E’sufficiente fare quattro chiacchiere con le persone che casualmente si incontrano ad una fermata di autobus, oppure all’edicola o nella sala d’attesa del proprio medico di famiglia per rendersi conto dello stato in cui versa la maggioranza degli italiani, quella che fatica ad arrivare a fine mese, nonostante stipendi, pensioni e aiuti da parte dei propri genitori, fratelli, figli…
La Banca d’Italia, nella relazione sui “Conti distributivi sulla ricchezza delle famiglie: metodi e prime evidenze“, parrebbe rassicurare sul non aumento degli indici di disuguaglianza, almeno negli ultimi cinque anni, quindi a far data dal 2017 fino al 2022.
In realtà, il rapporto fatto nell’ambito degli studi commissionati dalla Banca Centrale Europea, disegna i contorni di un Paese profondamente diseguale: il 5% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza totale nazionale e il portafoglio di questi privilegiati consiste in azionariati ingenti, polizze assicurative, depositi, dividendi aziendali che fanno cumulo in capitali spesso dirottati su conti protetti dalle legislazioni estere e, quindi, sottratti alla fiscalità italiana.
Oltre la beffa delle conseguenze dell’economia liberista, pure il danno causato alla implementazione delle risorse sociali.
Quello che un tempo avremmo potuto distinguere come “ceto medio“, che oggi oscilla paurosamente tra le soglie del neopauperismo e l’avventurismo finanziario, può vantare come base della propria incerta stabilità soltanto l’abitazione come diga che lo ripari dallo spettro dell’indigenza.
La proprietà della prima casa sembra essere l’unico elemento distintivo tra chi ancora riesce a sopravvivere dignitosamente (seppure il verbo male si accompagni all’avverbio…) e chi, invece, dovendo pagare un affitto spesso molto oneroso (soprattutto nelle grandi città), vi impiega quasi tutto il salario.
Il risultato è la trascuratezza in ambito sanitario, l’impossibilità di accedere a servizi spesso essenziali, di poter garantire a sé stessi e ai propri figli un tenore di vita simile a quello delle famiglie che, pur essendo fuori da quell’altissimo consesso del 5% degli ultraricchissimi, con fatica arrivano a fine mese senza fare debiti.
Chi ha un mutuo da pagare non se la cava di certo meglio rispetto a chi vive in abitazioni in affitto o subaffitto. Se a tutto questo si aggiungono le tante problematiche che possono far incappare nella necessità di ulteriori servizi non più forniti dall’assistenza pubblica, allora la qualità della sopravvivenza scade ulteriormente.
La condizione dei lavoratori e delle lavoratrici nei pubblici servizi, dalla scuola alla sanità, tanto per fare due esempi clamorosi, è nell’ordine della precarietà permanente, tanto che persino gli autori di parole incrociate mettono tra le definizioni degli schemi: «Lo è spesso l’insegnante di oggi».
Non certo tutelato, garantito, ben pagato. Ma precario. Ed in un quadro di così allarmante progressione delle diseguaglianze, che pure la Banca d’Italia sostiene di non vedere aumentare, che il governo decide la sforbiciata sulle voci di bilancio che interessano questi ambiti dirimenti per la vita di tutte e di tutti.
Il taglio alla sanità torna e ritorna come una nemesi che non decide di quietarsi e, tra gli ultimi provvedimenti, riviene a galla con il rinvio dell’acquisto di nuovissime apparecchiature mediche come TAC, risonanze magnetiche, angiografi, mammografi. Toccherà attendere due anni perché oltre tremila di questi strumenti diagnostici possano entrare negli ospedali italiani. Si può trovare una spiegazione a questa scelta dell’esecutivo di Giorgia Meloni?
Impossibile anche solo cercare un motivo che giustifichi una determinazione di questo tipo. Soprattutto se si pensa alle lunghissime liste di attesa per esami che sono dei salvavita nella maggior parte dei casi.
Una vergogna nazionale, altro che patriottismo! Una vera e propria indecenza, un insulto nei confronti dei princìpi fondamentali garantiti dalla Costituzione, uno schiaffo dato e ripetuto ogni volta che la maggior parte dei cittadini si reca ai Centri unici di prenotazione e si sente dire che l’esame richiesto è assegnato un anno dopo.
Una vera e propria tragedia che diventa farsa volontaria, perché il governo sa benissimo quale è lo stato della sanità, soprattutto nelle regioni già depresse del Paese, in un Mezzogiorno in cui non esiste una eccellenza universale delle istituzioni tanto in termini di cura quanto di istruzione.
Lo studio della Banca d’Italia mette a nudo anche la triste realtà che paragona l’indice di concentrazione della ricchezza del nostro Paese con il resto dell’Europa. Ebbene, benché possa sembrare strano, non siamo la nazione in cui le differenze e, quindi, le disuguaglianze sociali registrano la forbice maggiore.
Paragonato al resto del Vecchio continente, il nostro tasso di sperequazione risulta un tantino minore. Se ne converrà che c’è ben poco da consolarsi, perché, nel complesso, Francia e Germania stanno un tantino meglio dell’Italia nel rapporto tra PIL e debito pubblico e, così, anche nel quadro delle esportazioni e dei rapporti economici con l’estero.
L’abolizione del reddito di cittadinanza sta gettando letteralmente sul lastrico centinaia di migliaia di italiani che, a differenza di una manciata di profittatori che prendevano il sussidio indebitamente sottraendolo a chi ne aveva veramente diritto e bisogno, contavano almeno su quell’introito per pagarsi l’affitto, per coprire delle spese che, altrimenti, sarebbero davvero state insostenibili.
