Mario Lombardo 

L’età avanzata e le condizioni mentali di Joe Biden sembrano essere diventate improvvisamente questioni vitali in vista delle elezioni di novembre che potrebbero farlo rimanere alla Casa Bianca per altri quattro anni a partire dal prossimo mese di gennaio. La disputa politica sull’argomento è esplosa in seguito alla chiusura dell’indagine del dipartimento di Giustizia americano sul ritrovamento di documenti classificati nell’abitazione privata dell’ex presidente. Il procuratore speciale assegnato al caso ha deciso per l’archiviazione, ma le motivazioni hanno provocato una polemica rovente, proprio perché hanno fatto riferimento al grave degrado cognitivo che chiunque ha potuto osservare nelle uscite pubbliche di Biden degli ultimi mesi.

Il procuratore Robert Hur ha scritto nel suo rapporto che una delle ragioni principali che l’ha spinto a non procedere con l’incriminazione di Biden è il fatto che il presidente democratico potrebbe difficilmente sostenere un processo per via dei problemi di memoria che presenta. Hur ha citato una decina di esempi a sostegno della sua tesi, presi dai verbali dei colloqui relativi alla sua indagine e dalle registrazioni avvenute nel 2018 delle interviste servite per la stesura di un libro di memorie del presidente.

I casi più citati dalla stampa americana sono stati l’incapacità di Biden di collocare temporalmente la morte di suo figlio Beau, le difficoltà a ricordare esattamente gli anni in cui ha ricoperto l’incarico di vice-presidente e le circostanze del dibattito che nel 2021 portò al ritiro dei militari americani dall’Afghanistan. Nel corso degli incontri col suo “ghostwriter” per la già ricordata biografia, Biden mostrava difficoltà anche a leggere e commentare gli appunti sui suoi diari.

Il rapporto di Hur è stato immediatamente sfruttato dal Partito Repubblicano per attaccare la Casa Bianca e chiedere le dimissioni di Biden. La leadership repubblicana alla Camera dei Rappresentanti di Washington ha firmato una dichiarazione nella quale si sostiene che, se il presidente è inidoneo a sostenere un processo, “è certamente inidoneo a restare nello Studio Ovale”.

La questione ha mandato letteralmente in crisi lo staff presidenziale e tutto il Partito Democratico. La vice-presidente, Kamala Harris, e i vertici democratici al Congresso hanno rilasciato dichiarazioni di condanna sia nei confronti dei repubblicani sia del procuratore Hur per avere evidenziato le condizioni di Biden a scopo politico. Robert Hur era stato in realtà nominato dal ministro della Giustizia di Biden, Merrick Garland, per gestire l’indagine sui documenti riservati nella disposizione del presidente. Soprattutto, il contenuto del rapporto Hur ha semplicemente rilevato una realtà evidente a chiunque.

Anche l’intervento pubblico dello stesso Biden, organizzato per smentire la versione del procuratore Hur, si è trasformato in un disastro mediatico. Nella conferenza stampa seguita alla diffusione della notizia, Biden ha confuso il presidente dell’Egitto con quello del Messico, per poi affermare che i documenti classificati rinvenuti in una delle sue residenze erano conservati in schedari chiusi a chiave, mentre almeno alcuni di essi si trovavano in contenitori facilmente accessibili in un’autorimessa.

Il problema per i democratici è che la circolazione su stampa e TV della notizia del contenuto del rapporto del dipartimento di Giustizia ha portato al centro del dibattito politico tutto il fardello della presidenza Biden, invece che focalizzare la campagna elettorale, ad esempio, sulla “minaccia” rappresentata da Donald Trump. E a essere in discussione non è solo il grave declino mentale del presidente, ma forse ancora di più la sua crescente impopolarità.

Per quanto riguarda l’età e le facoltà cognitive di Biden, un recentissimo sondaggio ha dato risultati impietosi per il presidente. Addirittura l’86% degli americani intervistati ha affermato che l’81enne Biden è troppo vecchio per completare un secondo mandato alla Casa Bianca. Peraltro, il 59% del campione ha espresso lo stesso giudizio sia per Biden sia per Trump, che compirà 78 anni il prossimo 14 giugno.

La polemica sulle condizioni di Biden minaccia quindi di fondersi con l’opposizione che negli Stati Uniti sta aumentando per le scelte dell’amministrazione democratica. Anche senza elencare le questioni domestiche, il continuo supporto alla causa persa dell’Ucraina e al genocidio palestinese condotto da Israele gravano pesantemente sui livelli di gradimento del presidente e continueranno con ogni probabilità a gravare da qui a novembre, visto che la Casa Bianca non dispone in nessuno dei due casi di un piano B per svincolarsi dalle crisi senza pagare un prezzo politico e strategico salatissimo.

Dietro alla ferma rivendicazione della totale lucidità di Biden da parte dei leader democratici c’è comunque la seria preoccupazione per una candidatura rischiosissima ed è evidente che alcuni dentro al partito auspichino che il presidente venga sostituito il prima possibile. Le ansie sono ovviamente moltiplicate dalla prospettiva di un ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Questi timori non sono da ricondurre tanto al pericolo oggettivo di una deriva autoritaria, quanto al possibile stravolgimento della politica estera americana che un secondo mandato Trump potrebbe implicare.

Nel fine settimana l’ex presidente ha dato un ulteriore anticipazione di quanto potrebbe accadere a partire dal prossimo anno, mandando nel panico “neo-con” e promotori “liberal” dell’interventismo USA all’estero. In un comizio in South Carolina, dove il 24 febbraio si terranno le elezioni primarie del Partito Repubblicano, Trump ha prospettato poco meno dello smantellamento della NATO. Dopo avere denunciato quei paesi membri dell’Alleanza che ancora non sprecano almeno il 2% del PIL in spese militari, Trump ha assicurato che, quando tornerà alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non interverranno in aiuto di questi ultimi se dovessero essere attaccati militarmente. Anzi, ha aggiunto, sarà suo scrupolo incoraggiare la Russia a “fare tutto ciò che vuole” di questi stessi paesi NATO.

Dopo che le ultime due amministrazioni democratiche, col pieno sostegno di buona parte del Partito Repubblicano, hanno investito enormemente in termini economici, militari e diplomatici sull’Ucraina in funzione anti-russa, la prospettiva di un ritorno di Trump alla presidenza e il possibile abbandono a se stesso del regime di Kiev rappresentano un vero e proprio incubo. Il successo definitivo di Mosca rischierebbe di allargare le divisioni dentro al Patto Atlantico, saldandosi al tradizionale scetticismo trumpiano per la NATO, fino a minacciarne la stessa esistenza.

È probabile che le manovre nel Partito Democratico accelerino nelle prossime settimane per correre ai ripari e trovare una soluzione alla crisi scatenata dalla questione delle condizioni mentali di Biden e dall’aggravarsi delle crisi in Ucraina e in Medio Oriente. Se è molto difficile pensare oggi a scenari diversi da una nuova sfida fra Trump e Biden a novembre, non sono da escludere possibili sorprese, che potrebbero concretizzarsi, nei casi più estremi, con l’intensificazione degli attacchi giudiziari contro il primo, fino a costringerlo a lasciare la corsa, o con un clamoroso ritiro della candidatura al secondo mandato del presidente democratico in carica

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/10212-il-declino-di-biden-e-i-dubbi-dem.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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