Di fronte alle prime misure shock del governo Milei – svalutazione record, decreti legge per privatizzare il pubblico e smantellare diritti del lavoro, repressione del dissenso – esplodono le proteste nell’anniversario delle rivolte del 2001. Pubblichiamo qui le riflessioni a caldo dopo i cortei e i cacerolazos del 20 dicembre
di Diego Sztulwark e il fotoreportage dalle strade di Buenos Aires di Valentina Fusco
Nemmeno dieci giorni dopo l’inizio ufficiale del governo Milei, che ha vinto le elezioni presidenziali al ballottaggio di novembre, il paese è già attraversato da tensioni e proteste sociali diffuse: dopo aver svalutato del 50% il peso argentino nei confronti del dollaro (passando da 380 a 800 pesos per 1 dollaro), il presidente di estrema destra ha emanato per Decreto di Necessità e Urgenza, senza alcuna discussione al Congresso né al Senato, una serie di provvedimenti durissimi da lui stesso definiti come “misure shock”, abrogando 300 leggi per aprire il cammino alle privatizzazioni di tutte le imprese pubbliche – trasformando in società per azioni poi privatizzarle tutte le imprese dello Stato, dalla compagnia aerea di bandiera fino all’ente nazionale idrocarburi –alla deregolamentazione del lavoro e dei costi dei servizi, abrogando la legge sugli affitti e sui prezzi giusti, smantellando le garanzie esistenti per la difesa dei diritti del lavoro e degli inquilini, i sussidi ai servizi pubblici, ai trasporti, ai servizi essenziali e annunciando che si tratta solo dell’inizio delle misure economiche di questo inizio di governo.
L’annuncio del presidente è stato dato con un breve discorso nel pomeriggio del 20 dicembre, anniversario delll’insurrezione popolare del 2001, poche ore dopo l’annuncio del protocollo anti-piqueteros della ministra della Sicurezza Bullrich, che attacca duramente il diritto al dissenso e minaccia di togliere i sussidi sociali a chiunque partecipi a manifestazioni e proteste sindacali e sociali. Su entrambe le operazioni politiche del governo vi sono chiari aspetti di incostituzionalità, denunciate fin da subito dall’opposizione, con violazioni chiare dell’ordinamento democratico, al di fuori della legalità repubblicana, una sorta di golpe auoritario rispetto al ruolo del Congresso e del Senato. Ma dal punto di vista politico, i segnali sono chiari e inequivoci: concentrare la ricchezza, privatizzare, tagliare, svendere il patrimonio pubblico, distruggere le conquiste sociali e i diritti dei lavoratori e reprimere in ogni modo il dissenso che esploderà a fronte delle difficilissime condizioni sociali ed economiche nel paese, con l’inflazione al 150% annuale, il 50% di abitanti sotto la soglia di povertà e la svalutazione shock della moneta con conseguente perdita d’acquisto dei salari.
Contro tutto questo, sono esplose negli ultimi due giorni proteste diffuse a Buenos Aires, nella capitale, nell’area metropolitana e in diverse delle principali città argentine, con cacerolazos, proteste, picchetti, blocchi stradali, cortei notturni fino a riempire la piazza del Congresso la notte del 20 dicembre. Ieri, ampie proteste dei lavoratori dei servizi ferroviari e della Banca Nazionale contro privatizzazioni e dollarizzazione e mobilitazioni dislocate nel paese delle organizzazioni dei diritti umani, dei movimenti e sindacati dell’economia popolare e dei movimenti femministi. Nel pomeriggio, l’intervento della polizia in una assemblea del sindacato ATE è stata denunciata dai lavoratori in agitazione. Un dicembre molto caldo in questa Argentina che attraversa la peggiore crisi dopo il 2001, con un governo appena insediatosi che punta al saccheggio del paese, delle ricchezze comuni, dei diritti e dei salari e un aumento preoccupante della violenza del’estrema destra, come riportato nell’inchiesta di RADAR e Revista Crisis in traduzione esclusiva sul nostro sito. Pubblichiamo una riflessione in merito alle ultime giornate di protesta di Diego Sztulwark, politologo e filosofo argentino, animatore del Blog Lobo Suelto e ex-militante del collettivo Situaciones, collaboratore in più occasioni di Dinamopress (nota della redazione).
La camminata moltitudinaria della scorsa notte verso il Congresso è stata una boccata di ossigeno. Da una parte, recupera una storia. Ieri [il 20 dicembre, ndt] è stata data una risposta contundente a quelli che cercavano di rendere l’anniversario del 19 e 20 dicembre del 2001 una occasione per imporre un virtuale stato di eccezione. L’idea che fosse possibile correggere la mancanza di efficacia repressiva di quello stato di assedio del presidente De la Rua è tornata a scontrarsi con la determinazione popolare. Il minaccioso protocollo sulla sicurezza di Bullrich che pretende in modo così sinistro quanto farsesco di proibire le proteste nelle strade, non ha avuto margini di applicazione né durante il pomeriggio a Plaza de Mayo [corteo di commemorazione delle giornate del 2001, ndt] né durante la notte quando migliaia di persone sono scese in piazza nelle grandi strade della città [proteste, cortei e blocchi stradali notturni contro il Decreto di Necessità ed Urgenza del presidente Milei, ndt].
D’altra parte, la capacità di reazione, in questo caso in seguito al decreto di Milei, è stata istantanea. Sebbene sia ovvio che i cortei di ieri non sono sufficienti neanche lontanamente per bloccare l’iniziativa del governo, non è però meno certo che, in un contesto in cui un governo recentemente eletto minaccia di dissolvere i diritti economici, del lavoro e politici dell’insieme dei lavoratori formali e informali, la giornata di ieri può essere letta come l’inizio di un movimento di contagio e di invito alla protesta per i più diversi settori. Se questo verrà confermato nei prossimi giorni, e la giornata di ieri inaugurerà effettivamente un nuovo clima sociale, occorrerà riconoscere che il peso dei simboli è ancora vivo nella dimensione collettiva a livello nazionale. Ora verrà – speriamo presto – il processo sempre arduo di sincronizzazione con sindacati e organizzazioni popolari. Questa sincronizzazione è una condizione di possibilità indispensabile per evitare il disastro. Come accaduto nel dicembre del 2001 e del 2017, sembra chiaro che il potere di veto di fronte all’offensiva neoliberale va dalle piazze politicizzate alle istituzioni e non viceversa.
Ieri si cantava: “la patria non si vende”, “che se ne vadano tutti”, “unità dei lavoratori”. Questi slogan costituiscono un substrato popolare attivo che sussiste e funziona come bussola quando i partiti politici non indicano un orientamento né dirigono. La mobilitazione di ieri non è stata veramente “spontanea”, perché risponde a una memoria e a un saper fare. Gli slogan cantati ieri hanno un potere particolare che non bisognerebbe sminuire, perché sono questi slogan che riescono a interferire con il discorso di Milei. E riescono a farlo perché Milei stesso non ha fatto altro che utilizzare il linguaggio del precedente malessere a suo favore. Se le piazze recuperano i loro slogan, e con esse il contatto con la disperazione, si sarà fatto un passo decisivo: recuperare la potenza dei segni per una politica rigenerata dal basso.