Ieri il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha detto alla Knesset – il parlamento monocamerale del Paese – che Israele è coinvolta in una «guerra su più fronti» che coinvolge gran parte del Medio Oriente. Lungi dal suggerire la tanto richiesta risoluzione del conflitto e l’altrettanto cercato cessate il fuoco, le parole di Gallant, in linea con quelle di Netanyahu, prospettano un allargamento della guerra. Nel suo intervento alla Knesset, Gallant ha affermato che Israele è «sotto attacco da sette teatri: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran» – sei dei quali già oggetto di intervento – e ha avvertito che qualsiasi altra offesa non avverrà impunita. Pare insomma ci si presenti davanti un inasprimento delle tensioni, alle quali Israele si sta cinicamente preparando coordinandosi con gli USA, senza intanto interrompere gli attacchi e i raid aerei a Gaza e in Cisgiordania, nonché nelle altre aree coinvolte.
Tutti i Paesi citati da Gallant fanno parte del fronte filo-iraniano, acerrimo nemico di Israele. I rapporti tra Iran e Israele non sono sempre stati di inimicizia, ma lo sono diventati nel 1979, quando Ruhollah Khomeyni rovesciò il governo dello scià e istituì uno Stato islamico. Dopo il 1979, l’Iran riconsiderò la propria posizione a livello geopolitico, schierandosi contro gli USA e allargando sempre più i propri interessi in Oriente in ottica anti-sionista e anti-saudita. I sette Stati di cui parla Gallant, Iran escluso, sono centri di scontro con le forze israeliane e statunitensi già da prima dell’offensiva di Hamas, e presentano o sono addirittura controllati da gruppi militari appoggiati dall’Iran e dal corpo delle Guardie Rivoluzionarie (pasdaran) istituito oltre quarant’anni fa da Khomeyni. Il blocco filo-iraniano si è sin da subito schierato agendo attivamente dopo l’attacco di questo ottobre; è per questo che il ministro della difesa israeliano ha parlato di sette fronti, tutti attivamente colpiti dalle proprie forze o dagli alleati meno lo stesso Iran, che rimane ancora coinvolto in maniera indiretta.
Da questo ottobre, la Siria è certamente diventato uno dei palcoscenici più importanti in cui viene portata avanti l’offensiva militare tanto israeliano-americana quanto filo-iraniana; secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, dall’inizio degli scontri Israele ha colpito il territorio siriano 37 volte, di cui 23 attraverso attacchi aerei, e in generale stando a quanto riporta Limes, solo il 13 novembre in Siria erano avvenuti almeno 100 bombardamenti portati avanti da ambo le parti; l’ultimo è certamente il più importante, perché ha comportato l’uccisione del generale dei pasdaran Moussavi, a cui l’Iran ha risposto con dure minacce di vendetta. Un altro fronte particolarmente acceso è quello del Libano, in cui è presente l’organizzazione islamista Hezbollah, che si ispira all’ideologia dello stesso Khomeini e che è attiva sul territorio dalla prima guerra del Libano. Sin da inizio ottobre, Hezbollah e le forze israeliane sono state protagoniste di numerosi scontri a fuoco, tanto al confine tra Libano e Israele quanto sul territorio siriano, e in questi mesi la situazione è andata sempre peggiorando. Netanyahu ha avvertito Hezbollah che in caso di escalation, il Libano si sarebbe trasformato in una nuova Gaza, e nel frattempo Tel Aviv ha lanciato raid aerei sul confine, l’ultimo dei quali, riporta Al Jazeera, verificatosi il 26 dicembre.
Gli scontri si stanno intensificando anche in Iraq, contro le cui forze gli USA hanno agito in Siria e, più recentemente, nello stesso Iraq, portando avanti un attacco in risposta alle offensive irachene. Per quanto concerne lo Yemen, il Paese è controllato dalle milizie sciite filoiraniane degli Houthi, che sorvegliano il Mar Rosso e sostengono la causa palestinese. Gli Houthi hanno lanciato ripetuti attacchi contro le navi dirette verso Israele per tagliarne la rete commerciale, e in risposta a essi si sono mossi principalmente gli Stati Uniti, inviando droni e lanciando l’operazione Prosperity Guardian che ha il fine di «assicurare la libertà di navigazione a tutti i Paesi e rafforzare la sicurezza e la prosperità regionali». La situazione attuale, insomma, è parecchio instabile e coinvolge innumerevoli forze. Le parole di Gallant disegnano una linea ben definita di quello che appare essere il destino degli scontri, la quale è stata confermata proprio ieri dall’arrivo a Washington del ministro israeliano degli Affari Strategici Ron Dermer, in viaggio negli USA per discutere le prossime fasi della guerra.
Nonostante i numerosi tentativi di trovare una risoluzione al conflitto, e la recente richiesta di cessate il fuoco, le stesse parole che Netanyahu ha rivolto in visita ai propri soldati esortandoli a continuare «fino alla vittoria», sono in linea con quanto detto dal suo ministro. Intanto, pare che all’escalation si stia preparando anche l’Iran, che secondo l’ultimo report dell’International Atomic Energy Agency sta accelerando la produzione di uranio impoverito, dichiarazione smentita da Teheran. Nel mentre, dietro alle continue minacce di intensificazione degli scontri, a Gaza e in Cisgiordania sono saltate di nuovo le telecomunicazioni e, comunica il Ministero della sanità, da domenica sono state uccise 858 persone e ferite 1598, delle quali rispettivamente 241 e 382 solo nelle ultime 24 ore. Gli attacchi si intensificano, i morti aumentano, la tensione è alle stelle, e non si limita a toccare i Paesi direttamente coinvolti, ma penetra anche altrove, come si può evincere dall’attacco verificatosi ieri all’ambasciata israeliana in India. L’Iran sembra rispondere, e Israele non accenna a fermarsi, ma anzi prepara le prossime mosse in vista di un massacro che non ha alcuna intenzione di interrompere.
[di Dario Lucisano]