente a continente, fa davvero molta fatica ad essere uniforme.

La guerra in Ucraina è un esempio negativamente straordinario di tutto questo. E non solo perché i russi raccontano una versione dei fatti diametralmente opposta a quella che è la narrazione dell’Europa, dell’America e della NATO. Ma principalmente perché all’imperialismo militare, economico e politico si affianca il modo di leggere l’attualità che non prescinde mai dalla propria storia.

Ognuno, proprio come se dovessimo fare un confronto fra le tante religioni, prodotto della mente umana e di niente altro, ritiene di possedere la ricetta giusta, risolutivamente ottima per l’intera umanità, per farla ulteriormente evolvere in un futuro di sviluppo che non escluda niente e nessuno.

A parole, nei proclami dei grandi leader, è così. Nei fatti, la guerra dei mondi è ricominciata: da quella “fredda” degli anni ’50 e seguenti del Novecento a quella molto più “calda“, anche climaticamente parlando, dei giorni nostri. I conflitti intercontinentali si stanno moltiplicando, sommandosi alle tante guerre regionali che tempestano il pianeta: l’Africa vive una condizione di rissosità bellica che è l’eredità lasciatale dal colonialismo e, in particolare, da un post colonialismo.

Al ritiro delle truppe e delle milizie dei paesi occidentali sono corrisposte lotte di potere intestine che proseguono tutt’ora: i colpi di Stato militari non si contano più e i regimi repressivi sono seguiti alle primavere arabe, alle dichiarazioni di collaborazione con quelle potenze europee e con gli Stati Uniti sono subentrate le intromissioni imperialiste di nuovo corso: Russia e Cina comprese.

La difficoltà, ammesso che ve ne sia una soltanto, sta nell’avere una visione di insieme di questa complessità globale: il provare a comprendere quanto oggi l’Occidente possa rappresentare l’intera mondialità fa il paio con la decriptazione dell’enigma asiatico.

Più o meno siamo un po’ tutti consci della potenza economica cinese: vediamo la preponderanza di merci immesse sul mercato, i grandi investimenti dei capitali stranieri in filiere produttive che accrescono i loro fatturati proprio grazie agli impianti stanziati nel paese della Grande Muraglia.

Quello di cui ancora ci dobbiamo rendere conto è il confronto fra la decadenza occidentale e l’ascesa orientale sommata al resto del mondo. America Latina, India, gli stessi paesi africani e del Medio Oriente sono quasi tutti stati oggetto della attenzioni degli Stati Uniti e dell’occidentalismo. Lo sfruttamento di questi grandi agglomerati di popoli da parte dell’Europa e di Washington se non può dirsi concluso, è senza meno molto ridimensionato.

Si tratta di tradurre questa osservazione sul piano essenzialmente politico e macroeconomico. E’ ovvio che le industrie americane ed europee continuano ad avere grandi interessi tanto in Brasile quanto in India, oppure nell’estrazione del petrolio del Golfo persico piuttosto che nei gasdotti che attraversano le regioni curde per finire nel Mediterraneo e nel nord Europa.

Altrettanto ovvia è l’osservazione dello sviluppo della cosiddetta “nuova Via della Seta“, del canale privilegiato tra il colosso di Pechino e proprio quell’Occidente antico, europeo che, oggi, ha il fiato sempre più corto. Nei secoli passati ha potuto conquistare il mondo, è vero.

Oggi sta sulla difensiva e, per cercare di limitare i danni che si è procurato sfruttando tutto e tutti, fa la guerra per procura ad una Russia che è indubbiamente l’invasore del territorio ucraino ma che è anche in diritto di difendersi dalla prepotenza della NATO e dalla sicumera a stelle e strisce.

Noi diamo troppo spesso per scontato che il nostro punto di vista sia quello esclusivamente giusto e che ogni altra alternativa sia a priori nell’errore. E’ un atteggiamento altamente dogmatico, eredità di una presuntuosa affermazione di superiorità morale che, forse, non siamo in grado di offrire al mondo.

Qualcuno, duemila anni fa, da semplice uomo che cercava un po’ di giustizia per il suo popolo e per tutti gli esseri viventi entro un imperialismo romano che, ripetiamolo, non è assimilabile alla concezione che oggi ne abbiamo sviluppato a cavallo tra Ottocento e Novecento, asseriva che chi era senza peccato poteva prendere una pietra e scagliarla contro la donna accusata di essere una adultera, una peccatrice.

La presunzione della propria condotta morale, superiore a quella degli altri, si fondava in quel caso dal giudicare, dal poterlo fare sulla base della integerrimità che ognuno si riconosceva. E’ bastato fare appello ad un sincero sguardo interiore per evidenziare senza troppe parole quanto da nessun dogma, da nessuna certezza indiscutibile venga fuori una morale condivisa e condivisibile.

La lotta per il controllo mondiale dell’economia e per la supremazia di un popolo sugli altri è di per sé la negazione di qualunque giustizia, di qualunque (ipocrita) riferimento all’uguaglianza, alla democrazia o alla condivisione delle ricchezze che restano su questo pianeta.

Ci siamo fatti alcune domande sull’Occidente di ieri e di oggi. Dobbiamo continuare a farcele, perché soltanto così potremo arrivare a capire che la spinta propulsiva del capitalismo europeo, da tempo al traino di quello americano, si è forse esaurita. Ed anche quella di Washington, almeno dalla crisi del 2008-2009, non è poi così tale da far sembrare gli USA come la “locomotiva del pianeta“.

Il dramma è uno soltanto, per i miliardi di salariati e proletari moderni che pullulano il globo: chiunque vinca non ci si aspetti la fine di questa società della proprietà privata e dello sfruttamento. Sia che prevalga un campo piuttosto che un altro, i conflitti rimarranno la cifra con cui misurare il livello della crisi economica, del disfacimento sociale, dell’impoverimento a tutto tondo.

Ma la domanda per ora resta: l’Occidente può vantarsi di essere quella parte della Terra in cui una economia “superiore” dà vita ad una morale altrettanto superiore? C’è una alternativa al liberismo?

C’è ma è la prima apolide della modernità. Il fantasma non si aggira solo più nella vecchia Europa. E per questo, forse, è difficile incontrarlo…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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