Thomas Fazi 

Quest’anno ricorre il 30° anniversario della firma degli accordi di Oslo, un punto di svolta nella ricerca della pace tra Israele e i palestinesi, eppure la pace nella regione non è mai stata così traballante, come gli eventi di Gaza rendono drammaticamente chiaro. Ma perché tutti i tentativi di porre fine a una delle guerre più sanguinose e lunghe del mondo sono falliti?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare al 1967 e alla Guerra dei Sei Giorni tra Israele e i suoi vicini arabi, ovvero quando è nato l’attuale status quo israelo-palestinese. Israele conquistò i territori che non era riuscito a occupare nel 1948 – la Cisgiordania controllata dalla Giordania (compresa Gerusalemme Est) e la Striscia di Gaza controllata dall’Egitto – mettendo sotto il suo controllo tutta la Palestina storica. Questo territorio comprendeva, all’epoca, un milione di palestinesi in Cisgiordania e altri 450.000 nella Striscia di Gaza.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha descritto la vittoria come “un evento monumentale quanto la creazione dello Stato di Israele nel 1948”. In effetti, l’élite militare e politica di Israele stava cercando il momento giusto per occupare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza da quando, due decenni prima, aveva conquistato la maggior parte della Palestina mandataria, con la conseguente espulsione di metà della popolazione nativa del Paese.

Le decisioni prese all’indomani di questa breve guerra avrebbero definito le relazioni israelo-palestinesi e plasmato il Medio Oriente per il mezzo secolo successivo, fino ai giorni nostri. Non c’è da stupirsi che alcuni l’abbiano chiamata “la guerra infinita”.

La questione principale per Israele consisteva in cosa fare dei territori appena occupati e dei loro abitanti. C’era, al tempo, un ampio consenso sul fatto che Israele dovesse mantenere la Cisgiordania e la Striscia di Gaza; tuttavia, un’annessione formale avrebbe significato integrare anche i palestinesi rendendoli a tutti gli effetti cittadini uguali agli altri, minacciando così la maggioranza ebraica. Allo stesso tempo, un’espulsione di massa in stile 1948 non era considerata un’opzione praticabile, sia per ragioni interne che internazionali.

Fu quindi elaborata una strategia diversa: Israele non avrebbe annesso formalmente i territori (ad eccezione di Gerusalemme Est e di parti della Cisgiordania), ma li avrebbe posti – insieme ai palestinesi che vi abitavano – sotto occupazione militare. Questo andava a soddisfare entrambi i prerequisiti ideologici fondamentali del sionismo: controllare la maggior parte possibile della Palestina storica e mantenere una maggioranza ebraica all’interno di Israele. C’era solo un “piccolo” problema: anche se Israele aveva promesso di normalizzare la vita dei palestinesi in questi territori, i suoi obiettivi politici non potevano che tradursi in un sistema di controllo e dominazione. Lo storico israeliano Ilan Pappé descrive ciò che ne è conseguito come “la più grande prigione del mondo”.

Solo sullo sfondo di quella decisione del 1967 si può capire perché questo regime sia rimasto in vigore fino ad oggi e perché si sia rivelato immutabile nonostante innumerevoli cicli di negoziati diplomatici. Non solo si decise di escludere di fatto la Cisgiordania e la Striscia di Gaza da qualsiasi futuro negoziato di pace, ma si avviò anche una politica di colonizzazione della West Bank (Cisgiordania) che avrebbe reso praticamente impossibile qualsiasi prospettiva di trasformarla in uno Stato palestinese indipendente.

La prima volta che la questione dell’autonomia palestinese è stata portata sul tavolo dei negoziati fu per il trattato di pace Egitto-Israele del 1979. In quel consesso, Israele accettò di restituire all’Egitto la penisola del Sinai, che aveva occupato nel 1967, ma anche di concedere un certo grado di “autonomia” amministrativa agli abitanti palestinesi dei Territori occupati, sui quali Israele avrebbe comunque continuato a esercitare un controllo significativo. Quest’ultima parte dell’accordo, tuttavia, non fu mai attuata.

Da un lato, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da Yasser Arafat, rifiutò l’accordo architettato da israeliani ed egiziani e intensificò la lotta armata contro l’occupazione. Dall’altro, anche se alcuni segmenti della società israeliana erano favorevoli al ritiro, l’establishment politico e militare israeliano era concorde nel ritenere che quei territori dovessero rimanere sotto il dominio israeliano. In effetti, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, sia sotto il governo laburista che sotto quello del Likud, la strategia è rimasta la stessa: intensificare la colonizzazione della Cisgiordania e schiacciare l’OLP.

