La frase emblema del viaggio di Joe Biden in Israele si è tradotta nel monito a Benjamin Netanyahu a non ripetere gli errori fatti dagli Stati Uniti d’America dopo l’Undici Settembre. Una sequela di errori impressionanti, esattamente come le guerre che hanno provocato e che sono finiti per essere.

Gli errori erano tanto le interpretazioni unipolaristiche di una geopolitica che si stava trasformando in una nuova fase invece multipolare, quanto la messa in pratica di questi teoremi di dominio americano sul pianeta con una espansione imperialistica di nuovo millennio.

Da errori ad orrori il passo è breve. Non è soltanto un enigmistico metagramma, bensì una oggettiva, quasi meccanicistica, conseguenza tra causa ed effetto, un comprovato succedersi di eventi che rovesciano i piani di quella che si credeva essere l’unica grande potenza mondiale sopravvissuta alla Guerra fredda in una serie di rovesci politici nell’immediato e militari sul lungo periodo che ne segnano, alla fine, la prevedibilità, la decadenza proprio storica e attuale in fatto di gestione degli equilibri globali.

L’America che Joe Biden porta in dote ad Israele, fedelissimo alleato nei decenni dei decenni, è, da un lato il tentativo di sedare l’esacerbazione di una guerra ormai impronunciabile altrimenti; dall’altro, con una tipica schizofrenia politica che risponde alla logica statunitense del sembrare una democrazia e dell’essere invece una potenza sovraordinante sui popoli e sulle loro economie, elargire un pacchetto di armamenti sofisticati finanziati con quaranta miliardi di dollari che un congresso diviso dovrebbe approvare senza troppi problemi.

Washington non si dimentica dell’altro fronte della guerra mondiale che papa Francesco definì, con grande acume intuitivo e un pizzico di preveggenza, “combattuta a pezzi“: l’Ucraina infatti riceverà aiuti militari per sessanta miliardi di dollari e qualcosa è previsto che venga indirizzato anche dalle parti di Taiwan, caso mai la Cina dovesse riprendere a fare le prove muscolari via aria e via mare intorno a Tapei.

La logica della Repubblica stellata, dunque, non muta nel tempo. Si trasforma, involve o evolve a seconda delle nostre interpretazioni. Ma rimane sempre una logica di intervento militare, seppure, almeno negli ultimi tempi, per controbilanciare la diplomazia dei BRICS allargati e con sempre maggiore coesione fra loro, sia stata affiancata da tentativi molto blandi di mediazione e di sollecitazione alla stessa da parte di Stati alleati della NATO o nell’orbita, comunque, dello Zio Sam.

Invitare Israele a non cadere nella spirale della vendetta crudele e sanguinaria (che è quello che Netanyahu e Gantz stanno facendo proprio in questi giorni e in queste ore) e, allo stesso tempo, riempirli di nuovi armamenti devastanti, è un doppio gioco che non fa degli USA un interlocutore credibile.

Soprattutto per i paesi arabi che colgono sempre maggiori contraddizioni tra la proposta occidentale di apertura ai modelli mercatisti e liberisti, con associato un avvicinamento ai valori della libertà e dell’uguaglianza interna ed esterna ad ogni singolo Stato, e la prepotenza che anche questa amministrazione democratica mette in campo facendo, egualmente a quello che fanno Iran e Qatar, Arabia Saudita e Libano, Siria e Yemen, nel sostenere Hamas o, più in generale la causa dell’indipendenza palestinese.

Secondo alcune rilevazioni delle tendenze interne alla politica americana in merito alla crisi mediorientale, metà dei membri del Congresso di appartenenza democratica è contrario ad un aggiornamento della politica del riarmo da parte USA nei confronti di Israele.

Un dissenso che è stato anche esplicitato dalle clamorose dimissioni di un alto dirigente del dipartimento che gestisce i trasferimenti di armi, Josh Paul. Con parole molto dure e, peraltro, realistiche, se si osservano i fatti di questi giorni, ha denunciato il “cieco sostegno” del governo americano ad Israele.