Non si parla di lussi, ma della strettissima necessità: tasse, medicine, libri di scuola, vestiti, viveri. Nel 2024 parliamo della nostra gente sempre più povera, di noi stessi che siamo costretti a non poterci nemmeno concedere una pizza ogni tanto fuori con gli amici perché, fatti i conti, costa troppo.
Chi ha una partita IVA, stando ai dati forniti dalla CGIL nello scorso anno, guadagna mediamente meno di sedicimila euro annui. I collaboratori arrivano a malapena a novemila euro.
Le indagini sui redditi dei lavoratori parasubordinati dimostra che, in particolare per giovani e donne, lavorare non è più una garanzia di mantenimento della propria condizione di sopravvivenza. Non si sta parlando di vite in cui rimane un margine di accumulo del proprio salario o della propria pensione. Si sta evidenziando il fatto che stipendi e trattamenti INPS non coprono le minime esigenze quotidiane.
Il lavoro autonomo quindi, da garanzia di gestione del proprio futuro, è sempre meno un elemento di stabilità, di crescita anche formativa delle proprie specializzazioni. Alla povertà materiale si aggiunge, pertanto, anche quella intellettiva, professionale.
Nulla sfugge all’impoverimento generale in cui la società viene scaraventata da un liberismo che si autorigenera mediante politiche antisociali, di tutela dei grandi patrimoni a scapito della ricchezza nazionale, del pubblico, delle tutele elementari per la grande fascia di indigenti che si ingrossa di anno in anno.
Le ottimistiche previsioni di una riduzione di oltre trecentomila unità in calcolo di disoccupazione, quindi una diminuzione in percentuale di chi non lavora da lungo tempo, non sono un indice che fa sperare in una controtendenza generale.
Per oltre mezzo milione di lavoratori autonomi e parasubordinati non esiste più la garanzia di vedersi riconosciuti nell’arco di dodici mesi altrettanti contributi pensionistici, ma solo quelli relativi ad undici mesi, poiché non si riescono a raggiungere i minimali necessari (circa quindicimila e novecento euro) affinché vi sia una corrispondenza tra prestazione lavorativa e calcolo pensionistico.
L’inflazione supera il potere di acquisto degli stipendi e, quindi, la ulteriore diminuzione del valore del lavoro si accresce e impoverisce tutti i settori dell’economia; praticamente, come sempre avviene, siamo in un circolo vizioso da cui è difficilissimo uscire se non con drastiche politiche di intervento su quelle grandissime ricchezze che sono detenute soltanto dal 5% della popolazione.
Basterebbe una tassazione progressiva associata ad una patrimoniale strutturalizzata per iniziare a rovesciare la medaglia, per capovolgere almeno una parte del profondo disagio sociale che oggi decine di milioni di italiani patiscono ogni giorno.
Basterebbe dimezzare le spese militari e rinunciare a quelle grandi inutili opere che vengono presagite dal governo come motore e spinta di sviluppo dell’intero comparto meridionale del Paese, per ridare ossigeno ad una economia stagnante e pigra, ad un capitalismo che vivacchia sulle spalle laboriose di tanta povera gente che non arriva a fine mese.
Il tutto mentre gli imprenditori se la spassano nei resort di lusso, in attici con piscine, in chalet altrettanto tali e compaiono poi in televisione rampognando chi rivendica degli elementari e necessarissimi diritti sociali. L’arroganza dei ricchi è inversamente proporzionale alla loro onestà. Tanto materiale quanto intellettuale. Un po’ di sanissimo odio di classe è davvero imprescindibile a questo punto.
Ed il governo, interpretando molto coerentemente, da un punto di vista liberista a tutto tondo, le necessità della classe dirigente e del capitalismo continentale, nonché della grande finanza internazionale, stringe ancora di più sulle voci di spesa sociale, comprimendo le già magrissime risorse destinate alla preservazione di istanze necessarie che, in questo modo, saranno subordinate sempre più alla logica del privato che offre quei servizi che il pubblico viene messo in condizione di non riuscire più ad erogare.
La logica omicidiaria dei diritti fondamentali dell’essere umano e del cittadino è tutta qui: nell’aumento di un divario tra grandi ricchezze e immense povertà, facendo credere che vi saranno delle compensazioni magari grazie a controriforme (in)costituzionali che permetteranno all’esecutivo di avere mano libera rispetto ai lacci a lacciuoli messi dal legislatore parlamentare.
E che, oltretutto, con il progetto di autonomia differenziata di Calderoli si potranno tenere i propri regionali soldini in loco, rompendo quella solidarietà nazionale che i patrioti meloniani fingono di non vedere.
Il loro essere nazionalisti è mortificante per il nazionalismo stesso che, per quanto spregevole possa essere come concezione autoreferenziale ed escludente, cercava di conservare una dignità col vecchio liberalismo, col rifarsi ad una serie di precetti borghesi che contemplavano, quanto meno, il compromesso col mondo del lavoro. Al ribasso, sempre. Ma almeno lo contemplavano.
Questo sì che è patriottismo. Distribuire la povertà fra molti e la ricchezza fra pochi. E’ il mondo al contrario. Quello di generali che sognano il Parlamento europeo e scrivono libri infarciti di discriminazioni, odio e mistificazioni delle differenze come emblemi di una ragionevolezza inesprimibile se non tramite stigmi, pregiudizi e riproposizione di vecchie convenzioni razziste e omofobe, patriarcali e sessiste.
Peggio di così può ancora andare e, per questo, sarebbe bene non stare a guardare, aspettando che questo caravanserraglio di avventurieri della reazione moderna si sfracelli da solo alla prima curva. Nemmeno quello sono in grado di fare. Per il bene dell’Italia…
MARCO SFERINI