Per molto tempo, la “pace”, o meglio, una qualche forma di compromesso, non è mai stata un’opzione per nessuna delle due parti. L’OLP era impegnata nella “liberazione di tutto il territorio palestinese”, mentre Israele non vedeva la necessità di cambiare le sue modalità di gestione dei territori. La situazione cambiò invece nel 1987, quando scoppiarono violente rivolte anti-occupazione in tutti i territori occupati e in Israele. La Prima Intifada.

La rivolta ha coinciso con la comparsa sulla scena di una nuova forza politica: Hamas, emanazione dei Fratelli Musulmani, che si opponeva alla nuova politica dell’OLP, adottata alla fine degli anni Ottanta, che consisteva nell’accettare l’esistenza dello Stato di Israele e nel perseguire la soluzione dei due Stati. Hamas si rivelò un’arma a doppio taglio per Israele: da un lato rappresentava una seria minaccia militare, ma dall’altro permetteva a Israele di bollare la lotta palestinese come parte di una jihad islamica globale anti-occidentale.

Questo spiega perché Israele ha svolto un ruolo importante nel sostenere Hamas. Il generale di brigata Yitzhak Segev, governatore militare israeliano a Gaza all’inizio degli anni Ottanta, ha dichiarato al capoufficio di Gerusalemme del New York Times di aver dato denaro ai Fratelli Musulmani, il precursore di Hamas, su istruzione delle autorità israeliane. Il finanziamento aveva lo scopo di allontanare il potere dai movimenti comunisti e nazionalisti di Gaza, e soprattutto da Arafat (che si riferiva ad Hamas come “una creatura di Israele”), che Israele considerava più minacciosi dei fondamentalisti. “Hamas, con mio grande rammarico, è una creazione di Israele”, ha dichiarato nel 2009 al Wall Street Journal Avner Cohen, ex funzionario israeliano per gli affari religiosi che ha lavorato a Gaza per oltre due decenni.

La Prima Intifada è durata fino al 1993. Durante questo periodo, la risposta israeliana è stata spietata, trasformando il modello di prigione a cielo aperto in un carcere di massima sicurezza ancora più duro. A quel punto fu implementato il famigerato sistema di checkpoint.

Quando all’inizio degli anni Novanta iniziò un nuovo ciclo di negoziati, gli accordi di Oslo, sotto l’egida dell’amministrazione statunitense, la situazione sul campo in Cisgiordania faceva apparire più remota che mai la prospettiva di raggiungere una pace duratura, attraverso la creazione di uno Stato palestinese geograficamente coerente. Malgrado ciò, a seguito di colloqui segreti tra Israele e l’OLP, nel settembre 1993 le due parti presentarono uno “storico accordo di pace” sul prato della Casa Bianca, alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton. Per questa ragione Arafat, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il Ministro degli Esteri Shimon Peres riceveranno in seguito il Premio Nobel per la Pace.

In base all’accordo, Israele avrebbe dovuto ritirare le proprie forze armate dal territorio palestinese e i palestinesi avrebbero ottenuto l’autogoverno su parti della Cisgiordania (esclusi gli insediamenti illegali) e della Striscia di Gaza. Non un vero e proprio Stato, ma piuttosto una “entità”, come disse Rabin. Nel frattempo, Israele avrebbe mantenuto il controllo esclusivo dei confini, dello spazio aereo e delle acque territoriali di Gaza. Questioni più specifiche – come gli insediamenti israeliani, lo status di Gerusalemme, il controllo di Israele sulla sicurezza e il diritto al ritorno dei palestinesi – sarebbero state risolte in discussioni future. Per l’attuazione dell’accordo fu stabilito un periodo transitorio di cinque anni, ma anche in questo caso i progressi sono stati praticamente nulli.

