Gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione un patteggiamento che consentirebbe al fondatore di WikiLeaks Julian Assange di tornare nel suo paese natale. Caroline Kennedy, ambasciatore USA in Australia, ha riferito lunedì al Sydney Morning Herald che «potrebbe esserci una soluzione» per il caso Assange e la sua detenzione in Gran Bretagna, che dura ormai da quattro anni. Le dichiarazioni di Kennedy riaccendono la fiamma di speranza che sembrava essere stata spenta dal Segretario di Stato americano Antony Blinken, il quale a fine luglio aveva fatto intendere che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di ritirare la richiesta di estradizione per il fondatore di WikiLeaks. La “colpa” di Assange è aver fatto giornalismo d’inchiesta e aver pubblicato documenti che certificano gravi violazioni dei diritti umani. Se estradato negli Stati Uniti, rischia una condanna a vita in un carcere di massima sicurezza. Ma secondo Kennedy c’è un modo per risolvere tutte le controversie ed il Dipartimento di Giustizia sarebbe già al lavoro.

C’è ancora uno spiraglio per Julian Assange. La speranza si riaccende grazie alle dichiarazioni dell’ambasciatrice Caroline Kennedy, che quando le è stato chiesto se ritenesse possibile raggiungere un risultato diplomatico per gli Stati Uniti e l’Australia ha affermato che si trattava di “un caso in corso” gestito dal Dipartimento di Giustizia, aggiungendo: «Quindi non è davvero una questione diplomatica, ma penso che potrebbe assolutamente esserci una soluzione». Dichiarazioni che aprono a scenari diametralmente opposti rispetto a quello che emergeva dai commenti del Segretario di Stato Antony Blinken, che sempre alla stampa australiana aveva riferito: «Assange è stato accusato di una condotta criminale molto grave negli Stati Uniti in relazione al suo presunto ruolo in una delle più grandi compromissioni di informazioni riservate nella storia del nostro Paese. Le azioni che si presume abbia commesso hanno rischiato di danneggiare gravemente la nostra sicurezza nazionale a vantaggio dei nostri avversari e di mettere soggetti umani specifici a grave rischio di danni fisici o di detenzione. Capisco davvero le preoccupazioni e le opinioni degli australiani, ma penso che sia molto importante che anche i nostri amici australiani capiscano le nostre». Ma la “condotta criminale” di Assange non è altro che giornalismo d’inchiesta: il fondatore di WikiLeaks ha ottenuto e diffuso documenti che certificavano gravi violazioni dei diritti umani, delle leggi internazionali sui crimini di guerra, e di spionaggio ai danni degli alleati da parte del governo degli Stati Uniti d’America. Tuttavia, le conseguenze legali sono tutt’altro che indifferenti, visto che Assange si trova incarcerato nel Regno Unito da ormai quattro anni, ha perso il suo ultimo appello contro l’ordine di estradizione a giugno e se trasferito negli Usa rischia una condanna a vita in un carcere di massima sicurezza in virtù di 18 capi d’accusa nei suoi confronti.

Ma, secondo Kennedy, “c’è un modo per risolverle”. Alla domanda sulla possibilità che le autorità statunitensi possano concludere un accordo per ridurre le accuse in cambio di una dichiarazione di colpevolezza, ha risposto «Dipende dal Dipartimento di Giustizia». Gabriel Shipton, il fratello di Assange, ha dichiarato che «Caroline Kennedy non direbbe queste cose se non volessero [trovare] una via d’uscita». Don Rothwell, esperto di diritto internazionale dell’Australian National University, ha affermato che l’opzione più realistica è che le autorità statunitensi possano ridurre le accuse contro Assange in cambio di una dichiarazione di colpevolezza e tenendo conto dei quattro anni già trascorsi nella prigione londinese di Belmarsh. C’è un problema: il fondatore di WikiLeaks dovrebbe recarsi negli Stati Uniti per ammettere la colpa. Ma secondo Shipton si tratterebbe di una pessima idea in quanto sorgerebbe il rischio suicidio: «Julian non può andare negli Stati Uniti in nessuna circostanza». Su posizioni differenti Bruce Afran, avvocato costituzionale statunitense che ha dichiarato che “se un accordo viene raggiunto, Assange potrebbe anche non dover andare negli Stati Uniti per dichiararsi colpevole e che non c’è nulla che proibisca un appello durante la detenzione in Gran Bretagna, se tutte le parti acconsentono”.

Difendere Assange non significa difendere un singolo giornalista, ma l’intera libertà di stampa in tutto il mondo: un gruppo di ex procuratori generali australiani ha scritto al primo ministro dell’Australia Antony Albanese che «Gli Stati Uniti stanno applicando una azione di portata extraterritoriale accusando Assange, che non è cittadino statunitense e non ha commesso presunti crimini negli Stati Uniti, ai sensi del suo Espionage Act». Gli ex procuratori hanno poi aggiunto: «Riteniamo che ciò costituisca un precedente molto pericoloso e abbia il potenziale per mettere a rischio chiunque, in qualsiasi parte del mondo, pubblichi informazioni che gli Stati Uniti ritengono unilateralmente classificate per motivi di sicurezza».

[di Roberto Demaio]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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