«Ho chiesto di essere audito da questa Commissione, insieme con il mio avvocato, difensore di parte civile, Fabio Repici, per fare sentire anche la mia voce di fratello di Paolo dopo quella dei figli di mio fratello». È iniziata con queste parole l’audizione tenuta da Salvatore Borsellino – fratello minore del giudice Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse – davanti alla Commissione Antimafia. Un incipit con cui l’attivista ha immediatamente voluto sottolineare quanta distanza intercorre tra le tesi di cui è portatore e quelle dei figli del giudice, di cui ad inizio ottobre si era fatto portavoce il loro legale, Fabio Trizzino, sempre davanti alla Commissione. Borsellino, un vero e proprio fiume in piena, ha presentato ai commissari quelli che, a suo parere, sono i tasselli fondamentali per comprendere i retroscena della strage di via D’Amelio e di molti altri attentati attribuiti alla mafia che, almeno dagli anni Ottanta, hanno insanguinato lo Stivale: il ruolo dei servizi segreti deviati, i piani dell’eversione nera, le condotte opache e depistanti di alti esponenti delle forze di polizia e della magistratura. Nonché quella “improvvida” Trattativa Stato-mafia inaugurata dal Ros dei carabinieri che, come attestano numerose sentenze definitive, al posto di fermare le stragi ne produsse altre. Il tutto, secondo Borsellino e il suo legale, va studiato in una visione unitaria.
Prima di entrare nel merito della sua audizione, Borsellino ha manifestato il suo «sconcerto» per gli attacchi sferrati davanti alla Commissione antimafia (e in molte altre occasioni) da Fabio Trizzino nei confronti di Nino Di Matteo, attuale sostituto procuratore della DNA, noto per essere stato il pm del processo sulla mancata cattura di Provenzano e sulla “Trattativa”, e Roberto Scarpinato, per anni sostituto procuratore a Palermo e oggi senatore del M5S. A loro Borsellino ha espresso «stima e gratitudine per avere in questi lunghi anni, ricercato con tutte le loro forze quella Verità e quella Giustizia per le quali continuo a combattere, in nome di quella Agenda Rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta». L’agenda rossa, da cui il movimento di Salvatore Borsellino prende il nome, è quel taccuino trafugato dal perimetro della strage di via D’Amelio da mani istituzionali, che conterrebbe spunti investigativi esplosivi appuntati dal giudice – che da quello strumento non si era mai separato dalla strage di Capaci in avanti – negli ultimi giorni della sua vita. Secondo Borsellino, insomma, «sono ben altri i magistrati verso i quali bisogna puntare il dito», come Giovanni Tinebra, allora procuratore capo a Caltanissetta, «che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di avere avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi», e Pietro Giammanco, «che ha ostacolato in ogni modo Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di Via D’Amelio».
Il furto dell’agenda rossa e la successiva “costruzione” di falsi pentiti da parte della polizia hanno costituito, secondo i giudici del processo Borsellino-Quater, “uno dei più gravi depistaggi della storia repubblicana”. «Il Borsellino Quater – ha detto Borsellino – era stata una svolta, mi aveva fatto sperare di vedere, finalmente, almeno un barlume di Verità, un miraggio di Giustizia, ma poi sono arrivate una serie di sentenze contraddittorie, per l’ultima delle quali aspettiamo ancora la motivazione, che hanno fatto quasi del tutto svanire la mia speranza». Qui Borsellino parla delle ultime due sentenze sfociate dal processo “Trattativa” che, ribaltando il verdetto di primo grado, hanno assolto i Ros che lanciarono l’invito al dialogo ai vertici mafiosi attraverso la mediazione dell’esponente Dc ed ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. «Nella prima, quella d’appello, si assolvono gli imputati dello Stato perché “il fatto non costituisce reato”, nell’altra quella in cassazione, si assolvono tutti “per non avere commesso il fatto”. Ma “il fatto” c’è, la strage c’è stata, Paolo e i suoi ragazzi sono stati uccisi e dopo quella strage altre ne sono state compiute ed altre vittime innocenti hanno perso la vita». Borsellino ricorda infatti che varie sentenze definitive hanno già attestato che la “Trattativa” rafforzò «l’idea che la strategia stragista pagava se era in grado di mettere in ginocchio lo Stato, di spingerlo a farsi avanti, a scendere a patti».
«Perplesso mi ha lasciato anche, nella ricostruzione dell’avvocato dei figli di Paolo, il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie, Agnese Piraino», ha detto Borsellino. Il riferimento è alle «pesanti, terribili» rivelazioni fatte dalla vedova di Paolo ai magistrati anni dopo la morte del marito, concernenti una circostanza collocata temporalmente pochi giorni prima della strage, in cui il giudice le avrebbe confidato di aver appreso da una fonte rimasta ignota che il capo del Ros Antonio Subranni fosse “punciuto”, ovvero affiliato alla mafia. Parole che, specialmente se lette nell’interezza del verbale, a prescindere dalla loro veridicità – che non è stata mai riscontrata – indicano inoppugnabilmente le “tinte” dei pensieri di Paolo (che lei stessa descrisse come “turbatissimo”, ma “certo” di quello che stava dicendo). Parole il cui significato, attraverso un difficile equilibrismo, è invece stato completamente sviato da Trizzino in audizione, evenienza che era infatti stata evidenziata con vigore dal senatore Scarpinato. Secondo l’avvocato dei figli di Borsellino, l’elemento acceleratore della strage fu l’interessamento del giudice, nell’ultima fase della sua vita, al dossier “mafia-appalti” del Ros. Di tutt’altro avviso è Borsellino, il quale sostiene che occorra partire «dal furto di quell’Agenda, compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello, e non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato […] È proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier “mafia-appalti” che, se pure può essere considerato una concausa, non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che, a quel punto, non poteva più essere rimandata».
Inimicandosi evidentemente molti “negazionisti” presenti all’interno della Commissione, Borsellino ha voluto valorizzare l’entità delle risultanze cui, a più di 30 anni di distanza dagli eccidi, stanno pervenendo le indagini di varie procure: «Occorreva eliminare, e in fretta, chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso, con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera, a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato Paese che da queste stragi, che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare “stragi di Stato”, è stato sempre segnato». Borsellino ha chiuso la sua audizione con parole amare: «Quello che manca, e ormai sono quasi sicuro di non vedere nel corso di quel residuo di vita che mi resta sono una Verità e una Giustizia che forse pochi, troppo pochi, in questo paese, vogliono davvero».
[di Stefano Baudino]