Paul ha dichiarato di cogliere proprio nella richiesta della Casa Bianca al Congresso quella esplicita incongruenza tra il dire e il fare, tra il mostrarsi amici di due popoli, israeliano e palestinese, e, immediatamente dopo, di sovvenzionare soltanto Tel Aviv nella lotta contro il pericolo terrorista di Hamas ben sapendo che, così facendo, si alimenta uno scontro in cui la politica del governo di guerra dello Stato ebraico non ammette prigionieri e intende procedere ad una invasione di Gaza, forse ad una sua occupazione militare, molto improbabilmente ad una gestione politico-amministrativa.

La risposta di Russia e Cina è arrivata ancora prima che Biden volasse da Netanyahu, ed è arrivata tempestivamente.

Perché poco dopo il massacro di cinquecento civili nell’ospedale di al-Ahli Arab, gestito peraltro dalla diocesi anglicana di Gerusalemme, una ulteriore svolta nella guerra iniziata il 7 ottobre da Hamas, la sollevazione del mondo arabo ha costretto proprio il presidente americano a rinunciare ad incontri importanti come quello col re di Giordania, con lo stesso Abu Mazen e con Al Sisi con qui ha avuto solo un colloquio telefonico dall’Air Force One.

In questo modo si sono delineati gli scenari mondiali in questa crisi: da un lato l’Occidente, con Stati Uniti energicamente in campo ed una Unione Europea praticamente silente comprimaria, o sarebbe forse meglio appellarla come “comparsa” nella scena della tragedia in corso; dall’altro lato il mondo arabo che si rinsalda, si ricompatta attorno ad una idea tanto di recupero della propria identità culturale, politica e sociale, quanto di relativa indipendenza economico-finanziaria, insieme a quelle potenze che, già dall’inizio della guerra in Ucraina, si sono mostrate ostili all’aquila americana.

La spezzettata terza guerra mondiale paventata dal pontefice, si compone di un altro tassello che è molto di più di una semplice (si fa per dire) scintilla conflittuale regionale.

Mentre il fronte russo-ucraino langue sul terreno e sembra immobile anche sul piano delle reazioni militari della NATO quanto di quelle internazionali dei rispettivi paesi nella contesa mondiale; mentre la crisi di Taiwan è, al momento, sullo sfondo e non sembra destare troppe preoccupazioni; ecco che la vampa dello scontro tra Hamas e Israele è invece il fulcro di un mutamento inaspettato.

Anzitutto quello della politica di Israele verso i paesi arabi che stavano sottoscrivendo i tanto citati “Accordi di Abramo” (e quindi parliamo di Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan). E, in secundis, la questione tutta interna allo Stato ebraico che, a ben vedere, primeggia rispetto al piano seppure imprescindibile della politica estera della destra israeliana. Si è discusso sulla debolezza che le manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu avrebbero causato alla sicurezza dello Stato, addirittura alla sua integrità democratica.

Si è ricorso a dei paradossi per affermare che, nello stato di permanente allarme in cui vive la popolazione, sarebbe stato giusto evitare di mostrare e rendere quindi oggettiva la fragilità tanto del governo di Tel Aviv quanto del sistema-paese, delle istituzioni che sono, nell’unica democrazia occidentalmente concepita, e tutto sommato reale nel suo essere molto formale, nel Medio Oriente, un presidio rispetto all’avanzare dei fondamentalismi.

Ma, nel proferire queste analisi, si è tenuto molto poco conto di quanto l’alibi democratico israeliano sia servito proprio a chi democratico non era, come le destre di Netanyahu e quelle del rabbinismo fanatico che ispira le azioni dei coloni, che a loro volta sostengono queste maggioranze tutt’altro che laiche e pluraliste, per portare avanti una politica di apartheid nei confronti del popolo palestinese. In tempi ormai lontani, fu proprio Israele a sostenere Hamas in funzione anti-Arafat.

E fu sempre il governo dello Stato ebraico, unitamente alla comunità internazionale (leggasi: Occidente), a condividere lo sforzo dell’Autorità Nazionale Palestinese per sostenere elezioni legittime, democratiche e popolari al fine di dare una legittimazione ad una amministrazione dei Territori occupati che potesse vedere il prevalere del moderatismo rispetto a quell’intransigenza integralista di Hamas di cui, però, molti anni prima la politica israeliana non si era poi tanto presa cura.

