Poche righe per ricordare Praga’68 dal “nostro” punto di vista prima che la “damnatio memoriae” condanni tutto e tutti in un unico calderone.
A distanza di 55 anni dalla repressione della “Primavera di Praga” da parte dell’URSS brezneviana e dei paesi del Patto di Varsavia (esclusa la Romania) mi permetto di dedicare questo ricordo al dibattito che in quel momento investì il PCI e si tradusse – alla fine – nell’esito di una spaccatura nella sinistra del partito.
Si trattò del momento “topico” di quella vicenda che poi avrebbe preso la denominazione di “Manifesto” (la rivista diretta da Magri e Rossanda sarebbe uscita con il primo numero il 23 giugno del 1969).
Le posizioni del “Manifesto”, che costarono a chi aveva avuto il coraggio di elaborarle, la radiazione dal PCI partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia come continua espansione dell’iniziativa dei più non bastava.
Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell’autoritarismo.
Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli creavano non pochi problemi.
Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l’egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.
Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema.
Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa.
La posizione del Manifesto restò sostanzialmente isolata sia sul piano internazionale (spaventoso il ritardo del PCF in rotta con gli intellettuali e del tutto sordo al 68 studentesco), sia all’interno del sistema politico italiano con il PCI non ancora minimamente attrezzato ad affrontare il tema del centralismo democratico (nonostante un dibattito interno “aperto” almeno fin dal convegno del Gramsci del ’62 sulle tendenze del capitalismo e poi proseguito nell’XI congresso), il PSI impigliato nelle spire dell’esito negativo delle riunificazione socialdemocratica e lo PSIUP la cui maggioranza si era allineata alle posizioni dei “carristi” perdendo quelle posizioni di originalità che pure potevano trasformarlo in un soggetto critico e dialettico nell’ambito della sinistra italiana (fu quella l’occasione dell’abbandono del partito da parte di Lelio Basso).