Un fattore cruciale nello stallo del processo di pace fu l’assassinio di Rabin, nel 1995. Il 4 novembre, Rabin guidò una massiccia manifestazione a sostegno dell’accordo di pace a Tel Aviv. Le sue ultime parole furono “Facciamo la pace”. Mentre lasciava il luogo della manifestazione, un ultranazionalista israeliano gli sparò due volte. Da quando erano iniziati i negoziati, Rabin era diventato il bersaglio degli estremisti israeliani. Alcuni rabbini di destra avevano persino proclamato un din rodef – essenzialmente un’autorizzazione a uccidere nella legge ebraica tradizionale – contro Rabin. Nei raduni organizzati dal Likud, ormai guidato da Benjamin Netanyahu, e da altri gruppi di destra erano apparse anche raffigurazioni di Rabin in uniforme nazista delle SS o nel mirino di una pistola. I manifestanti scandivano “Rabin è un assassino” e “Rabin è un traditore”.

Lo stesso Netanyahu era spesso presente a questi raduni. Nel luglio 1995, pochi mesi prima dell’assassinio di Rabin, guidò un finto corteo funebre con una bara e un cappio da boia durante una manifestazione in cui i manifestanti intonarono “Morte a Rabin”. Nel corso degli anni, Netanyahu è stato spesso accusato di aver contribuito al clima politico incendiario che ha portato all’omicidio. “Quello di Rabin è stato un omicidio politico con la collaborazione di Benjamin Netanyahu”, si è spinto a dire l’anno scorso Merav Michaeli, leader del Partito Laburista.

Dopo la morte di Rabin, sono state fissate nuove elezioni il cui risultato sembrava poter essere una pura formalità: Shimon Peres, che aveva preso il posto di Rabin, era molto più avanti di Netanyahu nei sondaggi. Poi, nelle settimane precedenti le elezioni, Hamas, anch’essa impegnata a far deragliare i colloqui di pace, commise una serie di attacchi terroristici che spostarono drammaticamente l’opinione pubblica verso Netanyahu e il suo Likud, partito ultranazionalista. Sei mesi dopo l’assassinio, Netanyahu vinse le elezioni.

L’opposizione del nuovo Primo Ministro agli Accordi ha fatto sì che questi si arenassero. Nel frattempo, per i palestinesi, la realtà sul campo peggiorava sotto molti aspetti. La Cisgiordania fu divisa nelle aree A, B e C, con Israele che controllava ogni movimento tra di esse e al loro interno, formalizzando di fatto la “bantustanizzazione” della Cisgiordania; nel frattempo, Netanyahu continuò a costruire all’interno degli insediamenti israeliani esistenti e presentò piani per la costruzione di nuovi insediamenti.

Il processo di pace si è riaperto solo quando il Partito Laburista, sotto Ehud Barak, è tornato al potere nel 1999. Barak era determinato a raggiungere un accordo finale e godeva del pieno sostegno dell’amministrazione Clinton. Questo portò al vertice di Camp David del 2000. In quell’occasione, Israele fece la sua offerta finale, che per la prima volta mirava esplicitamente a una soluzione a due Stati: propose un piccolo Stato palestinese, con capitale in un villaggio vicino a Gerusalemme, Abu Dis, comprendente Gaza e parti della Cisgiordania, senza alcuno smantellamento significativo degli insediamenti.

Diversi aspetti del futuro Stato palestinese – la sicurezza e la gestione di alcune risorse – sarebbero rimasti sotto il controllo israeliano. L’offerta comprendeva anche un rifiuto categorico del “diritto al ritorno”, un principio palestinese secondo cui tutti i rifugiati palestinesi, compresi i loro discendenti, hanno il diritto di tornare nella terra da cui sono stati espulsi.

Il vertice, tuttavia, si concluse senza un accordo e pochi mesi dopo scoppiò un’altra grande rivolta palestinese, la Seconda Intifada. Quale sia la parte (o le parti) da incolpare per il fallimento del vertice è ancora oggetto di un acceso dibattito. Gli israeliani e gli americani hanno sempre incolpato Arafat per la sua riluttanza a scendere a compromessi sul territorio e, cosa ancora più importante, a rinunciare al “diritto al ritorno”.

Altri, tuttavia, tra cui Shlomo Ben-Ami, allora Ministro delle Relazioni Estere israeliano, che partecipò ai colloqui, hanno contestato questa opinione, sostenendo che gli israeliani e gli americani erano colpevoli almeno quanto i palestinesi del fallimento del vertice. Secondo Robert Malley, membro dell’amministrazione Clinton, i termini dell’accordo non negoziabile, “dare o avere”, proposto da Israele a Camp David erano impossibili da rispettare per Arafat: I palestinesi si sarebbero opposti a prescindere a ciò che il loro leader gli avrebbe riportato.