Quando alle elezioni che si tennero a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza prevalse Hamas, la comunità internazionale e Israele rinnegarono quel voto e non accettarono la libera decisione del popolo palestinese, innescando in questo modo una serie di rivolte che culminarono in una progressiva delegittimazione dell’ANP sia sul versante dei rapporti interni con Hamas, la Jihad islamica e gli altri partiti del Consiglio nazionale palestinese, sia sul versante dei rapporti esterni, anzitutto con lo Stato ebraico e il potente alleato americano.

La società israeliana, in tutti questi decenni si è, nonostante il clima di allarme senza soluzione di continuità, evoluta e migliorata nel suo processo di “occidentalizzazione” e di somiglianza sempre più stretta con l’Europa delle democrazie rispetto alla fisionomia mediorientale. La complessità della collocazione della cultura ebraica nella Palestina del dopo-seconda guerra mondiale non ha finito con l’essere il presupposto delle guerre arabo-israeliane, ma di sicuro ne è parte fondante e non trascurabile.

George Habash, fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, sosteneva che si era, già a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, in presenza di una «società scientifica d’Israele contro la nostra arretratezza nel mondo arabo. Ciò ci chiama alla totale ricostruzione della società araba, trasformandola in una società del XX secolo».

Una idea progressista che, se confrontata oggi con l’estremismo islamista e radicale di Hamas, non può che stridere con la stessa storia laica dell’OLP e della sua successiva evoluzione nell’ANP.

Gli Stati Uniti ed Israele non hanno mosso un passo nel corso degli ultimi trent’anni per sostenere un dialogo con le fazioni palestinesi più inclini ad un laicismo democratico che potesse fare da sponda ad una avvicinamento delle differenze, ad una valorizzazione dei valori comuni. Gli accordi di Oslo sono saltati come sono state disattese le risoluzioni dell’ONU sui confini del 1967 per colpa indubbia di Tel Aviv e per un conseguente irrigidimento da parte palestinese a riaprire dei canali di comunicazione.

Il fondamentalismo islamico ha fatto breccia in questa dicotomia insanabile ed ha prevalso come moderna costituzione di un nazionalismo che, invece, dalla Cisgiordania a Gaza guardava un tempo ad uno Stato palestinese democratico, laico e progressista. Il modello dei kibbutz non è poi così lontano da questa idea di vita autogestita, comunitaria e collettivista.

Il pericolo di una Palestina in cui si radicassero dei movimenti sociali e socialisti, come il Baath in molti altri paesi arabi (dall’Iraq di Hussein alla Siria di Assad, dalla Libia di Gheddafi all’Egitto di Nasser) può essere stato per l’Occidente capitalistico e imperialista uno dei timori maggiori che hanno supportato ogni occasione di ostilità nei confronti del movimento di liberazione del popolo che aveva subìto la Nakba, gli orrori di Sabra e Chatila, agito con l’Intifada delle pietre, con la vera e propria rivolta che fece parlare tutto il mondo.

Oggi riapriamo gli occhi, le orecchie e le bocche per cercare di vedere, ascoltare e parlare o scrivere della questione irrisolta di una repubblica palestinese che non può essere solo un riconoscimento formale di una autonomia di poche terre rimaste a milioni di persone costrette a sopravvivere angustamente in uno spazio davvero esiguo. Oggi se dobbiamo guardare, ascoltare, parlare e scrivere della Palestina, abbiamo il dovere di farlo per reclamare l’opzione della convivenza tra due popoli in due Stati.

Oppure la creazione di uno Stato federato unitario, che includa tutti: arabo-isrealiani, israeliani, ebrei, arabi, palestinesi, laici e religiosi. E’ una utopia pensarlo oggi e descriverlo in quanto tale. Ma può essere la soluzione ad un problema che trascende i confini regionali dell’infuocatissimo Medio Oriente. La terra da cui la civiltà è nata e dove sembra, oggi, trovare il suo epilogo di morte.

MARCO SFERINI

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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