La “migliore offerta” di Israele, dopo tutto, era uno Stato che comprendeva solo porzioni del restante 20% della terra palestinese occupata nel 1967, la cui politica economica ed estera sarebbe rimasta in gran parte sotto il controllo israeliano. Non è difficile capire perché molti palestinesi ritenessero inaccettabile un simile accordo. Inoltre, i palestinesi avevano perso fiducia nel processo di pace in generale: la vita nei territori era peggiorata dall’inizio degli accordi di Oslo. Per questo motivo, come raccontano Hussein Agha e Robert Malley del Dipartimento di Stato americano nel loro rapporto sul vertice, Arafat si presentò al tavolo dei negoziati chiedendo la fine della brutalizzazione quotidiana della normale vita palestinese come mezzo per ripristinare la fiducia nei benefici del processo di pace. Ma gli israeliani si rifiutarono.

Attribuire tutta la colpa al governo israeliano, tuttavia, sarebbe troppo semplicistico. A questo punto, la maggioranza degli israeliani riteneva che il governo fosse già sceso a troppi compromessi. Ciò che non era sufficiente per la maggior parte dei palestinesi era troppo per la maggior parte degli israeliani. Non c’è da stupirsi che le due parti non siano riuscite a trovare una via di mezzo.

La crescente rabbia e frustrazione dei palestinesi portò infine allo scoppio della seconda rivolta palestinese, nell’autunno del 2000, che riaccese il ciclo di violenze e rappresaglie. Gli israeliani hanno incolpato Arafat di aver istigato la violenza, ma molti osservatori concordano sul fatto che la visita provocatoria di Ariel Sharon al Monte del Tempio, un luogo sacro musulmano, è stato ciò che ha probabilmente scatenato la Seconda Intifada. Sharon, un ultranazionalista, vinse le elezioni l’anno successivo e usò i disordini, in cui furono uccisi 1.000 israeliani e più di 3.000 palestinesi, come scusa per bloccare qualsiasi ulteriore negoziato – e per giustificare una brutale repressione nella West Bank (Cisgiordania) nel 2002.

La repressione riuscì nel suo intento, sedando la rivolta, ma allo stesso tempo ha gettato i semi delle violenze future. Da quel momento in poi, l’obiettivo della pace si è allontanato sempre di più. Un piccolo spiraglio si è aperto nel 2004, quando il leader di Hamas Ahmed Yassin ha offerto a Israele una hudna (tregua, o armistizio) di 10 anni in cambio di una soluzione a due Stati. Non sapremo mai se la proposta di Hamas era onesta – poiché aveva infranto precedenti tentativi di cessate il fuoco non ufficiali – o se si trattasse di una mera manovra tattica per consentire al gruppo di guadagnare tempo in vista di futuri attacchi; Israele comunque uccise Yassin due mesi dopo con un attacco aereo mirato.

Le relazioni tra Israele e Gaza, in particolare, si sono deteriorate da allora, soprattutto dopo l’elezione di Hamas nel 2005 e nel 2006. Il piano di disimpegno di Israele del 2005, con il quale ha smantellato unilateralmente gli insediamenti all’interno della Striscia di Gaza, non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Da quel momento in poi, Gaza divenne essenzialmente, agli occhi di Israele, territorio nemico, portando a una drammatica militarizzazione della politica israeliana nei confronti della Striscia. Ciò ha comportato l’assedio e il blocco della Striscia, che ha portato a violente ritorsioni da parte dei gruppi armati palestinesi, tra cui il lancio di razzi verso Israele. Nel corso degli anni, Israele ha risposto con diverse campagne di bombardamento che hanno causato la morte di oltre 6.000 abitanti di Gaza tra il 2008 e il 2021.

Questo è lo scenario del brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso circa 1.300 israeliani e ha scatenato la risposta militare di Israele, che ha ucciso più di 5.000 persone nella Striscia e ha creato una catastrofe umanitaria. Il conflitto ha portato nuovamente agli appelli per la soluzione dei due Stati, ma ciò richiederebbe un serio impegno da parte della comunità internazionale, che è anch’essa più frammentata che mai. La triste realtà è che la pace non è mai stata così lontana.

L’articolo originale è apparso sul blog britannico Unherd

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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